SUPPLICA ALLA VERGINE DEL SANTO ROSARIO DI POMPEI

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SUPPLICA ALLA  VERGINE DEL SANTO  ROSARIO  DI  POMPEI 

           

Viene recitata solennemente in tutte le chiese e in molte cese a mezzogiorno, o in altra ora per chi non può, l’otto maggio e la prima domenica di ottobre

Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.

O Augusta Regina delle Vittorie, * o Sovrana del Cielo e della Terra, * al cui nome si rallegrano i cieli e tremano gli abissi, * o Regina gloriosa del Rosario, * noi devoti figli tuoi, * raccolti nel tuo Tempio di Pompei, in questo giorno solenne * effondiamo gli affetti del nostro cuore * e con confidenza di figli * ti esprimiamo le nostre miserie.

Dal Trono di clemenza, * dove siedi Regina, * volgi, o Maria, * il tuo sguardo pietoso * su di noi, sulle nostre famiglie, * sull’Italia, sull’Europa, sul mondo. * Ti prenda compassione * degli affanni e dei travagli che amareggiano la nostra vita. * Vedi, o Madre, * quanti pericoli nell’anima e nel corpo, * quante calamità ed afflizioni ci costringono.

O Madre, * implora per noi misericordia dal tuo Figlio divino * e vinci con la clemenza * il cuore dei peccatori. * Sono nostri fratelli e figli tuoi * che costano sangue al dolce Gesù * e contristano il tuo sensibilissimo cuore. * Mostrati a tutti quale sei, * Regina di pace e di perdono.

Ave, o Maria

È vero * che noi, per primi, benché tuoi figli, * con i peccati * torniamo a crocifiggere in cuor nostro Gesù * e trafiggiamo nuovamente il tuo cuore.

Lo confessiamo: * siamo meritevoli dei più aspri castighi, * ma Tu ricordati * che, sul Golgota, * raccogliesti, col Sangue divino, * il testamento del Redentore moribondo, * che ti dichiarava Madre nostra, * Madre dei peccatori. Tu dunque, * come Madre nostra, * sei la nostra Avvocata, * la nostra speranza. * E noi, gementi, * stendiamo a te le mani supplichevoli, * gridando: Misericordia!

O Madre buona, * abbi pietà di noi, * delle anime nostre, * delle nostre famiglie, * dei nostri parenti, * dei nostri amici, * dei nostri defunti, * soprattutto dei nostri nemici * e di tanti che si dicono cristiani, * eppur offendono il Cuore amabile del tuo Figliuolo. * Pietà oggi imploriamo * per le Nazioni traviate, * per tutta l’Europa, * per tutto il mondo, * perché pentito ritorni al tuo Cuore.

Misericordia per tutti, * o Madre di Misericordia!

Ave, o Maria

Degnati benevolmente, o Maria, * di esaudirci! * Gesù ha riposto nelle tue mani * tutti i tesori delle Sue Grazie * e delle Sue misericordie.

Tu siedi, * coronata Regina, * alla destra del tuo Figlio, * splendente di gloria immortale * su tutti i Cori degli Angeli. * Tu distendi il tuo dominio * per quanto sono distesi i cieli, * e a te la terra e le creature tutte * sono soggette.*

Tu sei l’Onnipotente per Grazia, * Tu dunque puoi aiutarci. * Se Tu non volessi aiutarci, * perché figli ingrati ed immeritevoli della tua protezione, * non sapremmo a chi rivolgerci. * Il tuo cuore di Madre, * non permetterà di vedere noi, * tuoi figli, perduti. * Il Bambino che vediamo sulle tue ginocchia * e la mistica Corona che miriamo nella tua mano, * ci ispirano fiducia che saremo esauditi. * E noi confidiamo pienamente in te, * ci abbandoniamo come deboli figli * tra le braccia della più tenera fra le madri, * e, oggi stesso, * da te aspettiamo le sospirate Grazie.

Ave, o Maria

Chiediamo la benedizione a Maria

Un’ultima Grazia * noi ora ti chiediamo, o Regina, * che non puoi negarci in questo giorno solennissimo. * Concedi a tutti noi * l’amore tuo costante * e in modo speciale la materna benedizione.

Non ci staccheremo da te * finché non ci avrai benedetti. * Benedici, o Maria, in questo momento * il Sommo Pontefice. * Agli antichi splendori della tua Corona, * ai trionfi del tuo Rosario, * onde sei chiamata Regina delle Vittorie, * aggiungi ancor questo, o Madre: * concedi il trionfo alla Religione * e la pace alla umana Società. * Benedici i nostri Vescovi, * i Sacerdoti * e particolarmente tutti coloro * che zelano l’onore del tuo Santuario. * Benedici infine tutti gli associati al tuo Tempio di Pompei * e quanti coltivano e promuovono * la devozione al Santo Rosario.

O Rosario benedetto di Maria, * Catena dolce che ci rannodi a Dio, * vincolo di amore che ci unisci agli Angeli, * torre di salvezza negli assalti dell’inferno, * porto sicuro nel comune naufragio, * noi non ti lasceremo mai più.

Tu ci sarai conforto nell’ora di agonia, * a te l’ultimo bacio della vita che si spegne.

E l’ultimo accento delle nostre labbra * sarà il nome tuo soave, * o Regina del Rosario di Pompei, * o Madre nostra cara, * o Rifugio dei peccatori, * o Sovrana consolatrice dei mesti.

Sii ovunque benedetta, * oggi e sempre, * in terra e in cielo. * Amen.

Salve, Regina.  

PROMOTORE, IL BEATO BARTOLO LONGO,
UN SANTO DELLA CITTÀ DI LATIANO (BR).

Un Santo dei nostri giorni, siamo soliti pensare ai Santi come nosti avvocati.

IL BEATO BARTOLO LONGO

E’ un avvocato Santo a servizio dell’uomo e della chiesa.

Bartolo Longo è nato il 10 febbreio 1841 a Latiano (BR).

Il 14 ottobre 1883, ventimila pellegrini, riuniti a Pompei,recitarono, per la prima volta, la supplica alla Vergine del Rosario, sgorgata dal cuore di Bartolo Longo, in risposta all’Enciclica Supremi apostolatus officio (1° settembre 1883), con la quale Leone XIII, di fronte ai mali della società, additava come rimedio la recita del Rosario.

POMPEI E’ OPERA DI DIO

Tempio dello Spirito, luogo di conversione e di riconciliazione,

 di misericordia e di preghiera, di spiritualità e di santità.

POMPEI E’ DONO DELL’AMORE DI BARTOLO LONGO 

Un innamorato della vita, un avvovato santo.

POMPEI E’ ROSARIO

Progetto di vita, contemplazine dei misteri della salvezza, risugio sicuro nelle prove della vita.

POMPEI E’ LABORATORIO DI SOLIDARIETA’ E DI PROMOZIONE UMANA

Migliaia di ragazzi e ragazze, di uomini e donne, vittime del disagio sociale, sono stati accolti e restituiti alla propria dignità umana, sperimentando il calore di una casa e di una famiglia.

POMPEI E’ CROCEVIA DI UOMINI E DI  POPOLI

Di cultura e di nazionalità, luogo di incontro di una umanità assetata di Dio e desiderosa di legalità e di giustizia, di speranza e di pace.

FRASI DEL BEATO BARTOLO LONGO

Accettando i figli dei detenuti, disse: “Se non ho figli miei, possiedo quelli del cuore e questi sono i figli dei carcerati. Davanti all’immagine della Madonna pregano sia i figli delle vittime che i figli degli assassini. Il sangue del Martire più grande purifica il sangue di tutti”. 

BARTOLO LONGO

Fin da bambino  si rivelò, ricco d’ingegno, vivace, e dal carattere appassionato. Per gli studi scolastici fu mandato al collegio dei padri scolopi a Francavilla Fontana. Completò gli studi a Lecce e a Napoli, dove conseguì la laurea in legge all’età di 23 anni. Era elegante, intelligente ed anche di bell’aspetto. All’universrtà venne coinvolto nella moda anticristiana dell’epoca. I divertimenti, la musica, e gli amici riempivano la sua giornata. Tormentato da irrequetezza e depressione, logorato nel sistema nervoso, e nella salute, riuscì a risollevarsi grazie a un suo amico che riuscì a strppare al suo amico la promessa di confessarsi. Bartolo Longo, acconsentì solo malvolentieri. Quando si confessò, avvenne la sua conversione che lo portò a scelte radicali a si dedicò ad opere di carità. Nel 1872 Arrivò a Pompei per motivi professionali, e quì lo impressionò profondamente la miseria umana e religiosa di quella gente. Con molta fatica riunì per la preghiera le perone, diffidentti, nella chiesa cadente di pompei. Ognuno dovette prima imparare l’Ave Maria. Fu una lotta spirituale e tenace, ma Bartolo, salvato lui stesso grazie al Rosario, era fermamente convinto che chi prega il Rosario con perseveranza diventa non soltanto più pio, ma anche più buono. Nel 1876, su suggerimento del vescovo di Nola, iniziò la campagna di uno stipendio mensile per costruire un santuario a Pompei. Come risultato della cooperazine umana e grazie all’intercessione prodigiosa di Maria, sorse il famoso santuario, dove si verificarono immediatamente molti miracoli. Intorno a tale costuzione nacque una città Mariana, la nuova Pompei, con tipografia, case, ospedali, posta, ufficio per il telegrafo e una stazione ferroviaria.Per il suo impegno nacquero alcune opere della misericordia, ancora oggi in sviluppo, che gli hanno meritato l’appellativo “padre degli orfani”.Alla fine della sua vita visse accanto alla Basilica presso i “suoi bambini” in una stanza piccola e semplice, pregando il Rosario quasi ininterrottamente. Quì morì il 5 ottobre 1926 pronunciando le parole:”Mio unico desiderio è vedere Maria che mi ha salvato e che mi salverà dal maligno”. Papa Giovanni PaoloII lo proclamò Beato il 26 ottobre 1980. Nei suoi scritti: Maria viene presentata non come un semplice personaggio del passato, ma come una persona che è anche oggi attiva, viva, dotata di sentimenti, forte e materna. Soprattutto si può dire di lui senza esagerare che tutta la sua vita fu un servizio permanente alla chiesa, in onore di Maria e per amore di Lei.

XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C Lc 17,5-10

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Luca. (Lc 17,5-10)
In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”». Parola del Signore.

RIFLESSIONI

È un male molto diffuso tra i credenti quello di considerare la fede come un atteggiamento puramente intellettuale, come la semplice accettazione di alcune verità. Cioè una fede che si traduce in una presa di posizione teorica, senza una vera incidenza sulla vita. Questo squilibrio ha come conseguenza lo scandalo della croce: l’esitazione davanti alle difficoltà che incontriamo ogni giorno e che sono sovente insormontabili se noi non siamo abbastanza radicati in Dio. Allora ci rivoltiamo con la stessa reazione insolente e insultante che scopriamo nelle parole del libro di Abacuc.
Le due brevi parabole del testo evangelico ricordano due proprietà della fede: l’intensità e la gratuità. Per mettere in rilievo il valore di una fede minima, ma solida, Cristo insiste sugli effetti che può produrre: cambiare di posto anche all’albero più profondamente radicato. Per insistere sulla fede come dono di Dio, porta l’esempio del servitore che pone il servizio del suo amore prima di provvedere ai suoi propri bisogni. È l’esigenza del servizio del Vangelo che ci ricorda san Paolo (1Tm 1,1), ma questo stesso apostolo ci avverte che “i lavori penosi” trovano sempre l’appoggio della grazia di Dio.

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta. Capitolo 408

Gesù si trova nella campagna di Giuseppe d’Arimatea. Anche qui ferve l’opera dei mietitori. Anzi, è meglio detto, è stata fervida l’opera dei mietitori. Ormai le falci sono inutili perché non c’è più ritta una spiga, in questi campi ancor più prossimi alla sponda mediterranea di quelli di Nicodemo. Per­ché Gesù non è andato ad Arimatea, ma nei poderi che Giusep­pe ha nel piano, verso il mare e che, avanti la mietitura, dovevano essere un altro piccolo mare di spighe, tanto sono estesi.

Una casa bassa, larga, bianca, è là, al centro dei campi spo­gli. Una casa di campagna, ma ben tenuta. Le sue quattro aie stanno riempiendosi di covoni e covoni, messi a fasci come fanno i soldati con le salmerie durante le soste al campo. Carri e carri portano quel tesoro dai campi alle aie, e uomini e uomi­ni scaricano e ammucchiano, e Giuseppe gira da un’aia all’al­tra e sorveglia che tutto sia fatto, e fatto bene.

Un contadino, dall’alto del mucchio affastellato su un car­ro, annuncia: «Abbiamo finito, padrone. Tutto il grano è sulle tue aie. Questo è l’ultimo carro dell’ultimo podere».

«Sta bene. Scarica e poi stacca i bovi e conducili alle vasche e alle stalle. Hanno ben lavorato e meritano riposo. E anche voi tutti avete ben lavorato e meritate riposo. Ma l’ultima fatica sarà lieve, perché ai cuori buoni è sollievo la gioia altrui.

Ora faremo venire i figli di Dio e daremo loro il dono del Padre. Abramo, va a chiamarli», dice poi volgendosi ad un patriarca­le contadino, che forse è il primo dei servi contadini di questa tenuta di Giuseppe. Lo penso perché vedo che il rispetto degli altri servi è molto palese per questo vegliardo, che non lavora ma sorveglia e consiglia aiutando il padrone.

E il vecchio va… Lo vedo dirigersi ad una vasta e molto bassa costruzione, più simile ad una tettoia che ad una casa, munita di due portoni giganteschi che toccano la grondaia. Penso sia una specie di magazzino dove stiano ricoverati i car­ri e gli altri attrezzi agricoli. Entra là dentro e ne esce seguito da una eterogenea e misera folla di tutte le età… e di tutte le miserie…

Vi sono esseri macilenti ma senza sventure fisiche e vi sono storpi, ciechi, monchi, malati d’occhi… Molte vedove coi molti orfanelli intorno, o anche delle mogli di qualche ma­lato, tristi, dimesse, scarnite dalle veglie e dai sacrifici per cu­rare il malato.

Vengono avanti con quell’aspetto particolare dei poveri quando vanno ad un luogo in cui saranno beneficati: timidezza di sguardi, ritrosia del povero onesto, eppure un sorriso che af­fiora sopra la tristezza che giorni di dolore hanno impresso sui volti smunti, eppure una scintilla minima di trionfo, quasi una risposta all’accanirsi del destino in giorni tristi, continui, un dirgli:

«Oggi, un giorno c’è anche per noi di festa, oggi è festa, è allegria, è sollievo per noi!».

I piccoli sgranano gli occhi davanti ai mucchi dei covoni, più alti della casa, e dicono accennandoli alle mamme: «Per noi? Oh! belli!».

I vecchi mormorano: «Il Benedetto benedica il pietoso!».

I mendichi, storpi, o ciechi, o monchi, o malati d’oc­chi: «Avremo pane, infine, anche noi, senza sempre dovere stendere la mano!».

E i malati ai parenti: «Almeno potremo curarci sapendo che voi non soffrite per noi. Le medicine ci fa­ranno bene, ora».

E i parenti ai malati: «Vedete? Ora non dire­te più che noi digiuniamo per lasciare a voi il boccone. Ora state dunque lieti!…».

E le vedove agli orfanelli: «Creature mie, occorrerà benedire molto il Padre dei Cieli che vi fa da padre, e il buon Giuseppe che è il suo amministratore. Ora non vi sentiremo più piangere per fame, o figli che non avete che le vostre mamme a darvi aiuto… le povere mamme che di ricco non hanno che il cuore…». Un coro e uno spettacolo che allie­tano ma portano anche lacrime agli occhi…

E Giuseppe, avuti davanti questi infelici, si dà a scorrere le file, a chiamare uno per uno, domandando quanti sono in fa­miglia, da quanto tempo vedove, o da quanto malati, e così via… e prende appunto. E per ogni caso ordina ai servi conta­dini: «Dai dieci. Dai trenta».

«Dai sessanta», dice dopo avere ascoltato un vegliardo se­micieco che gli viene davanti con diciassette nipoti, tutti sotto i dodici anni, figli di due suoi figli, morti uno nella mietitura dell’anno prima, l’altra di parto… e dice il vecchio: «Lo sposo s’è consolato e ad altre nozze è andato dopo un anno, riman­dandomi i cinque figli, dicendo che ci avrebbe pensato. Mai un denaro, invece!… Ora mi è morta anche la donna e sono solo… con questi…».

«Dai sessanta al vecchio padre. E tu, padre, resta, che dopo ti darò vesti per i piccoli».

Il servo fa notare che, se si va a sessanta covoni per volta, non basterà il grano per tutti…

«E dove è la tua fede? Per me accumulo forse i covoni e li spartisco? No. Per i figli più cari al Signore. Il Signore stesso deve provvedere a che basti per tutti», risponde Giuseppe al servo.

«Sì, padrone. Ma il numero è numero…».

«Ma la fede è fede. Ed io, per mostrarti che la fede può tutto, ordino che sia raddoppiata la misura già data ai primi. Chi ebbe dieci abbia altri dieci, e chi venti altri venti, e centoventi siano dati al vecchio. Fa! Fate!».

I servi si stringono nelle spalle ed eseguiscono. E la distribu­zione continua fra lo stupore gioioso dei beneficati, che si vedo­no dare una misura al disopra di tutte le loro più folli speranze. E Giuseppe ne sorride, carezzando i piccoli che si affannano ad aiutare le mamme, o aiuta gli storpi che fanno il loro piccolo mucchio, aiuta i vecchi troppo cadenti per farlo, o le donne troppo macilente, e fa mettere da un lato due malati per benefi­carli con altri aiuti, come ha fatto col vecchio dai diciassette ni­poti. I cumuli, alti più della casa, sono ora molto bassi, quasi a terra. Ma tutti hanno avuto il loro e in misura abbondante.

Giuseppe domanda: «Quanti covoni restano ancora?».

«Centododici, padrone», dicono i servi dopo avere contato i residui.

«Bene. Ne prenderete…».

Giuseppe scorre la lista dei nomi che ha segnato e poi dice: «Ne prenderete cinquanta. Li ripor­rete per semente, perché è seme santo. E il resto sia dato, uno per uno, ad ogni capo di famiglia qui presente. Sono esatta­mente sessantadue capi».

I servi ubbidiscono. Portano sotto un portico i cinquanta covoni e danno il resto. Ora le aie non hanno più i grossi muc­chi d’oro. Ma per terra sono sessantadue mucchietti di diversa misura, e i loro proprietari si affannano a legarli e a caricarli su primordiali carriole, oppure su stenti asinelli che sono an­dati a slegare da una staccionata sul dietro della casa

Il vecchio Abramo, che ha confabulato coi principali fra i servi contadini, si avvicina con questi al padrone che li interro­ga: «Ebbene? Avete visto? Ce ne è stato per tutti! E con avan­zo!».

«Ma padrone! Qui c’è un mistero! I nostri campi non posso­no aver dato il numero dei covoni che tu hai distribuito. Io so­no nato qui e ho settantotto anni. Sego da sessantasei anni. E so. Mio figlio aveva ragione. Senza un mistero non avremmo potuto dare tanto!…».

«Ma è realtà che abbiamo dato, Abramo. Tu eri al mio fianco. I covoni sono stati dati dai servi. Non c’è sortilegio. Non è irrealtà. I covoni si possono ancora contare. Sono ancora là, sebbene divisi in tante parti».

«Sì, padrone. Ma… Non è possibile che i campi ne abbiano dati tanti!».

«E la fede, figli miei? E la fede? Dove mettete la fede? Pote­va smentire il Signore il suo servo che prometteva in suo Nome e per santo fine?».

«Allora tu hai fatto miracolo?!», dicono i servi, pronti già all’osanna.

«Non sono uomo da miracoli io. Sono un povero uomo. Il Signore lo ha fatto. Mi ha letto nel cuore e vi ha visto due desi­deri: il primo era quello di portarvi alla mia stessa fede. Il se­condo era quello di dare tanto, tanto, tanto a questi miei fra­telli infelici. Dio ha annuito ai miei desideri… ed ha fatto. Che Egli ne sia benedetto!», dice Giuseppe con un inchino riveren­te come fosse davanti ad un altare.

«E il suo servo con Lui», dice Gesù che è rimasto fino ad al­lora celato dietro lo spigolo di una casetta cinta da una siepe, non so se forno o frantoio, e che adesso appare apertamente sull’aia dove è Giuseppe.

«Maestro mio e mio Signore!!», esclama Giuseppe cadendo in ginocchio per venerare Gesù.

«La pace a te. Sono venuto a benedirti in nome del Padre. Per premiare la tua carità e la tua fede. Sono tuo ospite per questa sera. Mi vuoi?».

«Oh! Maestro! Lo chiedi? Soltanto… Soltanto qui non potrò farti onore… Sono fra servi contadini… nella mia casa di cam­pagna… Non ho stoviglie fini, non ho maestri di mensa né ser­vi capaci… Non ho cibi raffinati… Non ho vini scelti… Non ho amici… Sarà una ben povera ospitalità… Ma Tu compatirai…

Perché, Signore, non mi hai fatto avvisare? Avrei provveduto… Ma ieri l’altro Erma, coi suoi, fu qui… Anzi me ne sono servito per fare avvisati questi ai quali volevo dare, rendere, ciò che è di Dio… Ma non mi ha detto nulla, Erma! Avessi saputo!… Permetti, Maestro, che dia ordini, che cerchi di rimediare… Perché sorridi così?», chiede infine Giuseppe che è tutto sossopra per la gioia improvvisa e per la situazione che egli giudi­ca… disastrosa.

«Sorrido per le tue inutili pene. Ma, o Giuseppe, che cerchi? Ciò che hai?».

«Che ho? Non ho nulla».

«Oh! come sei uomo ora! Perché non sei più lo spirituale Giuseppe di poco fa, quando parlavi da sapiente? Quando pro­mettevi, sicuro, per la fede e per dare la fede?».

«Oh! hai sentito?».

«Sentito e visto, Giuseppe. Quella siepe di lauri è molto uti­le a vedere che ciò che ho seminato non è morto in te. E per questo ti dico che ti dai delle inutili pene. Non hai maestri di tavola né servi capaci? Ma dove si esercita carità là è Dio, e do­ve è Dio là sono i suoi Angeli.

E che maestri di casa vuoi avere più capaci di quelli? Non hai cibi né vini prelibati? E quale ci­bo vuoi darmi e quale bevanda più prelibata dell’amore che hai avuto per costoro e che hai per Me? Non hai amici per far­mi onore? E questi? Quali amici più diletti dei poveri e degli infelici per il Maestro che ha nome Gesù?

Suvvia, Giuseppe! Neppure se Erode si convertisse e mi aprisse le sue sale per ospitarmi e darmi onore, in una reggia purificata, e con lui fos­sero i capi di tutte le caste ad onorarmi, Io avrei una corte più scelta di questa alla quale voglio Io pure dire una parola e dare un dono. Permetti?».

«Oh! Maestro! Ma tutto ciò che Tu vuoi io voglio! Ordina».

«Di loro che si radunino, e così si radunino i servi. Per noi ci sarà sempre un pane… Meglio è che ora ascoltino la mia pa­rola anziché correre qua e là, indaffarati in povere cure».

La gente si accalca sollecita, stupita…

Gesù parla: «Qui avete già conosciuto che la fede può moltiplicare il grano quando questo desiderio viene da desiderio d’amore. Ma non limitate la vostra fede alle necessità materia­li. Dio creò il primo chicco di frumento e d’allora spighisce il frumento per il pane degli uomini.

Ma Dio creò anche il Para­diso ed esso attende i suoi cittadini. È stato creato per coloro che vivono nella Legge e restano fedeli nonostante le prove do­lorose della vita. Abbiate fede e riuscirete a conservarvi santi con l’aiuto del Signore, così come Giuseppe riuscì ad assegnare il grano in misura doppia per farvi felici due volte e conferma­re nella fede i suoi servi.

In verità, in verità vi dico che se l’uo­mo avesse fede nel Signore, e per un giusto motivo, neppur le montagne, confitte con le loro viscere di roccia nel suolo, po­trebbero resistere, e al comando di chi ha fede nel Signore si sposterebbero. Avete voi fede in Dio?», chiede rivolgendosi a tutti.

«Sì, o Signore!».

«Chi è Dio per voi?».

«Il Padre Santissimo, come i discepoli del Cristo insegnano».

«E il Cristo chi è per voi?».

«Il Salvatore. Il Maestro. Il Santo!».

«Questo solo?».

«Il Figlio di Dio. Ma non bisogna dirlo, perché i farisei ci perseguitano se lo diciamo».

«Ma voi credete che Egli lo sia?».

«Sì, o Signore».

«Orbene, crescete nella vostra fede. Anche se voi tacerete, le pietre, le piante, le stelle, il suolo, tutte le cose proclameranno che il Cristo è il vero Redentore e Re. Lo proclameranno nell’o­ra della sua assunzione, quando Egli sarà nella porpora santis­sima e col serto di Redenzione. Beati quelli che sapranno cre­dere questo fin da ora, e più ancora lo crederanno allora, e avranno fede nel Cristo e vita eterna perciò. L’avete voi questa fede incrollabile in Cristo?».

«Sì, o Signore. Insegnaci dove Egli è, e noi Lo pregheremo di aumentare la nostra fede per essere beati così». E l’ultima par­te di preghiera la fanno non solo i poveri, ma anche i servi, gli apostoli e Giuseppe.

«Se avrete tanta fede quanto un granello di senapa e questa fede, perla preziosa, terrete nel cuore senza farvela rapire da nessuna cosa umana, o soprumana e malvagia, potrete tutti anche dire a quel gelso potente che ombreggia il pozzo di Giu­seppe: “Sbarbati di lì e trapiantati fra le onde del mare”».

«Ma Cristo dove è? Noi Lo attendiamo per essere guariti. I discepoli non ci hanno guariti, ma ci hanno detto: “Egli lo può”. Vorremmo guarire per lavorare, noi», dicono degli uomi­ni malati o inabili.

«E credete che Cristo lo possa?», dice Gesù facendo cenno a Giuseppe di non dire che il Cristo è Lui.

«Lo crediamo. Egli è il Figlio di Dio. Tutto può».

«Sì. Tutto può… e tutto vuole!», grida Gesù stendendo con impero il braccio destro e abbassandolo come per giurare. E ter­mina con un grido potente: «E così sia fatto, a gloria di Dio!».

E fa per volgersi verso la casa. Ma i guariti, una ventina, ur­lano, accorrono e Lo serrano in un groviglio di mani stese a toc­care, a benedire, a cercare le sue mani, le sue vesti, per baciare, per carezzare. Lo isolano da Giuseppe, da tutti…

E Gesù sorride, carezza, benedice… Si libera lentamente e, ancora inseguito, scompare nella casa, mentre gli osanna sal­gono nel cielo che si fa violaceo nel primo crepuscolo.

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C Lc 16,19-31

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 16,19-31)
Gesù disse ai farisei:
«C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.
Ma Abramo rispose: “Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.
E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”». Parola del Signore.

RIFLESSIONI

Con questa parabola Gesù ci richiama l’irreparabile eternità delle pene dell’inferno. È un discorso duro, ma viene dalle labbra di Gesù. Il ricco Epulone, che durante la vita terrena non ha praticato la carità, soffre irrimediabilmente nell’oltrevita. Egli, come i suoi fratelli, conosceva la legge e le profezie che specificano i modi della giustizia divina: forse riteneva che per lui si sarebbe fatta un’eccezione, e invece tutto si compie alla lettera. Siamo avvertiti anche noi: non possiamo edulcorare la legge di Cristo, affidarci a una “misericordia” che non trovi corrispettivo nella nostra carità. Finché siamo quaggiù abbiamo tempo per compiere il bene, e in tal modo guadagnarci la felicità eterna: poi sarà troppo tardi. Gesù dà un senso anche alle sofferenze di Lazzaro: le ingiustizie terrene saranno largamente compensate nell’altra vita, l’unica che conta. Abbiamo il dovere di far conoscere a tutti, cominciando dalle persone che amiamo, la logica della giustizia divina: e questa è la forma più squisita della carità.

 

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta Capitolo 191

“Consegna a Michea tanto denaro che domani egli possa ricompensare quanto oggi si è fatto prestare dai contadini di questa zona”, dice Gesù a Giuda Iscariota, che generalmente amministra le… sostanze comuni.

E poi Gesù chiama Andrea e Giovanni e li manda in due punti in cui si può vedere la strada o le strade che vengono da Jezrael. Chiama poi Pietro e Simone e li manda incontro ai contadini di Doras con l’ordine di fermarli presso il confine fra le due proprietà. Infine dice a Giacomo e Giuda: “Prendete le cibarie e venite”.

Li seguono i contadini di Giocana, donne, uomini e bambini, e gli uomini portano due piccole anfore, piccole per modo di dire, che devono essere colme di vino. Più che anfore sono giarre e conterranno su per giù quei dieci litri ognuna. Vanno là dove un folto vigneto, già tutto coperto di foglie novelle, indica la fine dei possessi di Giocana. Oltre vi è un largo fossato, mantenuto pieno d’acqua con chissà che fatica.

Gesù ascolta con benignità le confidenze di alcuni che lamentano le angherie di Doras e intanto attende i poveri contadini di Doras, che non tardano a venire e che si prostrano al suolo non appena vedono Gesù al riparo di un albero.

“Pace a voi, amici. Venite. Oggi la sinagoga è qui ed Io sono il vostro sinagogo. Ma prima voglio essere il vostro padre di famiglia. Sedete in cerchio, che vi dia un cibo. Oggi avete lo Sposo, e facciamo convito di nozze”.

E Gesù scopre una cesta e ne trae pani che dà agli stupiti contadini di Doras, e dall’altra leva quelle cibarie che ha potuto trovare: formaggi, verdure che ha fatto cucinare e un piccolo caprettino o agnellino, cotto intero, che spartisce ai poveri disgraziati, poi versa il vino e fa circolare il rozzo calice perché tutti bevano.

“Ma perché? Ma perché? E loro?”, dicono quelli di Doras accennando a quelli di Giocana.

“Loro hanno già avuto”.

“Ma che spesa! Come hai potuto?”.

“Ci sono ancora dei buoni in Israele”, dice Gesù sorridendo.

“Ma oggi è sabato…”.

“Ringraziate quest’uomo”, dice Gesù accennando all’uomo di Endor. “È lui che ha procurato l’agnello. Il resto fu facile averlo”.

Quei poveretti divorano -è la parola- il cibo da tanto sconosciuto. Vi è uno, piuttosto vecchio, che si stringe al fianco un fanciullo di un dieci anni circa; mangia e piange.

“Perché, padre, fai così?…”, chiede Gesù.

“Perché la tua bontà è troppa…”.

L’uomo di Endor dice con la sua voce gutturale: “È vero… e fa piangere. Ma il pianto è senza amaro…”.

“È senza amaro. È vero. E poi… io vorrei una cosa. È anche desiderio questo pianto”.

“Che vuoi, padre?”.

“Questo fanciullo lo vedi? È mio nipote. Mi è rimasto dopo la frana di questo inverno. Doras neppure sa che mi ha raggiunto, perché lo faccio vivere come una bestia selvatica nel bosco e solo al sabato lo vedo. Se me lo scopre, o lo caccia o lo mette al lavoro… e sarà peggio di un animale da soma questo tenero mio sangue… A Pasqua lo manderò con Michea a Gerusalemme per divenire figlio della Legge… e poi?… È il figlio di mia figlia…”.

“Lo daresti a Me, invece? Non piangere. Ho tanti amici che sono onesti, santi e senza figli. Lo alleveranno santamente, nella mia via…”.

“Oh! Signore! Da quando ho saputo di Te l’ho desiderato. E pregavo il santo Giona, lui che sa cosa è essere di questo padrone, di salvare il mio nipote da questa morte…”.

“Fanciullo, verresti con Me?”.

“Sì, mio Signore. E non ti darò dolore”.

“È detto”.

“Ma… a chi lo vuoi dare?”, chiede Pietro tirando Gesù per una manica. “A Lazzaro anche questo?”.

“No, Simone. Ma ce ne sono tanti senza figli…”.

“Ci sono anche io…”. Il viso di Pietro pare fino affilarsi nel desiderio.

Simone, te l’ho detto. Tu devi essere il “padre” di tutti i figli che Io ti lascerò in eredità. Ma non devi avere la catena di nessun figlio tuo proprio. Non ti mortificare. Tu sei troppo necessario al Maestro perché il Maestro possa staccarti da Sé per un affetto. Sono esigente, Simone. Sono esigente più di uno sposo gelosissimo. Ti amo con ogni predilezione e ti voglio tutto per Me e di Me”.

“Va bene, Signore… Va bene… Sia fatto come Tu vuoi”. Il povero Pietro è eroico nel suo aderire a questa volontà di Gesù.

«Sarà il figlio della mia nascente Chiesa. Va bene? Di tutti e di nessuno. Sarà il “nostro” bambino. Ci seguirà quando lo permetteranno le distanze, o ci raggiungerà, e suoi tutori saranno i pastori, loro che amano nei bambini tutti il “loro” bambino Gesù. Vieni qui, fanciullo. Come ti chiami?”.

“Jabé di Giovanni, e son di Giuda”, dice sicuro il ragazzo.

“Sì. Siamo giudei noi”, conferma il vecchio. “Io lavoravo nelle terre di Doras in Giudea, e mia figlia si è sposata con uno di quelle parti. Lavorava ai boschi presso Arimatea e quest’in-verno…”.

“Ho visto la sventura”.

“Il fanciullo si è salvato perché quella notte era da un parente lontano… Veramente si è portato il nome, Signore! L’ho detto subito a mia figlia: “Perché? Non ricordi l’antico?”. Ma il marito volle chiamarlo così, e Jabé fu”.

“Il fanciullo invocherà il Signore e il Signore lo benedirà e dilaterà i suoi confini, e la mano del Signore è sulla sua mano, ed egli non sarà più oppresso dal male”. Questo gli concederà il Signore per consolare te, padre, gli spiriti dei morti, e confortare l’orfano.

Ed ora che abbiamo separato il bisogno del corpo da quello dell’anima con un atto di amore al fanciullo, ascoltate la parabola che ho pensata per voi.

Vi era un tempo un uomo molto ricco. Le vesti più belle erano le sue, e nei suoi abiti di porpora e di bisso si pavoneggiava nelle piazze e nella sua casa, riverito dai cittadini come il più potente del paese, e dagli amici che lo secondavano nella sua superbia per averne utile.

Le sue sale erano aperte ogni giorno in splendidi banchetti in cui la folla degli invitati, tutti ricchi, e perciò non bisognosi, si pigiavano adulando il ricco Epulone. I suoi banchetti erano celebri per abbondanza di cibi e di vini prelibati.

Ma nella stessa città vi era un mendico, un grande mendico. Grande nella sua miseria come l’altro era grande nella sua ricchezza. Ma sotto la crosta della miseria umana del mendico Lazzaro vi era celato un tesoro ancor più grande della miseria di Lazzaro e della ricchezza dell’Epulone. Ed era la santità vera di Lazzaro.

Egli non aveva mai trasgredito alla Legge, neppure sotto la spinta del bisogno, e soprattutto aveva ubbidito al precetto dell’amore verso Dio e verso il prossimo.

Egli, come sempre fanno i poveri, si accostava alle porte dei ricchi per chiedere l’obolo e non morire di fame. E andava ogni sera alla porta dell’Epulone sperando averne almeno le briciole dei pomposi banchetti che avvenivano nelle ricchissime sale. Si sdraiava sulla via, presso la porta, e paziente attendeva.

Ma se l’Epulone si accorgeva di lui lo faceva scacciare, perché quel corpo coperto di piaghe, denutrito, in vesti lacere, era una vista troppo triste per i suoi convitati. L’Epulone diceva così. In realtà era perché quella vista di miseria e di bontà era un rimprovero continuo per lui.

Più pietosi di lui erano i suoi cani, ben pasciuti, dai preziosi collari, che si accostavano al povero Lazzaro e gli leccavano le piaghe, mugolando di gioia per le sue carezze, e giungevano a portargli gli avanzi delle ricche mense, per cui Lazzaro sopravviveva alla denutrizione per merito degli animali, perché per mezzo dell’uomo sarebbe morto, non concedendogli l’uomo neppure di penetrare nella sala dopo il convito per raccogliere le briciole cadute dalle mense.

Un giorno Lazzaro morì. Nessuno se ne accorse sulla Terra, nessuno lo pianse. Anzi ne giubilò l’Epulone di non vedere quel giorno né poi quella miseria che egli chiamava “obbrobrio” sulla sua soglia. Ma in Cielo se ne accorsero gli Angeli. E al suo ultimo anelito, nella sua tana fredda e spoglia, erano presenti le coorti celesti, che in un folgoreggiare di luci ne raccolsero l’anima portandola con canti di osanna nel seno di Abramo.

Passò qualche tempo e morì l’Epulone. Oh! che funerali fastosi! Tutta la città, che già sapeva della sua agonia e che si pigiava sulla piazza dove sorgeva la sua dimora per essere notata come amica del grande, per curiosità, per interesse presso gli eredi, si unì al cordoglio, e gli ululi salirono al cielo e con gli ululi del lutto le lodi bugiarde al “grande”, al “benefattore”, al “giusto” che era morto.

Può parola d’uomo mutare il giudizio di Dio? Può apologia umana cancellare quanto è scritto sul libro della Vita? No, non può. Ciò che è giudicato è giudicato, e ciò che è scritto è scritto. E, nonostante i funerali solenni, l’Epulone ebbe lo spirito sepolto nell’inferno.

Allora, in quel carcere orrendo, bevendo e mangiando fuoco e tenebre, trovando odio e torture in ogni dove e in ogni attimo di quella eternità, alzò lo sguardo al Cielo. Al Cielo che aveva visto in un bagliore di folgore, in un atomo di minuto, e la cui non dicibile bellezza gli rimaneva presente ad essere tormento fra i tormenti atroci.

E vide lassù Abramo. Lontano, ma fulgido, beato… e nel suo seno, fulgido e beato pure egli, era Lazzaro, il povero Lazzaro un tempo spregiato, repellente, misero, ed ora?… Ed ora bello della Luce di Dio e della sua santità, ricco dell’amore di Dio, ammirato non dagli uomini ma dagli Angeli di Dio.

Epulone gridò piangendo: “Padre Abramo, abbi pietà di me! Manda Lazzaro, poiché non posso sperare che tu stesso lo faccia, manda Lazzaro ad intingere la punta del suo dito nell’acqua e a posarla sulla mia lingua per rinfrescarla, perché io spasimo per questa fiamma che mi penetra di continuo e mi arde!”.

Abramo rispose: “Ricordati, figlio, che tu avesti tutti i beni in vita, mentre Lazzaro ebbe tutti i mali. E lui seppe del male fare un bene, mentre tu non sapesti dei tuoi beni fare nulla che male non fosse. Perciò è giusto che ora lui sia qui consolato e che tu soffra. Inoltre non è più possibile farlo.

I Santi sono sparsi sulla Terra perché gli uomini di loro se ne avvantaggino. Ma quando, nonostante ogni vicinanza, l’uomo resta quello che è -nel tuo caso, un demonio- è inutile poi ricorrere ai Santi.

Ora noi siamo separati.

Le erbe sul campo sono mescolate. Ma una volta che sono falciate vengono separate dalle buone le malvagie. Così è di voi e di noi. Fummo insieme sulla Terra e ci cacciaste, ci tormentaste in tutti i modi, ci dimenticaste, contro l’amore. Ora siamo divisi. Tra voi e noi c’è un tale abisso che quelli che vogliono passare da qui a voi non possono, né voi, che lì siete, potete valicare l’abisso tremendo per venire a noi”.

Epulone piangendo più forte gridò: “Almeno, o padre santo, manda -io te ne prego-, manda Lazzaro a casa di mio padre. Ho cinque fratelli. Non ho mai capito l’amore neppure fra parenti. Ma ora, ora comprendo cosa è di terribile essere non amati.

E, poi che qui dove io sono è l’odio, ora ho capito, per quell’atomo di tempo che vide la mia anima Iddio, cosa è l’Amore. Non voglio che i miei fratelli soffrano le mie pene. Ho terrore per loro che fanno la mia stessa vita. Oh! manda Lazzaro ad avvertirli di dove io sono, e perché ci sono, e a dire loro che l’inferno è, ed è atroce, e che chi non ama Dio e il prossimo all’inferno viene.

Mandalo! Che in tempo provvedano, e non abbiano a venire qui, in questo luogo di eterno tormento”.

Ma Abramo rispose: “I tuoi fratelli hanno Mosè ed i Profeti. Ascoltino quelli”.

E con gemito di anima torturata rispose l’Epulone: “Oh! padre Abramo! Farà loro più impressione un morto… Ascoltami! Abbi pietà!”.

Ma Abramo disse: “Se non hanno ascoltato Mosè ed i Profeti, non crederanno nemmeno ad uno che risusciti per un’ora dai morti per dire loro parole di Verità. E d’altronde non è giusto che un beato lasci il mio seno per andare a ricevere offese dai figli del Nemico. Il tempo delle ingiurie per esso è passato. Ora è nella pace e vi sta, per ordine di Dio che vede l’inutilità di un tentativo di conversione presso coloro che non credono neppure alla Parola di Dio e non la mettono in pratica”.

Questa la parabola, il cui significato è così chiaro da non meritare neppure una spiegazione.

Qui veramente è vissuto conquistando la santità il Lazzaro novello, il mio Giona, la cui gloria presso Dio è palese nella protezione che dà a chi spera in Lui. A voi sì che Giona può venire, protettore e amico, e ci verrà se sarete sempre buoni.

Io vorrei, e dico a voi ciò che dissi a lui la scorsa primavera, Io vorrei potervi tutti aiutare, anche materialmente, ma non posso, ed è il mio dolore. Non posso che additarvi il Cielo. Non posso che insegnarvi la grande sapienza della rassegnazione promettendovi il Regno futuro.

Non odiate mai, per nessuna ragione. L’Odio è forte nel mondo. Ma ha sempre un limite l’Odio. L’Amore non ha limite di potenza né di tempo. Amate perciò, per possederlo a difesa e conforto sulla Terra e a premio in Cielo. Meglio essere Lazzari che Epuloni, credetelo. Giungete a crederlo e sarete beati.

Non sentite nel castigo di questi campi una parola d’odio, anche se i fatti lo potevano giustificare. Non leggete male nel miracolo. Io sono l’Amore e non avrei colpito. Ma, visto che l’Amore non poteva piegare l’Epulone crudele, l’ho abbandonato alla Giustizia, ed essa ha fatto le vendette del martire Giona e dei suoi fratelli.

Voi imparate questo dal miracolo. Che la Giustizia è sempre vigile anche se pare assente e che, essendo Dio Padrone di tutto il creato, si può servire, per l’applicazione di essa, dei minimi quali i bruchi e le formiche per mordere il cuore del crudele e dell’avido e farlo morire in un rigurgito di veleno che lo strozza.

 

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C Lc 16,1-13

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 16,1-13)
Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”.
L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”.
Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”.
Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.
Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza». Parola del Signore.

Forma breve

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 16, 10-13)
Gesù diceva ai discepoli: «Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza». Parola del Signore.

RIFLESSIONI

Vi è prima una parabola e poi una serie di ammonimenti che commentano un elemento della parabola stessa e cioè l’uso del denaro. La parabola, come è ovvio, non loda il fattore perché è disonesto, ma perché ha la chiarezza e la decisione di imboccare l’unica via di salvezza che gli si prospetta. Si sa che l’arte di cavarsela è molto applicata nelle ambigue imprese di questo mondo. Lo è molto meno nella grande impresa della salvezza eterna. Perciò Gesù ci rimprovera di essere più pronti a salvarci dai mali mondani che dal male eterno, lui che da parte sua ha fatto di tutto perché fossimo salvati, fino a salire in croce per noi. Non ci decidiamo a credere che, se non portiamo il nostro peccato davanti a Dio, siamo perduti. Cominciamo le nostre Messe confessando i peccati che abbiamo commessi, ma usciti di chiesa ricominciamo a parlare di quelli altrui.
Un “test” decisivo dell’autenticità della nostra decisione cristiana è proprio l’uso del denaro.
Non è disonesta la ricchezza in sé, né maledizione la ricchezza esteriore. Ma lo è la ricchezza come idolo, innamoramento e progetto, come deformazione interiore del cuore e della mente, che vogliono a tutti i costi essere produttori di potenza e quindi di potere economico.
Occorre decidersi a scegliere: o mammona o Dio; cioè: o essere il signore per signoreggiare o servire il Signore e godere della sua onnipotenza d’amore.
C’è un solo modo di liberarsi dalla schiavitù della ricchezza: farsi “amici” per mezzo di ciò che si ha, cioè con l’impegno della solidale condivisione.

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato”
di Maria Valtorta
Capitolo 381

Molta folla è in attesa del Maestro ed è sparsa per le pendici più basse di un monte piuttosto isolato, perché emergente da un intreccio di valli che lo circondano e dalle quali le sue pendici sorgono, meglio, balzano dirute, a picco quasi, in certi posti proprio a picco. Per giungere alla cima, un sentiero intagliato nella roccia calcarea graffia le coste del monte con una serpentina, che in certi posti ha per confine da un lato la parete diritta del monte, dall’altro il precipizio che scoscende.

La gente si è accampata su questi e attende paziente la venuta del Signore. Deve essere il giorno seguente al discorso agli apostoli, perché è fresca mattina e la rugiada non si è ancora evaporata su tutti gli steli.

L’apparizione di Gesù, bianco-vestito di lino ma ammantellato del rosso mantello per conciliare il caldo delle ore solari col fresco delle notti non ancora estive, è subitanea. Egli guarda, non visto, la gente che Lo attende, e sorride. Pare provenire dal dietro (ovest) del monte, da una mezza altezza, e scende rapido per il sentieruolo difficile.

Inizia a parlare.

«Bello sarebbe se l’uomo fosse perfetto come lo vuole il Padre dei Cieli. Perfetto in ogni suo pensiero, affetto, atto. Ma l’uomo non sa essere perfetto e usa male i doni di Dio, il quale ha dato all’uomo libertà di agire, comandando, però, le cose buone, consigliando le perfette, acciò l’uomo non potesse dire: “Io non sapevo”.

Come usa l’uomo della libertà che Dio gli ha data?

Come potrebbe usarne un bambino nella gran parte dell’umanità, o come uno stolto, o anche come un delinquente, nelle altre parti. Ma poi viene la morte, e allora l’uomo è soggetto al Giudice che chiederà severo: “Come usasti e abusasti di ciò che ti avevo dato?”.

Tremenda domanda!

Come allora men che festuche di paglia appariranno i beni della Terra, per i quali così spesso l’uomo si fa peccatore! Povero di una miserabilità eterna, nudo di una veste che nulla può surrogare, starà avvilito e tremante davanti alla maestà del Signore, né troverà parola per giustificarsi.

Perché sulla terra è facile giustificarsi, ingannando i poveri uomini. Ma in Cielo ciò non può accadere. Dio non si inganna. Mai. E Dio non scende a compromessi. Mai. Come allora salvarsi?

Come fare servire tutto a salvezza, anche ciò che è venuto dalla corruzione che ha insegnato i metalli e le gemme come strumenti di ricchezza, che ha acceso smanie di potere e appetiti di carne?

Non potrà allora l’uomo, che per povero che sia può sempre peccare desiderando smoderatamente oro, cariche e donne -e talora diviene ladro di queste cose per avere ciò che il ricco aveva- non potrà allora l’uomo, ricco o povero che sia, salvarsi mai? Sì che può. E come?

Sfruttando le dovizie per il Bene, sfruttando la miseria per il Bene.

Il povero che non invidia, non impreca e non attenta a ciò che è d’altri, ma di ciò che ha si contenta, sfrutta il suo umile stato per averne santità futura e, in verità, la maggioranza dei poveri sa fare questo. Meno lo sanno fare i ricchi, per i quali la ricchezza è un continuo tranello di satana, della triplice concupiscenza.

Ma udite una parabola e vedrete che anche i ricchi possono salvarsi pur essendo ricchi, o riparare ai loro errori passati coll’uso buono delle ricchezze anche se male acquistate. Perché Dio, il Buonissimo, lascia sempre molti mezzi ai suoi figli perché si salvino.

C’era dunque un ricco il quale aveva un fattore. Alcuni, nemici di questo perché invidiosi del buon posto che aveva, oppure molto amici del ricco e perciò premurosi del suo benessere, accusarono il fattore al suo padrone: “Egli dissipa i tuoi beni. Se ne appropria. Oppure trascura di farli fruttare. Sta attento! Difenditi!”.

Il ricco, udite le ripetute accuse, comandò al fattore di comparirgli davanti. E gli disse:

“Di te mi è stato detto questo e quello. Come mai hai agito in tal modo? Dammi il rendiconto della tua amministrazione perché non ti permetto più di tenerla. Non posso fidarmi di te e non posso dare un esempio di ingiustizia e di indifferenza che indurrebbe i conservi ad agire come tu hai agito. Va e torna domani con tutte le scritture, che io le esamini per rendermi conto della posizione dei miei beni prima di darli ad un nuovo fattore”.

E licenziò il fattore, che se ne andò pensieroso dicendo fra sé:

“E ora? Come farò ora che il padrone mi leva la fattoria? Economie non ne ho perché, persuaso come ero di farla franca, tanto usurpavo tanto godevo. Mettermi come contadino e sottoposto non mi va perché sono disusato al lavoro e appesantito dai bagordi. Chiedere l’elemosina mi va meno ancora. Troppo avvilimento! E che farò?”.

Pensa e pensa, trovò modo di uscire dalla penosa situazione. Disse:

“Ho trovato! Con lo stesso mezzo come mi sono assicurato un bel vivere fino ad ora, d’ora in poi mi assicurerò amici che mi ospiteranno per riconoscenza quando non avrò più la fattoria. Chi benefica ha sempre amici. Andiamo dunque a beneficare per essere beneficato e andiamoci subito, prima che la notizia si sparga e sia troppo tardi”.

E andato dai diversi debitori del suo padrone disse al primo:

“Quanto devi tu al mio padrone per la somma che ti prestò alla primavera di tre anni fa?”.

E l’interrogato rispose: “Cento barili d’olio per la somma e gli interessi”.

“Oh! poverino! Tu, così carico di prole, tu afflitto da malattie nei figli, dover dare tanto?! Ma non ti dette per un valore di trenta barili?”.

“Sì. Ma avevo bisogno subito e lui mi disse: ‘Te lo do. Ma a patto che tu mi dia quanto la somma ti frutta in tre anni’. Mi ha fruttato per un valore di cento barili. E li devo dare”.

“Ma è un’usura! No. No. Lui è ricco e tu sei appena fuori della fame. Lui è con poca famiglia e tu con tanta. Scrivi che ti ha fruttato per cinquanta barili e non ci pensare più. Io giurerò che ciò è vero. E tu avrai benessere”.

“Ma non mi tradirai? Se lo viene a sapere?”.

“Ti pare? Io sono il fattore, e ciò che giuro è sacro. Fa come ti dico e sii felice”.

L’uomo scrisse, consegnò e disse: “Te benedetto! Mio amico e salvatore! Come compensarti?”.

“Ma in nessun modo! Vuol dire che, se per te avessi a soffrire ed essere cacciato, tu mi accoglierai per riconoscenza”.

“Ma certo! Certo! Contaci pure”.

Il fattore andò da un altro debitore, tenendo su per giù lo stesso discorso. Costui doveva rendere cento staia di grano, perché per tre anni la secca aveva distrutto le sue biade e aveva dovuto chiederne al ricco per sfamare la famiglia.

“Ma non ci pensare a raddoppiare ciò che ti ha dato! Negare il grano! Esigerne il doppio da uno che ha fame e figli, mentre il suo tarla nei granai perché ce ne è in esuberanza! Scrivi ottanta staia”.

“Ma se si ricorda che me ne ha date venti e venti e poi dieci?”.

“Ma che vuoi che ricordi? Io te li ho dati e io non voglio ricordare. Fa, fa così e mettiti a posto. Giustizia ci vuole fra poveri e ricchi! Io già, se ero io il padrone, volevo solo le cinquanta staia e forse condonavo anche quelle”.

“Tu sei buono. Fossero tutti come te! Ricordati che la mia casa ti è amica”.

Il fattore andò da altri, tenendo lo stesso metodo, professandosi pronto a soffrire per rimettere le cose a posto con giustizia. E offerte di aiuti e benedizioni piovvero su lui.

Rassicurato sul domani, andò tranquillo dal padrone, il quale a sua volta aveva pedinato il fattore e scoperto il suo giuoco. Pure lo lodò dicendo:

“La tua azione non è buona e per essa non ti lodo. Ma lodarti devo per la tua accortezza. In verità, in verità i figli del secolo sono più avveduti dei figli della luce”.

E ciò che disse il ricco Io pure vi dico:

“La frode non è bella, e per essa Io non loderò mai nessuno. Ma vi esorto ad essere, almeno come figli del secolo, avveduti con i mezzi del secolo, per farli usare a monete per entrare nel regno della Luce”.

Ossia con le ricchezze terrene, mezzi ingiusti nella ripartizione e usati per l’acquisto di un benessere transitorio che non ha valore nel Regno eterno, fatevene degli amici che vi aprano le porte di esso. Beneficate coi mezzi che avete, restituite quello che voi, o altri della vostra famiglia, hanno preso senza diritto, distaccatevi dall’affetto malato e colpevole per le ricchezze.

E tutte queste cose saranno come amici che nell’ora della morte vi apriranno le porte eterne e vi riceveranno nelle dimore beate.

Come potete esigere che Dio vi dia i suoi beni paradisiaci se vede che non sapete fare buon uso neppure dei beni terrestri?

Volete che, per un impossibile supposto, ammetta nella Gerusalemme celeste elementi dissipatori? No, mai. Lassù si vivrà con carità e con generosità e giustizia. Tutti per Uno e tutti per tutti. La comunione dei Santi è società attiva e onesta, è santa società. E nessuno che abbia mostrato di essere ingiusto e infedele può entrarvi.

Non dite: “Ma lassù saremo fedeli e giusti perché lassù tutto avremo senza temere nulla”. No.

Chi è infedele nel poco sarebbe infedele anche se il Tutto possedesse, e chi è ingiusto nel poco ingiusto è nel molto.

Dio non affida le vere ricchezze a chi nella prova terrena mostra di non sapere usare delle ricchezze terrene. Come può Dio affidarvi un giorno in Cielo la missione di spiriti sostenitori dei fratelli sulla terra, quando avete mostrato che carpire e frodare, o conservare con avidità, è la vostra prerogativa?

Vi negherà perciò il vostro tesoro, quello che per voi aveva conservato, dandolo a quelli che seppero essere avveduti sulla terra, usando anche ciò che è ingiusto e malsano in opere che giusto e sano lo fanno.

Nessun servo può servire due padroni. Perché o dell’uno o dell’altro sarà, o l’uno o l’altro odierà. I due padroni che l’uomo può scegliere sono Dio o Mammona. Ma se vuole essere del primo non può vestire le insegne, seguire le voci, usare i mezzi del secondo».

 

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C Beata Vergine Maria Addolorata

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Luca. (Lc 15,1-32)
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”». Parola del Signore.

Forma breve

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Luca. (Lc 15, 1-1)
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte». Parola del Signore

RIFLESSIONI
“Si avvicinarono a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: Costui riceve i peccatori e mangia con loro. Allora egli disse loro questa parabola…” (Lc 15,1-2).
A un uditorio di mormoratori Gesù racconta le tre parabole dei perduti ritrovati. Quale nuova idea di Dio ci rivelano? Tra tutte le parabole sono indubbiamente le più sconvolgenti perché ci insegnano anzitutto che Dio si interessa di ciò che è perduto e che prova grande gioia per il ritrovamento di ciò che è perduto. Inoltre, Dio affronta le critiche per stare dalla parte del perduto: il padre affronta l’ira del figlio maggiore con amore, con pace, senza scusarsi. Gesù affronta le critiche fino a farsi calunniare, critiche che si riproducono continuamente e quasi infallibilmente. Perché tutte le volte che la Chiesa si ripropone l’immagine di Dio che cerca i perduti, nasce il disagio. E ancora, Dio si interessa anche di un solo perduto. Le parabole della pecorella perduta e della donna che fatica tanto per una sola dramma perduta, hanno del paradossale per indicare il mistero di Dio che si interessa anche di uno solo perduto, insignificante, privo di valore, da cui non c’è niente di buono da ricavare. Ciò non significa evidentemente che dobbiamo trascurare i tanti, però è un’immagine iperbolica dell’incomprensibile amore del Signore. Per questo l’etica cristiana arriva a vertici molto esigenti, che non sempre comprendiamo perché non riusciamo a farci un’idea precisa della dignità assoluta dell’uomo in ogni fase e condizione della sua vita.

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta Capitolo 205

La gente si è affollata sulla via. Gesù si trova a Magdala e inizia a parlare:

«Una donna aveva dieci dramme nella sua borsa. Ma in un movimento la borsa le cadde dal seno, aprendosi, e le monete ruzzolarono per terra. Ella le raccolse con l’aiuto delle vicine presenti e le contò. Erano nove. La decima era introvabile. Da­to che era prossima la sera e la luce mancava, la donna accese la lampada, la posò al suolo e presa una scopa si dette a scopa­re attentamente per vedere se era ruzzolata lontano dal luogo dove era caduta. Ma la dramma non si trovava. Le amiche se ne andarono stanche di ricerche.

La donna spostò allora il cassapanco, la scansia, il cofano pesante, smosse le anfore e gli or­cioli posati nella nicchia del muro. Ma la dramma non si trova­va. Allora si pose carponi e cercò nel mucchio delle spazzature, messo contro la porta di casa, per vedere se la dramma era ro­tolata fuori di casa mescolandosi agli avanzi delle verdure. E trovò infine la dramma tutta sporca, sepolta quasi dalle spaz­zature ricadute su di essa.

La donna giubilante la prese, la lavò, l’asciugò. Era più bel­la di prima, ora. E la mostrò alle vicine che chiamò di nuovo a gran voce, e che si erano ritirate dopo averla aiutata nelle pri­me ricerche, dicendo:

“Ecco! Vedete? Voi mi consigliavate di non faticare più. Ma io ho insistito e ho ritrovato la dramma perduta. Rallegratevi perciò con me che non ho avuto il dolore di perdere uno solo dei miei tesori”.

Anche il Maestro vostro, e con Lui i suoi apostoli, fa come la donna della parabola. Egli sa che un movimento può far ca­dere un tesoro.

Ogni anima è un tesoro e satana, che è astioso di Dio, provoca i mal movimenti per fare cadere le povere anime.

C’è chi nella caduta si ferma presso la borsa, ossia va poco lontano dalla Legge di Dio che raccoglie le anime nella salva­guardia dei Comandamenti.

È c’è chi va più lontano, ossia si allontana più ancora da Dio e dalla sua Legge.

C’è infine chi rotola fino nelle spazzature, nelle lordure, nel fango. E là fini­rebbe a perire con l’essere arso nei fuochi eterni, così come le immondezze vengono arse in luoghi acconci.

Il Maestro lo sa e cerca instancabile le monete perdute. Le cerca in ogni luogo, con amore.

Sono i suoi tesori. E non si stanca e non si ripugna di nulla. Ma fruga, fruga, smuove, spazza, finché trova. E trovato che abbia, lava l’anima ritrova­ta col suo perdono e chiama gli amici, tutto il Paradiso e tutti i buoni della Terra, e dice: “Rallegratevi con Me perché ho tro­vato ciò che si era smarrito, ed è più bello di prima perché il mio perdono lo fa nuovo”.

In verità vi dico che si fa molta festa in Cielo e giubilano gli Angeli di Dio e i buoni della Terra per un peccatore che si con­verte.

In verità vi dico che non c’è cosa più bella delle lacrime del pentimento. In verità vi dico che solo i demoni non sanno, non possono giubilare per questa conversione che è un trionfo di Dio. E anche vi dico che il modo come un uomo accoglie la conversione di un peccatore è misura della sua bontà e della sua unione con Dio. La pace sia con voi».

La gente capisce la lezione e guarda la Maddalena, venuta a sedersi sulla porta con il poppante fra le braccia, forse per darsi un contegno, e sfolla lentamente rimanendo solo la pa­drona della casetta e la madre sua sopraggiunta coi bambini. Manca Beniamino, ancora a scuola.

“Giovanni di Endor, vieni qui con Me. Ti devo parlare”, dice Gesù affacciandosi sull’uscio.

L’uomo accorre lasciando il bambino al quale insegnava qualcosa. “Che mi vuoi dire, Maestro?”, chiede.

“Vieni con Me qui sopra”.

Salgono sulla terrazza e si siedono dalla parte più riparata perché, per quanto sia mattina, il sole è già forte. Gesù gira lo sguardo sulla campagna coltivata, in cui i grani di giorno in giorno divengono d’oro e gli alberi gonfiano le loro frutta. Pare volere attingere il pensiero da quella metamorfosi vegetale.

“Senti, Giovanni. Oggi Io credo che verrà Isacco per condurmi i contadini di Giocana prima della loro partenza. Ho detto a Lazzaro di prestare a Isacco un carro per fare loro accelerare il ritorno senza tema di giungere con un ritardo che provocherebbe loro un castigo. E Lazzaro lo fa. Perché Lazzaro fa tutto ciò che Io dico.

Ma da te Io voglio un’altra cosa. Ho qui una somma che mi è stata data da una creatura per i poveri del Signore. Generalmente è un mio apostolo l’incaricato di tenere le monete e di dare gli oboli. È Giuda di Keriot generalmente; qualche volta gli altri. Giuda non è presente. Gli altri non voglio siano a cognizione di quel che voglio fare. Anche Giuda questa volta non lo sarebbe. Lo farai tu, in mio Nome…”.

“Io, Signore?… Io?… Oh! non ne sono degno!…”.

“Ti devi abituare a lavorare in mio Nome. Non sei venuto per questo?”.

“Sì. Ma pensavo dovere lavorare a ricostruire la povera anima mia”.

“E Io te ne do il mezzo. In che hai peccato? Contro la misericordia e l’amore. Con l’odio hai demolito la tua anima. Con l’amore e la misericordia la ricostruirai. Io te ne do il materiale. Ti adibirò particolarmente alle opere di misericordia e di amore. Tu sei anche capace di curare, tu sei capace di parlare. Per questo sei atto ad avere cura delle infelicità fisiche e morali, e hai capacità di farlo.

Inizierai con quest’opera. Tieni la borsa. La darai a Michea e ai suoi amici. Fanne parti uguali. Ma falle così come Io dico. La dividi per dieci, poi ne dai quattro parti a Michea: una per sé, una per Saulo, una per Gioele e una per Isaia. E le altre sei le dai a Michea perché le dia al vecchio padre di Jabé, per sé e per i suoi compagni. Potranno così avere qualche conforto”.

“Va bene. Ma che dico loro per giustificare?”.

“Dirai: Questo è perché vi ricordiate di pregare per un’anima che si redime”.

“Ma potranno pensare che sia io! Non è giusto!”.

“Perché? Non ti vuoi redimere?”.

“Non è giusto che pensino che sia io il donatore”.

“Lascia, e fa come Io dico”.

“Ubbidisco… ma almeno concedimi di mettere anche io qualche cosa. Tanto… ora non mi occorre più nulla. Libri non ne compero più, polli da nutrire non ne ho più. A me basta tanto poco… Tieni, Maestro. Serbo solo un minimo per le spese dei sandali…”, ed estrae da una borsa che aveva in cintura molte monete e le aggiunge alle monete di Gesù.

“Dio ti benedica per la tua misericordia… Giovanni, fra poco ci lasceremo perché tu andrai con Isacco”.

“Me ne duole, Maestro. Ma ubbidisco”.

“Anche a Me duole di allontanarti. Ma ho tanto bisogno di discepoli peregrinanti. Io non basto più. Presto lancerò gli apostoli, poi manderò i discepoli. E tu farai molto bene. Ti serberò a speciali missioni. Intanto con Isacco ti formerai. È tanto buono e lo Spirito di Dio lo ha veramente istruito durante la lunga malattia. Ed è l’uomo che tutto ha sempre perdonato…

Lasciarci, del resto, non vuole dire non vederci più. Ci incontreremo sovente, e ogni volta che ci ritroveremo parlerò proprio per te, ricordatelo…”.

Giovanni si piega su se stesso, si nasconde il volto fra le mani con un aspro scoppio di pianto, e geme: “Oh! allora dimmi subito qualche cosa che mi persuada che io sono perdonato… che io posso servire Dio… Se sapessi, ora che è caduto il fumo dell’odio, come vedo la mia anima… e come… e come penso a Dio…”.

“Lo so, non piangere. Resta nell’umiltà, ma non ti avvilire. L’avvilimento è ancora superbia. Solo, solo umiltà abbi. Suvvia, non piangere…”.

Giovanni di Endor si calma poco a poco…

Quando lo vede calmato, Gesù dice:

“Vieni, andiamo sotto quel folto di meli e raduniamo i compagni e le donne. Parlerò a tutti, ma ti dirò come Dio ti ama”.

Scendono, radunandosi intorno gli altri man mano che vanno, e si siedono poi a cerchio sotto l’ombra del pometo. Anche Lazzaro, che parlava con lo Zelote, si aggiunge alla compagnia. Venti persone in tutto.

“Udite. È una bella parabola che vi guiderà con la sua luce in tanti casi. Un uomo aveva due figli. Il maggiore era serio, lavoratore, affezionato, ubbidiente. Il secondo era intelligente più del maggiore -che in verità era un poco ottuso e si lasciava guidare per non avere da affaticarsi a decidere da sé- ma in compenso era anche ribelle, svagato, amante del lusso e del piacere, dissipatore e ozioso. L’intelligenza è un grande dono di Dio. Ma è un dono che va usato saggiamente. Altrimenti è come certi farmaci i quali, usati in mal modo, non sanano ma uccidono.

Il padre -era nel suo diritto e nel suo dovere- lo richiamava a vita più saggia. Ma senza alcun utile, tolto quello di averne male risposte e un maggior irrigidimento del figlio nelle proprie cattive idee.

Infine un giorno, dopo una disputa più fiera, il figlio minore disse:

“Dammi la mia parte dei beni. Così non sentirò più i tuoi rimproveri e i lagni del fratello. Ognuno il suo e sia finito tutto”.

“Guarda”, rispose il padre, “che presto sarai rovinato. Che farai allora? Pensa che io non sarò ingiusto in favore di te e non riprenderò un picciolo a tuo fratello per darlo a te”.

“Non ti chiederò nulla. Sta sicuro. Dammi la mia parte”.

Il padre fece stimare le terre e le cose preziose e, visto che denaro e gioielli facevano tanto quanto le terre, dette al maggiore i campi e i vigneti, le mandrie e gli ulivi, e al minore il denaro e i gioielli, che il giovane vendette subito mutando tutto in denaro.

E fatto questo, in pochi giorni, se ne andò in un lontano paese dove visse da gran signore, scialacquando tutto il suo tesoro in bagordi di ogni specie, facendosi credere un figlio di re perché si vergognava di dire: “sono campagnolo”, rinnegando perciò il padre suo.

Festini, amici e amiche, vesti, vini, giuoco… vita dissoluta… Presto vide scemare la sostanza e venire avanti la miseria. E con la miseria, a farla più grave, venne nel paese una grande carestia che dette fondo ai resti della sostanza.

Avrebbe potuto andare dal padre. Ma era superbo e non volle. Andò allora da un riccone del paese, già suo amico nei tempi buoni, e lo pregò dicendo: “Accoglimi fra i tuoi servi in ricordo di quando godesti delle mie dovizie”.

Vedete voi come è stolto l’uomo! Preferisce mettersi sotto la frusta di un padrone anziché dire ad un padre: “Perdono! Ho sbagliato!”.

Quel giovane aveva imparato tante cose inutili con la sua intelligenza aperta, ma non aveva voluto imparare il detto dell’Ecclesiastico: “Quanto è infame colui che abbandona il padre suo e quanto è maledetto da Dio chi fa inquietare la madre”.

Era intelligente ma non sapiente.

L’uomo a cui si era rivolto, in cambio del molto che aveva goduto dal giovane stolto, mise questo stolto di guardia ai porci -perché si era in paese pagano e vi erano molti porci- e lo mandò a pasturare nei suoi possessi le mandrie dei porci.

Lurido, stracciato, puzzolente, affamato -perché il cibo era scarso per tutti i servi e specie per gli infimi, e lui, straniero mandriano di porci e deriso, era ritenuto tale- vedeva i porci satollarsi delle ghiande e sospirava: “Potessi almeno io pure empirmi il ventre di questi frutti! Ma sono troppo amari! Neppure la fame me li fa parere buoni”.

E piangeva pensando ai ricchi festini da satrapo fatti poco tempo prima fra risa, canti, danze… e pensava poi agli onesti pranzi ben nutriti della sua casa lontana, alle porzioni che il padre faceva a tutti imparzialmente, serbando per sé sempre il meno, lieto di vedere il sano appetito dei suoi figli… e pensava anche alle parti fatte ai servi da quel giusto, e sospirava:

“I garzoni di mio padre, anche i più infimi, hanno pane in abbondanza… e io qui muoio di fame…”.

Un lungo lavoro di riflessione, una lunga lotta per strozzare la superbia…

Infine venne il giorno che, rinato nell’umiltà e nella sapienza, sorse in piedi e disse:

“Io vado dal padre mio! È stolto questo orgoglio che mi fa prigione. E di che? Perché soffrire e nel corpo e più nel cuore mentre posso avere perdono e sollievo? Vado dal padre mio. È detto. Che gli dirò? Ma quello che è nato qui dentro, in questa abiezione, fra queste lordure, fra i morsi della fame!

Gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami perciò come l’infimo dei tuoi garzoni, ma sopportami sotto il tuo tetto. Che io ti veda passare…

Non potrò dirgli: ‘…perché ti amo’. Non lo crederebbe. Ma lo dirà la mia vita, ed egli lo comprenderà, e prima di morire mi benedirà ancora… Oh! lo spero. Perché mio padre mi ama”.

E, tornato la sera in paese, si licenziò dal padrone e mendicando per via tornò a casa sua.

Ecco i campi paterni… e la casa… e il padre che dirigeva i lavori, invecchiato, scarnito dal dolore, ma sempre buono… Il colpevole, guardando quella rovina causata da lui, si fermò intimorito… ma il padre, girando l’occhio, lo vide e gli corse incontro, perché era ancora lontano, e raggiuntolo gli gettò le braccia al collo e lo baciò.

Solo il padre aveva riconosciuto in quel mendicante avvilito la sua creatura e solo lui aveva avuto un movimento di amore.

Il figlio, stretto fra quelle braccia, con il capo sulla spalla paterna, mormorò fra i singhiozzi: “Padre, lascia che io mi getti ai tuoi piedi”.

“No, figlio mio! Non ai piedi. Sul mio cuore, che ha tanto sofferto della tua assenza e che ha bisogno di rivivere col sentire il tuo calore sul mio petto”.

E il figlio, piangendo più forte, disse:

“Oh! padre mio! Io ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato da te: figlio. Ma permettimi di vivere fra i tuoi servi, sotto il tuo tetto, vedendoti, mangiando il tuo pane, servendoti, bevendo il tuo alito. Ad ogni boccone di pane, ad ogni tuo respiro si riformerà il mio cuore tanto corrotto e diverrò onesto…”.

Ma il padre, tenendolo sempre abbracciato, lo condusse verso i servi, che si erano ammucchiati in distanza e che osservavano, e disse loro:

“Presto, portate qui la veste più bella e catini di acque odorose, lavatelo, profumatelo, rivestitelo, mettetegli dei calzari nuovi e un anello al dito. Poi prendete un vitello ingrassato e ammazzatelo. E si prepari un banchetto. Perché questo figlio mio era morto ed ora è risuscitato, era perduto ed è stato ritrovato.

Io voglio che ora lui pure ritrovi il suo semplice amore di pargolo; e il mio amore e la festa della casa per il suo ritorno glielo devono dare. Deve capire che egli è sempre per me il caro bambino ultimo nato, quale era nella infanzia sua lontana, quando mi camminava al fianco facendomi beato col suo sorriso e il suo balbettio”. E così fecero i servi.

Il figlio maggiore era in campagna e non seppe nulla fino al suo ritorno. A sera, venendo verso casa, la vide luminosa di lumi e udì suoni di strumenti e danze uscire da essa. Chiamò un servo che correva indaffarato e gli disse: “Che avviene?”.

E il servo rispose: “È tornato tuo fratello! Tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso perché ha riavuto il figlio e sano, guarito dal suo grande male, ed ha ordinato banchetto. Non si attende che te per cominciare”.

Ma il primogenito, in collera perché gli pareva ingiustizia tanta festa per il minore, che oltre che minore era stato cattivo, non volle entrare e anzi fece per allontanarsi da casa. Ma il padre, avvertito di questo, corse fuori e lo raggiunse tentando di convincerlo e pregandolo di non amareggiargli la sua gioia.

Il primogenito rispose al padre suo: “E vuoi che io non sia inquieto? Tu fai ingiustizia e spregio al tuo primogenito. Io da quando ho potuto lavorare ti ho servito, e sono molti anni. Io non ho mai trasgredito ad un tuo comando, neppure ad un tuo desiderio. Io ti sono sempre stato vicino e ti ho amato per due per farti guarire dalla piaga fatta da mio fratello. E tu non mi hai dato neppure un capretto per godermelo cogli amici.

Questo, che ti ha offeso, che ti ha abbandonato, che è stato infingardo e dissipatore e che torna ora perché è spinto dalla fame, tu lo onori e per lui ammazzi il vitello più bello. Vale la pena essere lavoratori e senza vizi! Questo non me lo dovevi fare!”.

Il padre disse allora stringendoselo al seno:

“Oh! figlio mio! E puoi credere che io non ti ami perché non stendo un velo di festa sulle tue azioni? Le tue azioni sono sante di loro, e il mondo ti loda per esse. Ma questo tuo fratello, invece, ha bisogno di essere rialzato nella stima del mondo e nella stima sua stessa.

E credi tu che io non ti ami perché non ti do un premio visibile? Ma mattina e sera e in ogni mio alito e pensiero tu sei presente al mio cuore, e ad ogni attimo io ti benedico. Tu hai il premio continuo di essere sempre con me, e tutto quanto è mio è tuo. Ma era giusto banchettare e fare festa per questo tuo fratello, che era morto ed è risuscitato al Bene, che era perduto ed è stato ritornato al nostro amore”.

E il primogenito si arrese.

Così, amici miei, succede nella Casa del Padre.

E chi si sa uguale al figlio minore della parabola pensi pure che, se lo imita nell’andare al Padre, il Padre gli dice: “Non ai miei piedi. Ma sul mio Cuore, che ha sofferto della tua assenza e che ora è beato per il tuo ritorno”.

Chi è in condizioni di figlio primogenito e senza colpa verso il Padre, non sia geloso della gioia paterna, ma ne prenda parte, dando amore al fratello redento. Ho detto.

Rimani, Giovanni di Endor, e tu, Lazzaro. Gli altri vadano a preparare le mense. Presto verremo”.

Tutti si ritirano. Quando Gesù, Lazzaro e Giovanni sono soli, Gesù dice a Lazzaro e Giovanni: “Così si farà dell’anima cara che tu attendi, Lazzaro, e così si fa della tua, Giovanni. La bontà di Dio supera ogni misura”…

 

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C Lc,14,25-33 NATIVITÀ DELLA BEATA VERGINE MARIA

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Luca (Lc,14,25-33)
Una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro:
«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.
Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”.
Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.
Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo». Parola del signore.

RIFLESSIONI

Voler essere discepoli del Cristo significa avere scelto e deciso di seguirlo, significa avere scelto Cristo come unico punto di riferimento della e nella nostra vita.
Lo seguiamo perché lo amiamo e perché abbiamo fondato su di lui, e solo su di lui, il nostro progetto di vita.
Vivremo, nonostante tutto, infedeltà ed errori quotidiani, ma non saranno questi a troncare la nostra sequela se sapremo accettarli e viverli come limite e quindi come parte della croce che ogni giorno ci è chiesto di portare. Una croce fatta di grandi e piccole sofferenze e miserie, ma è proprio l’adesione alla “nostra” croce la via per divenire e rimanere suoi discepoli.
La Chiesa, oggi e sempre, è costruita da chi ha il coraggio di affidarsi soltanto a Dio e seguire Gesù con totale abbandono e senza nessun compromesso.

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta Capitolo 281

 

Gesù si trova nel Tempio e chiede a bruciapelo: «Perché intorno a Me vi pigiate? Ditelo. Avete rabbi noti e sapienti, benvisti da tutti. Io sono l’Ignoto e il Malvisto. Perché allora venite a Me?».

«Perché ti amiamo», dicono alcuni, ed altri:

«Perché hai parole diverse dagli altri», ed altri ancora:

«Per vedere i tuoi miracoli», e:

«Perché di Te abbiamo sentito parlare», e:

«Per­ché Tu solo hai parole di vita eterna e opere corrispondenti alle parole», e infine:

«Perché vogliamo unirci ai tuoi discepoli».

Gesù guarda la gente man mano che parla, quasi volesse trafiggerla con lo sguardo per leggerne le più occulte sensazio­ni; e qualcuno, non resistendo a quello sguardo, si allontana o, quanto meno, si nasconde dietro a una colonna o a gente più alta di lui.

Gesù riprende:

«Ma sapete voi cosa vuol dire e vuole essere venire dietro a Me?

Io rispondo a queste sole parole, perché non merita rispo­sta la curiosità e perché chi ha fame delle mie parole è, di conseguenza, di Me amante e desideroso di unirsi a Me. Perciò, fra chi ha parlato, vi sono due gruppi: i curiosi che trascuro, i vo­lonterosi che ammaestro senza inganno sulla severità di questa vocazione.

Venire a Me come discepolo vuol dire rinuncia di tutti gli amori a un solo amore: il mio.

Amore egoista verso se stessi, amore colpevole verso le ricchezze o il senso o la potenza, amo­re onesto verso la sposa, santo verso la madre, il padre, amore amabile dei e ai figli e fratelli, tutto deve cedere al mio amore se si vuole essere miei.

In verità vi dico che più liberi di uccelli spazianti nei cieli devono essere i miei discepoli, più liberi dei venti che scorrono i firmamenti senza che nessuno li trattenga, nessuno e nessuna cosa. Liberi, senza catene pesanti, senza lac­ci d’amore materiale, senza neppure le ragnatele sottili delle più lievi barriere.

Lo spirito è come una delicata farfalla serra­ta dentro al bozzolo pesante della carne, e può appesantirne il volo, o arrestarlo del tutto, anche l’iridescente e impalpabile tela di un ragno: il ragno della sensibilità, della ingenerosità nel sacrificio. Io voglio tutto, senza riserve. Lo spirito abbiso­gna di questa libertà di dare, di questa generosità di dare, per poter esser certo di non essere impigliato nella ragnatela delle affezioni, consuetudini, riflessioni, paure, tese come tanti fili da quel ragno mostruoso che è satana, rapinatore di anime.

Se uno vuol venire a Me e non odia santamente suo padre, sua madre, sua moglie, i suoi figli, i suoi fratelli e le sue sorel­le, e persino la sua vita, non può esser mio discepolo. Ho detto “odia santamente”.

Voi in cuor vostro dite: “L’odio, Egli lo in­segna, non è mai santo. Perciò Egli si contraddice”. No. Non mi contraddico.

Io dico di odiare la pesantezza dell’amore, la passionalità carnale dell’amore al padre e madre, e sposa e figli, e fratelli e sorelle, e alla stessa vita, ma anzi ordino di amare, con la libertà leggera che è propria degli spiriti, i pa­renti e la vita.

Amateli in Dio e per Dio, non posponendo mai Dio a loro, occupandovi e preoccupandovi di portarli dove il discepolo è giunto, ossia a Dio Verità. Così amerete santamente i parenti e Dio, conciliando i due amori e facendo dei legami di sangue non peso ma ala, non colpa ma giustizia.

Anche la vostra vita dovete esser pronti a odiare per seguire Me.

Odia la sua vita colui che, senza paura di perderla o di renderla umanamente triste, la fa servire a Me. Ma non è che una apparenza di odio. Un sentimento erroneamente detto “odio” dal pensiero dell’uomo che non sa elevarsi, dell’uomo tutto ter­restre, di poco superiore al bruto.

In realtà questo apparente odio, che è il negare le soddisfazioni sensuali alla esistenza per dare una sempre più vasta vita allo spirito, è amore.

Amore è, e del più alto che esista, del più benedetto.

Questo negarsi le bas­se soddisfazioni, questo interdirsi la sensualità degli affetti, questo procurarsi rimproveri e commenti ingiusti, questo ri­schiare punizioni, ripudi, maledizioni e forse anche persecuzio­ni, è una sequela di pene.

Ma occorre abbracciarle e imporsele come una croce, un patibolo sul quale si espia ogni passata col­pa per andare giustificati a Dio, e dal quale si ottiene ogni gra­zia, vera, potente, santa Grazia di Dio per coloro che noi amia­mo. Chi non porta la sua croce e non viene dietro a Me, chi non sa fare questo, non può essere mio discepolo.

Pensateci dunque molto, molto, voi che dite: “Siamo venuti perché vogliamo unirci ai tuoi discepoli”.

Non è vergogna ma sapienza pesarsi, giudicarsi e confessare, a se stessi e agli altri: “Io non ho stoffa di discepolo”.

E che? I pagani hanno a base di un loro insegnamento la necessità di “conoscere se stessi”; e voi israeliti, per conquistare il Cielo, non lo sapreste fare? Per­ché, ricordatevelo sempre, beati quelli che verranno a Me. Ma piuttosto che venire per poi tradire Me e Colui che mi ha man­dato, meglio è non venire affatto e rimanere i figli della Legge come fin qui foste.

Guai a coloro che, avendo detto: “Vengo”, portano poi danno al Cristo essendo i traditori dell’idea cri­stiana, gli scandalizzatori dei piccoli, dei buoni! Guai a loro! Eppure vi saranno, e sempre vi saranno!

Imitate perciò colui che vuole edificare una torre. Prima calcola attentamente la spesa necessaria e fa i conti del suo de­naro per vedere se ha di che portarla a termine, perché, termi­nate le fondamenta, non debba sospendere i lavori non avendo più denaro. In questo caso perderebbe anche quanto aveva pri­ma, rimanendo senza torre e senza talenti, e in cambio si atti­rerebbe le beffe del popolo che direbbe: “Costui ha cominciato a fabbricare senza poter finire. Ora può empirsi lo stomaco delle rovine della sua incompiuta fabbrica”.

Imitate ancora i re della Terra, facendo servire i poveri avvenimenti del mondo a insegnamento soprannaturale.

Costoro, quando vogliono muovere guerra ad un altro re, esaminano con calma e attenzione ogni cosa, il pro e il contro, meditano se l’utile della conquista valga il sacrificio delle vite dei sudditi, studiano se è possibile conquistare quel luogo, se le loro mili­zie, inferiori della metà a quelle del rivale, anche se più com­battive, possono vincere; e giustamente pensando che è impro­babile che diecimila vincano ventimila, prima che avvenga lo scontro mandano incontro al rivale una ambasceria con ricchi doni e, ammansendo il rivale, già insospettito dalle mosse mili­tari dell’altro, lo disarmano con prove di amicizia, ne annulla­no i sospetti e fanno con esso trattato di pace, in verità sempre più vantaggioso, tanto umanamente che spiritualmente, di una guerra.

Così dovete fare voi prima di iniziare la nuova vita e di schierarvi contro il mondo. Perché questo è essere miei disce­poli: andare contro la turbinosa e violenta corrente del mondo, della carne, di satana.

E, se non sentite in voi il coraggio di ri­nunciare a tutto per amor mio, non venite a Me perché non po­tete essere miei discepoli».

«Va bene. Ciò che Tu dici è vero», ammette uno scriba che si è mescolato al gruppo. «Ma se ci spogliamo di tutto, con che ti serviamo poi? La Legge ha dei comandi che sono come mo­nete che Dio dà all’uomo perché usandole si compri la vita eterna. Tu dici: “Rinunciate a tutto” e accenni il padre, la ma­dre, le ricchezze, gli onori. Dio ha pur dato queste cose e ci ha detto, per bocca di Mosè, di usarle con santità per apparire giusti agli occhi di Dio. Se Tu ci levi tutto, che ci dai?».

«Il vero amore, l’ho detto, o rabbi. Vi do la mia dottrina che non leva un iota alla antica Legge, ma anzi la perfeziona».

«Allora tutti siamo discepoli uguali, perché tutti abbiamo le stesse cose».

«Tutti le abbiamo secondo la Legge mosaica. Non tutti se­condo la Legge perfezionata da Me secondo l’Amore. Ma non tutti raggiungono, nella stessa, la stessa somma di meriti. An­che fra i miei stessi discepoli non tutti giungeranno ad avere somma di meriti in uguale misura, e alcuno fra essi non solo non avrà somma ma perderà anche l’unica sua moneta: la sua anima».

«Come? A chi più è dato più resterà. I tuoi discepoli, meglio i tuoi apostoli, ti seguono nella tua missione e sono al corrente dei tuoi modi, hanno avuto moltissimo; molto hanno avuto i di­scepoli effettivi, meno i discepoli solo di nome, nulla quelli che, come me, non ti ascoltano che per accidente. È ovvio che mol­tissimo avranno in Cielo gli apostoli, molto i discepoli effettivi, meno i discepoli di nome, nulla quelli che sono come me».

«Umanamente è ovvio, e male anche umanamente. Perché non tutti sono capaci di far fruttare i beni avuti. Odi questa parabola e perdona se troppo a lungo qui insegno. Ma Io sono la rondine di passaggio, e non sosto che per poco nella Casa del Padre, essendo venuto per tutto il mondo e non volendo, que­sto piccolo mondo che è il Tempio di Gerusalemme, permetter­mi di raccogliere il volo e rimanere là dove la gloria del Signo­re mi chiama».

«Perché dici così?».

«Perché è verità».

Lo scriba si guarda intorno e poi china la testa. Che sia ve­rità lo vede scritto su troppi volti di sinedristi, rabbi e farisei che sono andati sempre più ingrossando l’assembramento che è intorno a Gesù.

Volti verdi di bile o porpurei d’ira, sguardi che equivalgono a parole di maledizione e a sputi di veleno, ranco­re che lievita da ogni parte, desiderio di malmenare il Cristo, che resta desiderio solo per paura dei molti che circondano il Maestro con devozione e che sono pronti a tutto per difenderlo, paura forse anche di punizioni da parte di Roma che ha beni­gnità verso il mite Maestro galileo.

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

XXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C 1 Settembre 2019

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 14,1.7-14)
Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo.
Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti». Parola del Signore.

RIFLESSIONI

Diventare cristiani – cammino che dura tutta la nostra vita – significa non tanto imparare delle cose su Dio, neppure osservare delle regole dettate da lui, ma vivere un rapporto di amore con Gesù. L’amore tocca tutto: il modo di pensare, di vedere e di agire. Gesù ha continuamente invitato a questo tipo di rapporto: i Vangeli contengono questo invito (rimanete nel mio amore!), e sono nati da persone che hanno vissuto un profondo rapporto di amore con Gesù, che ha permesso loro di ricordare quanto Gesù ha fatto e ha insegnato, e di comprenderlo alla luce della sua morte e risurrezione.
Nella pagina di Vangelo di questa domenica Gesù ci racconta due parabole che mettono a confronto quello che lui “vede” fare dagli uomini e, potremmo dire, quello che “vede” fare dal Padre, invitandoci a passare piano piano dal nostro modo di vedere la vita al suo. Molti insegnamenti di Gesù nascono in luoghi semplici e ordinari, come il caso di oggi. Gesù in un giorno festivo di sabato, dopo aver partecipato al culto nella sinagoga, accoglie l’invito a pranzo da un capo dei farisei (persone impegnate a vivere con molta attenzione le norme della legge data da Dio attraverso Mosè). Gesù “osserva”, cioè guarda con attenzione un fatto umano: gli invitati a pranzo sono tutti preoccupati di scegliere i posti di onore. Poi racconta una parabola (probabilmente ai pochi che erano attorno a lui, che potevano sentirlo). Quando sei invitato non scegliere i primi posti, ma gli ultimi; se ti spetta un posto più importante e sarai invitato a cambiare, non potrai che esserne onorato. Invece se fai il contrario, dovrai sentire vergogna. Gesù ci invita ad essere “furbi” e scegliere il cammino più adeguato per ricevere onore, non cercandolo da noi stessi ma ricevendolo dagli altri.
Dove entra Dio in questa parabola? Nella conclusione: chi si esalta sarà umiliato (Dio lo abbasserà), chi si umilia sarà esaltato (da Dio). Gesù ci invita a dare valore a come ci vede Dio rispetto a come ci vedono gli uomini: davanti a Lui siamo tutti piccoli e deboli (come ricorda la lettura, dal libro sapienziale del Siracide). Occorre distinguere l’invito di Gesù ad essere umili dall’atteggiamento di chi si disprezza, non riconosce il proprio valore (quello che la psicologia chiama bassa stima di sé, che non è segno di maturità e equilibrio e non permette di essere veramente umili).

IO SONO LA LUCE DEL MONDO IL VANGELO DEL GIORNO XXI DOMENICA E SETTIMANA TEMPO ORDINARIO ANNO C IL VANGELO

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta Capitolo 335

Vedo Gesù camminare rapidamente per una via maestra che il vento freddo di un mattino d’inverno spazza e indurisce. I campi, al di qua e al di là della strada, hanno appena una timida peluria di messi che spuntano, una velatura di verde in cui è una promessa di futuro pane, ma una promessa appena appena pensata. Vi sono i solchi ombrosi ancora privi di questo verde benedetto, e solo quelli nei posti più solatii hanno quel verzicare così lieve e già così festoso perché parla di prossima primavera.

Gli alberi da frutto sono ancora nudi, neppure una gemma si gonfia sui loro rami scuri. Solo gli ulivi hanno il loro eterno bigio verde, triste tanto sotto al sole d’agosto come sotto questo chiarore di prima mattina invernale. E con loro hanno verde, un verde pastoso di ceramiche appena tinte, le grasse foglie delle cactacee.

Gesù cammina, come sovente, di due o tre passi avanti i discepoli. Sono tutti ben coperti nei loro mantelli di lana.

Ad un punto Gesù si ferma e si volge interpellando i discepoli: «Siete pratici della via?».

«La via è questa, ma poi la casa dove sia non lo si sa, perché è nell’interno… Forse là dove è quel folto di ulivi…».

«No. Deve essere là in fondo, invece, dove sono quei grossi alberi spogli…».

«Ci dovrebbe essere una via per i carri…».

Insomma non sanno niente di preciso. Persone per la via e per i campi non se ne vedono. Vanno a caso, in avanti, cercando la via.

Trovano una piccola casetta di poveri, con due o tre campicelli intorno. Una fanciulla sta attingendo l’acqua da un pozzo.

«Pace a te, bambina», dice Gesù fermandosi sul limitare della siepe, che ha un varco per chi va e viene.

«Pace a te. Che vuoi?».

«Una indicazione. Dove è la casa di Ismaele il fariseo?».

«Sei fuori strada, Signore. Devi tornare al bivio e prendere quella che va dove tramonta il sole. Ma devi camminare molto molto, perché devi tornare là, al bivio, e poi andare, andare. Hai mangiato? Fa freddo e lo stomaco vuoto lo fa sentire di più. Entra, se vuoi. Siamo poveri. Ma anche Tu non sei ricco. Ti puoi adattare. Vieni». E chiama con voce acuta: «Mamma!».

Si fa sulla soglia una donna sui trentacinque, quarant’anni. Ha un volto onesto, ma un poco triste. Fra le braccia ha un bambino di circa tre anni, mezzo svestito.

«Entra. Il fuoco è acceso. Ti darò latte e pane».

«Non sono solo. Ho questi amici».

«Entrino tutti e la benedizione di Dio coi pellegrini che ospito».

Entrano in una cucina bassa e scura che rallegra un fuoco vivo. Si siedono qua e là su rozze cassapanche.

«Ora vi preparo… È mattina… Non ho ancora ordinato nulla… Scusate».

«Sei sola?».

È Gesù che parla.

«Ho marito e figli. Sette. I due più grandi sono ancora al mercato di Naim. Vi devono andare loro perché il marito è malato. Un grande dolore!… Le bambine mi aiutano. Questo è il più piccino. Ma ne ho un altro appena di poco più grande».

Il piccino, ormai vestito della sua tunichella, corre a piedi scalzi verso Gesù e Lo guarda curiosamente. Gesù gli sorride. L’amicizia è fatta.

«Chi sei?», chiede il bambino con confidenza.

«Sono Gesù».

La donna si volge a guardarlo attentamente. È rimasta con un pane fra le mani, fra focolare e tavolo. Apre la bocca per parlare, ma poi tace.

Il bambino continua: «Dove vai?».

«Per le vie del mondo».

«A far che?».

«A benedire i bambini buoni e le loro case dove si è fedeli alla Legge».

La donna torna a fare un gesto. Poi fa un cenno a Giuda Iscariota, che è quello a lei più vicino. Egli si curva verso la donna che chiede: «Ma chi è il tuo amico?».

E Giuda, tronfio: «È il Rabbi di Galilea, Gesù di Nazareth. Non lo sai, donna?».

«Questa è via fuori mano ed io ho tanti dolori!… Ma… potrei dirli a Lui?».

«Puoi», dice con sussiego Giuda. Mi sembra un pezzo gross­o del mondo che conceda udienza…

Gesù continua a parlare col bambino che gli chiede se ha anche Lui bambini.

Mentre la fanciulla già vista e un’altra più grandicella portano latte e stoviglie, la donna va vicino a Gesù. Resta un poco in sospeso, poi ha un grido soffocato: «Gesù, pietà di mio marito!».

Gesù si alza. La signoreggia colla sua statura, ma la guarda con tanta bontà che ella si rinfranca. «Che vuoi che Io faccia?».

«È molto malato. Gonfio come un otre, non può più piegarsi e lavorare. Non trova riposo perché affoga, e smania… E abbiamo i bambini ancora piccini…».

«Vuoi che Io lo guarisca? Ma perché lo vuoi da Me?».

«Perché Tu sei Tu. Io non ti conoscevo, ma ho sentito parlare di Te. La sorte ti ha condotto alla mia casa dopo che per tre volte io ti ho cercato a Naim e a Cana. Due volte c’era anche mio marito. Cercava Te, per quanto l’andare sul carro lo faccia tanto soffrire… Anche ora è via con suo fratello… Ci hanno riportato che il Rabbi, lasciata Tiberiade, andava verso Cesarea di Filippo. È andato là ad aspettarti…».

«Non sono andato a Cesarea. Vado dal fariseo Ismaele e poi andrò verso il Giordano…».

«Tu, buono, da Ismaele?».

«Sì. Perché?».

«Perché… perché… Signore, io so che Tu dici di non giudicare, di perdonare e di amarsi. Non ti ho mai visto. Ma ho cercato di sapere di Te il più che potevo e pregavo l’Eterno di poterti udire almeno una volta. Non voglio far cosa che ti dispiaccia… Ma come poter non giudicare Ismaele e amarlo? Io nulla ho di comune con lui e perciò non ho niente da perdonargli. Le insolenze che ci getta quando incontra la nostra povertà sul suo cammino le scuotiamo da noi, con la stessa pazienza con cui scuotiamo fango e polvere che egli ci getta quando passa veloce coi suoi cocchi. Ma amarlo e non giudicarlo è troppo difficile… È tanto cattivo!».

«È tanto cattivo? Con chi?».

«Con tutti. Opprime i servi, dà a usura e crudelmente esige. Non ama che sé. È il più crudele della contrada. Non merita, Signore».

«Lo so. Dici il vero».

«E Tu vai là?».

«Mi ha invitato».

«Diffida, Signore. Non lo avrà fatto per amore. Non ti può amare. E Tu… non lo puoi amare».

«Io amo anche i peccatori, donna. Sono venuto per salvare chi è perduto…».

«Ma questo non lo salverai. Oh! perdono di aver giudicato! Tu sai… Tutto è bene ciò che fai! Perdona alla mia lingua stolta e non mi punire».

«Non ti punisco. Ma non lo fare più. Ama anche i malvagi. Non per la loro malvagità, ma perché è con l’amore che si ottiene loro la misericordia che converte.

Tu sei buona e vogliosa di esserlo più ancora. Tu ami la verità, e la Verità che ti parla ti dice che ti ama perché sei pietosa secondo la legge all’ospite e al pellegrino e così hai allevato i tuoi figli. Dio sarà il tuo compenso.

Io devo andare da Ismaele che mi ha invitato per mostrarmi a molti suoi amici che mi vogliono conoscere. Non posso attendere oltre tuo marito che, sappilo, è sulla via del ritorno. Ma dì a lui di soffrire ancora per un poco e di venire subito da Ismaele. Vieni tu pure. Io lo guarirò».

«Oh! Signore!…». La donna è a ginocchi ai piedi di Gesù e Lo guarda con riso e pianto. Poi dice: «Ma è sabato oggi!…».

«Lo so. Ho bisogno che sia sabato per dire qualcosa in merito ad Ismaele. Tutto quanto Io faccio, lo faccio con uno scopo chiaro e senza errore. Sappiatelo tutti, anche voi, amici miei che avete paura e vorreste Io seguissi una condotta secondo le convenienze umane per non averne danno.

È l’amore che vi guida. Lo so. Ma dovete saper amare meglio chi amate. Non posponendo mai l’interesse divino all’interesse dell’amato vostro. Donna, Io vado e ti attendo. La pace sia perenne in questa casa, dove si ama Dio e la sua legge ed è rispettato il coniugio e allevata santamente la prole, amato il prossimo e cercata la Verità. Addio».

Gesù posa la mano sul capo della donna e delle due giovinettine e poi si curva a baciare i bambini più piccoli ed esce.

Ora un solicello d’inverno tempera l’aria cruda. Un ragazzo di un quindici anni attende con un rustico carro molto sconquassato.

«Non ho che questo, Signore. Ma farai sempre più presto e con più comodo».

«No, donna. Serbati fresco il cavallo per venire da Ismaele. Mostrami solo la strada più breve».

Il ragazzo si pone al suo fianco e, per campi e prati, vanno verso una ondulazione del suolo, oltre la quale vi è un’ampia conca di qualche ettaro, ben coltivata, al centro della quale è una bella casa larga e bassa, stretta da una fascia di giardino ben coltivato.

«La casa è quella, Signore», dice il ragazzo. «Se non ti occorro più, torno a casa per aiutare la mamma».

«Vai e sii sempre un figlio buono. Dio è con te»…

…Gesù entra nella sontuosa casa di campagna di Ismaele. Servi in gran numero corrono incontro all’Ospite, certo atteso. Altri vanno ad avvisare il padrone, il quale esce con grandi inchini incontro a Gesù.

«Bene vieni, Maestro, alla mia casa!».

«Pace a te, Ismael ben Fabi. Mi hai desiderato. Vengo. Perché mi hai voluto?».

«Per esser onorato di averti e per presentarti ai miei amici. Voglio siano anche i tuoi. Come voglio Tu sia mio amico».

«Io sono amico di tutti, Ismaele».

«Lo so. Ma sai! È bene avere amicizie in alto. E la mia e quelle dei miei amici sono tali. Tu, perdona se te lo dico, trascuri troppo coloro che ti possono appoggiare…».

«E tu sei di questi? Perché?».

«Io sono di questi. Perché? Perché ti ammiro e voglio che Tu mi sia amico».

«Amico! Ma sai tu, Ismaele, il significato che Io do a questa parola? Per molti amico vuol dire conoscente, per altri complice, per altri servo. Per Me vuol dire: fedele alla Parola del Padre. Chi non è tale non può essermi amico, né Io di lui».

«Ma è appunto perché voglio esser fedele che voglio la tua amicizia, Maestro. Non lo credi? Guarda: ecco Eleazar che giunge. Domanda a lui come io ti ho difeso presso gli Anziani. Eleazar, io ti saluto. Vieni, che il Rabbi ti vuole chiedere una cosa».

Grandi saluti e reciproche occhiate indagatrici.

«Dì tu, Eleazar, quanto dissi del Maestro l’ultima volta che fummo riuniti», dice Ismaele. Poi se ne va, lasciando l’amico presso Gesù.

«Oh! un vero elogio! Una difesa appassionata! Vaghezza di sentirti mi venne allora, tanto Ismaele parlò di Te, Maestro, come del Profeta più grande venuto al popolo d’Israele. Mi ricordo che disse che nessuno aveva parola più profonda della tua, fascino più grande e che, se come sai parlare saprai reggere la spada, non vi sarà re più grande di Te in Israele».

«Il mio Regno!… Non è umano, Eleazar, questo Regno».

«Ma il re d’Israele?!».

«Si aprano le vostre menti a comprendere il senso delle parole arcane. Verrà il Regno del Re dei re. Ma non nella misura umana. Non per quanto perisce, ma per ciò che è eterno. Ad esso si accede non per fiorita via di trionfi né su porpureo tappeto di sangue nemico. Ma per erto sentiero di sacrificio e per mite scala di perdono e d’amore. Le vittorie contro noi stessi ci daranno questo Regno.

E voglia Iddio che il più gran numero d’Israele possa capirmi. Ma non sarà così. Voi pensate ciò che non è. Nella mia mano sarà uno scettro, e il popolo d’Israele lo avrà messo. Regale e eterno. Nessun re potrà più levarlo alla mia Casa. Ma molti in Israele non potranno vederlo senza fremere di orrore, perché avrà un nome per loro atroce».

«Tu non ci credi capaci di seguirti?».

«Se lo voleste, potreste. Ma non volete. Perché non volete? Siete anziani, ormai. L’età dovrebbe darvi comprensione e giustizia. Giustizia anche per voi stessi. I giovani… essi potranno errare e poi pentirsi. Ma voi! La morte è sempre prossima agli anziani. Eleazar, tu sei meno avviluppato nelle teorie di molti tuoi simili. Apri il tuo cuore alla Luce…».

Torna Ismaele con altri cinque pomposi farisei.

«Venite dunque nella casa», dice il padrone di essa. E, lasciato l’atrio, ricco di sedili e tappeti, entrano in una stanza dove vengono portate anfore e catini per le abluzioni. Poi passano nella sala da pranzo, molto riccamente preparata.

«Gesù al mio fianco. Fra me e Eleazar», ordina il padrone. E Gesù, che si era tenuto nel fondo della sala presso i discepoli un poco intimoriti e trascurati, deve sedersi al posto d’onore.

Il convito ha inizio con numerose portate di carni e pesci arrostiti. Vini e, mi sembra, sciroppi, o per lo meno acque con miele, passano e ripassano.

Tutti cercano di far parlare Gesù. Uno, un vecchio tutto tremolante, chiede con voce chioccia di decrepito: «Maestro. È vero quel che si dice, che Tu intendi modificare la Legge?».

«Io non muterò un iota alla Legge. Anzi sono proprio venuto per renderla di nuovo integra come quando fu data a Mosè».

«Vorresti dire che fu modificata?».

«Non mai. Unicamente subì la sorte di tutte le cose eccelse poste in mano all’uomo».

«Vorresti dire? Specifica».

«Voglio dire che l’uomo, per l’antica superbia o per l’antico fomite della triplice lussuria, volle ritoccare la lineare parola e ne fece qualcosa che opprime i fedeli, mentre per i ritoccatori non è che un cumulo di frasi che… vanno lasciate agli altri».

«Ma, Maestro! I nostri rabbini…».

«Questa è un’accusa!».

«Non ci deludere nel nostro desiderio di giovarti!…».

«Eh! Eh! Hanno ragione a dirti ribelle!».

«Silenzio! Gesù è mio ospite. Parli liberamente».

«I nostri rabbini iniziarono la loro fatica con lo scopo santo di rendere più facile l’applicazione della Legge. Lo stesso Iddio iniziò questa scuola quando alle parole dei dieci Comandi aggiunse più minute spiegazioni. Ciò perché l’uomo non avesse a sua scusa il non aver saputo capire.

Opera santa, dunque, quella dei maestri che spezzano in briciole ai piccoli di Dio il pane dato da Dio allo spirito. Ma santa se segue retto fine. Ciò non fu sempre. Ed ora lo è meno che mai. Ma perché mi volete far dire, voi che vi offendete se Io vi enumero le colpe dei potenti?».

«Colpe! Colpe! Non abbiamo che colpe noi?».

«Io vorrei aveste solo meriti!».

«Ma non li abbiamo. Tu lo pensi e il tuo occhio lo dice. Gesù, non è criticando che si fanno amici i potenti. Tu non regnerai. Non ne sai l’arte».

«Io non chiedo di regnare come voi credete e non mendico amicizie. Voglio amore. Ma onesto e santo. Un amore che da Me vada a quelli che amo, e che si dimostri usando verso i poveri quello che Io predico di usare: misericordia».

«Io, da quando ti ho udito, non ho più dato ad usura», dice uno.

«E Dio te ne darà compenso».

«Il Signore mi è testimonio se ho più percosso i servi che meriterebbero frustate, da quando mi fu detta una tua parabola», dice un altro.

«Ed io? Più di dieci moggia di orzo ho lasciato nei campi per i poveri!», fa un altro ancora.

I farisei si lodano egregiamente.

Ismaele non ha parlato. Gesù l’interpella: «E tu, Ismaele?».

«Oh! io! Io ho sempre usato misericordia. Non ho che da continuare come sempre ho agito».

«Buon per te! Se così è realmente tu sei l’uomo che non conosce rimorsi».

«Oh! no davvero!».

Gesù lo trapana col suo occhio di zaffiro.

Eleazar lo tocca sul braccio: «Maestro, ascoltami. Io ho un caso speciale da sottoporti. Ho acquistato di recente una proprietà da un disgraziato che si è rovinato per una donna. Questo me l’ha venduta, ma senza dirmi che in essa vi è una vecchia serva, la sua nutrice, ormai cieca e semiebete. Il venditore non la vuole. Io… non la vorrei. Ma gettarla in mezzo alla via… Che faresti Tu, Maestro?».

«Tu che faresti se dovessi dare ad altro un consiglio?».

«Direi: “Tienila. Non sarà un pane quel che ti rovina”».

«E perché diresti così?».

«Mah!… perché penso che io farei così e vorrei che così mi venisse fatto…».

«Tu sei molto prossimo alla giustizia, Eleazar. Fa come consiglieresti e il Dio di Giacobbe sarà sempre con te».

«Grazie, Maestro».

Gli altri brontolano fra loro.

«Che avete da mormorare?», chiede Gesù. «Non ho detto giusto? E costui non ha giustamente parlato? Ismaele, difendi i tuoi ospiti, tu che hai sempre usato misericordia».

«Maestro, Tu parli bene ma… se si facesse sempre così!… Si sarebbe vittime degli altri».

«Ed è meglio, secondo te, che siano gli altri vittime nostre, non è vero?».

«Non dico questo. Ma vi sono casi…».

«La Legge dice di avere misericordia…».

«Sì, per il fratello povero, per il forestiero, il pellegrino, la vedova e l’orfano. Ma questa vecchia, che è capitata fra le braccia di Eleazar, non è sua sorella, né pellegrina, forestiera, orfana o vedova. Nulla è per lui. Né più né meno che un vecchio arredo, non suo, dimenticato dal vero padrone nella tenuta venduta. Perciò Eleazar la potrebbe anche cacciare senza scrupoli di sorta. Infine la colpa della morte della vecchia non sarebbe sua. Ma del suo vero padrone…».

«…il quale non la può più mantenere essendo povero lui pure, e perciò anche lui è esente da obblighi. Di modo che, se la vecchia muore di fame, la colpa è della vecchia. Non è così?».

«Così, Maestro. È la sorte di coloro che… non servono più. Malati, vecchi, inabili, sono condannati alla miseria, alla mendicità. E la morte è la cosa migliore per essi… Così è da quando è il mondo, e così sarà…».

«Gesù, abbi pietà di me!».

Un lamento entra dalle finestre sbarrate, perché la sala è chiusa e coi lampadari accesi. Forse per il freddo.

«Chi mi chiama?».

«Qualche importuno. Lo farò cacciare. O qualche mendico. Farò dare un pane».

«Gesù, sono malato. Salvami!».

«L’ho detto. Un importuno. Punirò i servi per averlo fatto passare». E Ismaele si alza.

Ma Gesù, più giovane di almeno venti anni e più alto di tutto il collo e capo, lo ripone a sedere ponendogli la mano sulla spalla e ordinando: «Resta, Ismaele. Voglio vedere costui che mi cerca. Fate entrare».

Entra un uomo con capelli ancora neri. Può avere una quarantina d’anni. Ma è gonfio come una botte e giallo come un limone, con le labbra violacee semiaperte nella bocca anelante. Lo accompagna la donna della prima parte della visione.

L’uomo avanza a fatica per malattia e per timore. Si vede guardato così malamente! Ma Gesù ha lasciato il suo posto ed è andato presso all’infelice prendendolo per mano e portandolo al centro della sala, nello spazio vuoto fra le tavole messe a “u”. Proprio sotto al lampadario.

«Che vuoi da Me?».

«Maestro… ti ho tanto cercato… da tanto… Nulla voglio fuorché salute… per i miei bambini e la mia donna… Tu puoi tutto… Vedi come sono ridotto…».

«E credi che Io ti possa guarire?».

«Se lo credo!… Ogni passo m’è dolore… ogni scossa pena… ma pure ho fatto chilometri per cercarti… e poi col carro ti sono venuto ancora dietro… ma non ti raggiungevo mai… Se lo credo! Mi fa stupore non esser già guarito da quando la mia mano è nella tua, poiché tutto di Te è santo, o Santo di Dio».

Il poveretto soffia come un mantice per lo sforzo di tante parole. La moglie guarda il marito e Gesù, e piange.

Gesù li guarda e sorride. Poi si volge e chiede: «Tu, vecchio scriba rispondi a Me: è lecito guarire in sabato?».

«In sabato non è lecito fare opera alcuna».

«Neppure salvare uno dalla disperazione? Non è lavoro manuale».

«Il sabato è sacro al Signore».

«Quale opera più degna di un giorno sacro di quella di far sì che un figlio di Dio dica al Padre: “Io ti amo e lodo perché m’hai guarito”?!».

«Deve farlo anche se infelice».

«Canania, lo sai che in questo momento il tuo bosco più bello sta ardendo e tutta la pendice dell’Hermon splende nella porpora delle fiamme?».

Il vecchietto schizza come l’avesse morso un aspide: «Maestro, dici il vero o scherzi?».

«Dico il vero. Io vedo e so».

«Oh! me misero! Il mio bosco più bello! Migliaia di sicli in cenere! Maledizione! Siano maledetti i cani che me l’hanno messo a fuoco! Ardano nelle viscere come il mio legno!».

Il vecchietto è disperato.

«Non è che un bosco, Canania, e ti lamenti! Perché non dai lode al Signore in questa sventura? Costui perde non del legno, che rinasce, ma la vita e il pane per i figli, e dovrebbe dar la lode che tu non dai. Dunque, scriba, non m’è lecito guarire in sabato costui?».

«Maledetto Te, lui e il sabato! Ho ben altro da pensare io…»; e, dato uno spintone a Gesù che gli aveva posto una mano sul braccio, esce furente e si ode che sbraita con la sua voce chioccia per avere il suo carro.

«E ora?», Gesù chiede girando lo sguardo sugli altri. «E ora ditemi voi. È lecito o meno?».

Nessuna risposta. Eleazar china il capo dopo aver socchiuso le labbra, che però richiude, colpito dal gelo che si è fatto nella sala.

«Ebbene Io parlerò», dice Gesù. Ed è imponente e tonante nell’aspetto e nella voce, come sempre quando sta per operare miracolo. «Io parlerò. Parlo. Dico: uomo, ti sia fatto secondo che credi. Tu sei sanato. Loda l’Eterno. Va in pace».

L’uomo resta interdetto. Forse pensava tornare di colpo snello come un tempo. E gli pare non esser guarito. Ma chissà cosa sente… Ha un grido di gioia e si getta ai piedi di Gesù e li bacia.

«Vai, vai! Sii sempre buono. Addio!».

L’uomo esce seguito dalla donna, che sino all’ultimo si volge a salutare Gesù.

«Però, Maestro… In casa mia… Di sabato…».

«Tu non approvi? Lo so. E per questo sono venuto. Amico tu? No. Nemico mio. Non sei sincero con Me e non con Dio».

«Offendi, ora?».

«No. Dico la verità. Tu hai detto che Eleazar non è tenuto a soccorrere quella vecchia perché non è di sua proprietà. Ma tu avevi due orfani nella tua proprietà. Erano figli di due tuoi servi fedeli che ti sono morti sul lavoro, uno con la falce in pugno, l’altra uccisa da troppa fatica per averti dovuto servire, come esigevi da lei per tenerla, per lei e per il marito. Tu dicevi: “Io ho fatto patto per due persone di lavoro e per tenerti voglio il lavoro tuo e del morto”. E lei te lo ha dato ed è morta col suo concepimento. Perché quella donna era madre. E non vi fu per essa la pietà che si ha per la bestia che genera. Dove sono ora quei due bambini?».

«Non so… Sono scomparsi un giorno».

«Non mentire ora. Basta l’esser stato crudele. Non occorre aggiungere menzogna per rendere odiosi a Dio i tuoi sabati, anche se scevri da opera servile. Dove sono quei bambini?».

«Non lo so. Non lo so più, credilo».

«Io lo so. Li ho trovati una sera di novembre, fredda, piovosa, buia. Li ho trovati affamati e tremanti, presso una casa, come due cagnoli in cerca di un boccone di pane… Maledetti e cacciati da chi aveva viscere di cane più di un cane vero. Perché un cane avrebbe avuto pietà di quei due orfanelli. E tu e quell’uomo non ne avete avuta.

Non ti servivano più i loro genitori, vero? Erano morti. I morti piangono solo, nei loro sepolcri, udendo i singhiozzi dei figli infelici che gli altri trascurano. I morti però, col loro spirito, portano i loro pianti, e quelli degli orfani loro, a Dio e dicono: “Signore, fai Tu le nostre vendette, poiché il mondo opprime quando non ci può più sfruttare”.

Non ti servivano ancora i due piccini, vero? Sì e no se la bambina poteva servire a spigolare… E tu li hai cacciati negando loro anche quel poco bene che era del padre e della madre. Potevano morire di fame e freddo come due cani su una carraia. Potevano vivere divenendo uno ladro e una prostituta. Perché la fame porta al peccato. Ma che te ne importava?

Poco fa tu citavi la Legge a puntello delle tue teorie. E la Legge non dice allora: “Non danneggiate la vedova e l’orfano, ché, se li danneggerete ed essi alzeranno la voce a Me, Io ascolterò il loro grido e il mio furore divamperà e vi sterminerò con la spada, e le vostre mogli resteranno vedove e i vostri figli orfani”? Non dice così la Legge?

E allora perché tu non l’osservi? Tu mi difendi presso gli altri? E allora perché non difendi la mia dottrina in te stesso? Tu mi vuoi essere amico? E allora perché fai l’opposto di quello che Io dico? Uno di voi sta correndo a perdifiato, strappandosi i capelli per la rovina del suo bosco. E non se li strappa sulle rovine del suo cuore! E tu che aspetti a farlo?

Perché volete sempre credervi perfetti, voi che la sorte ha messo in alto? E se anche lo foste in qualcosa, perché non cercate esserlo in tutto? Perché mi odiate perché Io vi scopro le piaghe? Io sono il Medico del vostro spirito. Può un medico guarire se non scopre e netta le piaghe?

Ma non sapete che molti, e quella donna che è uscita ne è una, meritano il primo posto nel convito di Dio pur essendo in apparenza meschini?

Non è l’esterno, è il cuore, è lo spirito quello che vale. Dio vi vede dall’alto del suo trono. E vi giudica. Quanti ne vede migliori di voi!

Perciò udite. Per regola agite così, sempre. Quan­do vi invitano ad un convito di nozze, scegliete sempre l’ultimo posto. Doppio onore ve ne verrà quando il padrone vi dirà: “Amico, vieni avanti”. Onore di meriti e onore di umiltà. Mentre… O triste ora per un superbo esser svergognato e sentirsi dire: “Va là, in fondo, ché qui vi è uno che è più di te”. E lo stesso fate nel convito segreto del vostro spirito a nozze con Dio. Chi si umilia sarà esaltato e chi si esalta sarà umiliato.

Ismaele, non mi odiare poiché ti curo. Io non ti odio. Sono venuto per guarirti. Sei più malato di quell’uomo. Tu mi hai invitato per dar lustro a te stesso e soddisfazione agli amici. Spesso inviti, ma per superbia e gioia. Non lo fare. Non invitare ricchi, parenti e amici. Ma apri la casa, apri il cuore ai poveri, ai mendichi, agli storpi, agli zoppi, agli orfani e le vedove.

Non ti daranno che ricambio di benedizione. Ma Dio te le muterà in grazie. E alla fine… oh! alla fine, che sorte beata a tutti i misericordiosi che saranno retribuiti da Dio alla resurrezione dei morti! Guai a quelli che blandiscono soltanto una speranza di utile e poi chiudono il loro cuore al fratello che non può più servire. Guai a loro! Io farò le vendette degli abbandonati».

«Maestro… io… io ti voglio far contento. Prenderò ancora quei bambini».

«No».

«Perché?».

«Ismaele?!…».

Ismaele abbassa il capo. Vuole fare l’umile. Ma è una vipera a cui è stato spremuto il veleno e non morde perché sa che ne è priva, aspetta di mordere però…

Eleazaro cerca di riportare pace dicendo: «Beati quelli che banchettano con Dio, nel loro spirito e nel Regno eterno. Ma, credi, Maestro. Delle volte è la vita che ce ne fa ostacolo. Le cariche… le occupazioni…».

Gesù dice qui la parabola del convito e termina: «Le cariche… le occupazioni, hai detto. È vero. Ma per questo ti ho detto, al principio di questo convito, che il Regno mio si conquista con vittorie su se stessi e non con vittorie d’armi sul campo.

Il posto alla gran Cena è per questi umili di cuore che sanno esser grandi col loro fedele amore, che non misura sacrificio e tutto supera per venire a Me. Anche un’ora basta a mutare un cuore. Purché quel cuore voglia. E basta una parola. Io ve ne ho dette tante. E guardo… In un cuore sta nascendo una pianta santa. Negli altri triboli per Me e dentro ai triboli sono aspidi e scorpioni. Non importa.

Io vado sulla mia via diritta. Chi mi ama mi segua. Io vado chiamando. I retti vengano a Me. Io vado istruendo. I cercatori di giustizia si accostino alla Fonte. Per gli altri… per gli altri giudicherà il Padre santo.

Ismaele, Io ti saluto. Non mi odiare. Medita. E senti che fui severo per amore, non per odio. Pace a questa casa e ai suoi abitatori, pace a tutti se pace meritate».

 

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

XXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C 25 AGOSTO 2019

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Luca Lc 13,22-30
In quel tempo, Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Disse loro: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, Io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di iniquità!”. Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel Regno di Dio, voi invece cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel Regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi». Parola del Signore.

RIFLESSIONI

Gesù si rifiuta di rispondere alla domanda riguardo al numero di coloro che si salveranno: la questione della salvezza non si pone infatti in termini generali, non si pone innanzitutto per gli altri, ma si pone “per me”.
Dipende dalla mia accettazione o dal mio rifiuto della salvezza che Gesù mi offre.
Il cammino verso la salvezza consiste nel seguire Gesù: egli è la via. Lo sforzo di entrare per “la porta stretta” è lo sforzo di seguire il cammino intrapreso da Gesù, cioè il cammino verso Gerusalemme, il cammino verso il Calvario. Il Calvario fu solo una tappa nel cammino verso la destinazione finale, una tappa di grande sofferenza, di tenebre e di solitudine, ma che sboccò direttamente su un mondo di luce e di gioia, illuminato dal sole nascente di Pasqua, vivente della gioia della risurrezione.
L’ingresso al sepolcro di Gesù, nella basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme, è basso e stretto, all’interno l’ambiente è angusto e buio: eppure, proprio da qui la risurrezione, in tutta la sua potenza irresistibile, levò il masso e aprì le tombe riempiendo il mondo di luce e di vita.
Il punto in cui si incontrano i due bracci della croce è stretto e basso, ma i bracci indicano i quattro punti cardinali, i quattro venti del mondo. Là Gesù “stese le braccia fra il cielo e la terra, in segno di perenne alleanza” ed estese la sua offerta dell’amore e della salvezza di Dio a tutti gli uomini, ad oriente e ad occidente, a settentrione e a mezzogiorno, invitando ogni uomo e ogni donna, di ogni età e di ogni razza, di ogni colore e di ogni lingua, a partecipare al banchetto del regno di Dio.
La porta stretta è il mezzo per uscire dalle angustie di un mondo senza amore; essa è l’apertura verso l’amore senza confini, verso il perdono e la misericordia.

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta
Capitolo 363

 

Tommaso, che era in fondo alla comitiva e che parlava con Mannaen e con Bartolomeo, si stacca dai compagni e raggiunge il Maestro che è davanti con Marziam e Isacco.

«Maestro, fra poco siamo vicini a Rama. Non verresti a benedire il bambino di mia sorella? Ella desidera tanto di vederti! Potremmo sostare lì. C’è posto per tutti. Accontentami, Signore!».

«Ti accontento. E con gioia! Domani entreremo in Gerusalemme riposati».

«Oh! allora vado avanti ad avvertire! Mi lasci andare?».

«Và. Ma ricordati che non sono l’amico mondano. Non obbligare i tuoi a molta spesa. Trattami da “Maestro”. Hai capito?».

«Sì, mio Signore. Lo dirò ai parenti. Vieni, Marziam, con me?».

«Se Gesù vuole…».

«Vai, vai, figlio».

Gli altri, che hanno visto Tommaso e Marziam andare in direzione di Rama, sita un poco a sinistra della strada che dalla Samaria, credo, va a Gerusalemme, affrettano il passo per chiedere cosa succede.

«Andiamo in casa della sorella di Toma. In tutte le case dei parenti vostri ho sostato. È giusto che vada anche da lui. E l’ho mandato avanti per questo».

«Allora, se permetti, oggi io pure andrò avanti. Per vedere un poco se non ci sono novità. Al tuo ingresso alla porta di Damasco ci sarò io se c’è del brutto. Altrimenti ti vedrò… Dove, Signore?», dice Mannaen.

«A Betania, Mannaen. Vado subito da Lazzaro. Ma le donne le lascerò a Gerusalemme. Vado da solo. Anzi. Te ne prego. Dopo la sosta di oggi, tu scorta le donne alle loro case».

«Come vuoi Tu, Signore».

«Avvisate il conducente di seguirci a Rama».

Infatti il carro viene in su lentamente per stare dietro alla comitiva apostolica. Isacco e lo Zelote restano fermi ad attenderlo mentre tutti gli altri prendono la strada secondaria che con una dolce pendenza conduce alla collinetta, molto bassa, sulla quale è Rama.

Tommaso, che non sta nei suoi panni e appare anche più rubicondo per la gioia che gli splende in viso, è all’ingresso del paese, in attesa. Corre incontro a Gesù:

«Che felicità, Maestro! Vi è tutta la mia famiglia! Mio padre che tanto voleva vederti, la madre mia, i fratelli! Come sono contento!»

E si mette a fianco di Gesù, passando attraverso il paese così impettito che sembra sia un conquistatore nell’ora del trionfo.

La casa della sorella di Tommaso è ad un crocevia verso l’est della città. È la caratteristica casa israelita benestante, dalla facciata quasi priva di finestre, il portone ferrato, col suo spioncino, la terrazza per tetto e le muraglie del giardino, alte e scure, che si prolungano dietro la casa sormontate dalle chiome degli alberi da frutto.

Ma oggi non ha bisogno la servente di guardare dallo spioncino. Il portone è tutto aperto e tutti gli abitanti della casa sono schierati nell’atrio, e si vede un continuo allungarsi di mani adulte che afferrano un fanciullo o una fanciulla della folta schiera dei bambini, i quali, irrequieti, esaltati dall’annunzio, rompono continuamente i ranghi e le gerarchie e sguizzano sul davanti della famiglia, ai posti di onore, dove in prima fila sono i genitori di Tommaso e la sorella col marito.

Ma quando Gesù è sulla soglia, chi li tiene più i frugoli? Sembrano una chiocciata che esca dal nido dopo una notte di riposo. E Gesù riceve l’urto di questa schiera garrula e gentile, che si abbatte contro i suoi ginocchi e lo stringe, alzando le faccette in cerca di baci, e che non si stacca nonostante i richiami materni o paterni e neppure per qualche scappellotto che Tommaso amministra per rimettere ordine.

«Lasciali fare! Lasciali fare! Fosse tutto il mondo così!», esclama Gesù, curvo ad accontentare tutti quei frugolini.

Infine può entrare fra i saluti più venerabondi degli adulti. Ma quelli che mi piacciono particolarmente sono i saluti del padre di Tommaso, un vecchio caratteristicamente giudeo, il quale viene rialzato da Gesù, che lo vuole baciare «per riconoscenza alla sua generosità nel dargli un apostolo».

«Oh! Dio mi ha amato più di ogni altro in Israele, perché mentre ogni ebreo ha un maschio, il primogenito, sacro al Signore, io ne ho due: il primo e l’ultimo; e l’ultimo è ancor più sacro perché, senza essere levita né sacerdote, fa ciò che neppure il Sommo Sacerdote fa: vede costantemente Iddio e ne accoglie i comandi!», dice con la voce un poco tremula dei vecchi, fatta ancor più tremula dall’emozione.

E termina: «Dimmi solo una cosa per far contenta l’anima mia. Tu che non menti, dimmi: questo figlio mio, per il modo come ti segue, è degno di servirti e meritare la Vita eterna?».

«Riposa in pace, padre. Il tuo Toma ha un grande posto nel cuore di Dio per il modo come si conduce, ed avrà un grande posto in Cielo per il modo come avrà servito Iddio fino all’ultimo respiro».

Tommaso boccheggia come un pesce per l’emozione di quanto sente dire.

Il vecchio alza le mani tremule, mentre due righe di pianto scendono fra le incisioni delle profonde rughe a sperdersi nel barbone patriarcale, e dice:

«Su te la benedizione di Giacobbe, la benedizione del patriarca al giusto fra i figli: “L’Onnipotente ti benedica colle benedizioni del Cielo di sopra, colle benedizioni dell’abisso che giace di sotto, colle benedizioni delle mammelle e del seno. Le benedizioni di tuo padre sorpassino quelle dei padri di lui e, finché non venga il desiderio dei colli eterni, posino sul capo di Toma, sul capo di colui che è nazareo fra i suoi fratelli!”».

E tutti rispondono: «Così sia».

«Ed ora benedici Tu, o Signore, questa casa e soprattutto questi che sono sangue del mio sangue», dice il vecchio accennando ai fanciulli.

E Gesù, aprendo le braccia, tuona la benedizione mosaica e la allunga dicendo: «Dio, alla cui presenza camminarono i vostri padri, Dio che mi pasce dalla mia adolescenza fino a questo giorno, l’Angelo che mi ha liberato da ogni male, benedica questi fanciulli, portino essi il mio Nome e anche i nomi dei miei padri e si moltiplichino copiosamente sopra la Terra», e termina prendendo l’ultimo nato dalle braccia della madre per baciarlo sulla fronte dicendo:

«E in te scendano come miele e burro le virtù elette che abitarono nel Giusto di cui ti è dato il nome, facendolo pingue per i Cieli e ornato come palma dai biondi datteri e cedro di regale fronda».

Sono tutti commossi ed estatici. Ma poi un trillio di gioia esplode da tutte le bocche e accompagna Gesù, che entra nella casa e non si ferma che quando è nel cortile, nel quale presenta agli ospiti la Madre, le discepole, gli apostoli e i discepoli.

Non è più mattina, e non è più mezzogiorno. Il raggio malato di un sole che fora a fatica le nuvole scapigliate di un tempo che stenta a rimettersi, dice che il sole si avvia al tramonto e il giorno al crepuscolo.

Le donne non ci sono più e con loro non c’è più Isacco e Mannaen, mentre Marziam è rimasto ed è beato al fianco di Gesù, che esce di casa andando con gli apostoli e con tutti i parenti maschi di Tommaso a vedere alcune vigne che pare abbiano un pregio speciale. Tanto il vecchio come il cognato di Tommaso illustrano la posizione del vigneto e la rarità delle piante, che per ora non hanno che foglioline tenerelle.

E Gesù benignamente ascolta queste spiegazioni, interessandosi di potature e di sarchiamenti come della cosa più utile della Terra. Alla fine dice sorridendo a Tommaso: «Te la devo benedire questa dote della tua gemella?».

«Oh! mio Signore! Io non sono Doras né Ismaele. So che il tuo alito, la tua presenza in un luogo è già benedizione. Ma se vuoi alzare la tua destra su queste piante fallo, e certo santo sarà il loro frutto».

«E abbondante no? Che ne dici, padre?».

«Basta santo. Santo basta! Ed io lo piglierò e te lo manderò per la Pasqua prossima, e lo userai nel calice del rito».

«È detto. Ci conto. Voglio nella Pasqua futura consumare il vino di un vero israelita».

Escono dalla vigna per tornare in paese.

La notizia della presenza in paese di Gesù di Nazaret si è diffusa e quelli di Rama sono tutti sulle strade con una gran voglia di avvicinarsi.

Gesù vede e dice a Tommaso: «Perché non vengono? Hanno forse tema di Me? Dì loro che li amo».

Oh! Tommaso non se lo fa dire due volte! Va da un crocchio all’altro, così svelto che pare un farfallone che voli di fiore in fiore. E non se lo fanno dire due volte neppure quelli che sentono l’invito. Corrono tutti, passandosi la voce, intorno a Gesù, di modo che, giunti al crocevia dove è la casa di Tommaso, vi è una discreta folla che parla con rispetto con gli apostoli e coi famigliari di Tommaso chiedendo questo o quello.

Comprendo che Tommaso ha lavorato molto nei mesi d’inverno, e molto della dottrina evangelica è nota in paese. Ma desiderano averne particolare spiegazione, e uno, al quale ha fatto grande impressione la benedizione data da Gesù ai piccoli della casa ospitale e quanto ha detto di Tommaso, chiede:

«Saranno dunque tutti dei giusti per questa tua benedizione?».

«Non per essa. Ma per le loro azioni. Io ho dato ad essi la forza della benedizione per corroborarli nelle loro azioni. Ma sono essi che devono fare le azioni e fare soltanto giuste azioni per avere il Cielo. Io benedico tutti… ma non tutti si salveranno in Israele».

«Anzi, se ne salveranno molto pochi, se vanno avanti così come vanno», brontola Tommaso.

«Che dici?».

«Il vero. Chi perseguita il Cristo e Lo calunnia, chi non pratica ciò che Egli insegna, non avrà parte al suo Regno», dice col suo vocione Tommaso.

Uno lo tira per la manica: «È molto severo?», chiede accennando a Gesù.

«No. Anzi è troppo buono».

«Io, che dici, mi salverò? Non sono fra i discepoli. Ma tu lo sai come sono e come ho sempre creduto a quello che tu mi dicevi. Ma più di così non so fare. Cosa devo fare di preciso per salvarmi, oltre quello che faccio già?».

«Chiediglielo a Lui. Avrà la mano e il giudizio più dolce e giusto del mio».

L’uomo si fa avanti. Dice: «Maestro, io sono osservante della Legge e da quando Toma mi ha ripetuto le tue parole cerco di esserlo di più. Ma sono poco generoso. Faccio ciò che devo fare assolutamente. Mi astengo dal fare ciò che non è bene fare perché ho paura dell’inferno. Ma amo però i miei comodi e… lo confesso, studio molto di fare le cose in modo di non peccare ma di non disturbare neppure troppo me stesso. Facendo così mi salverò?».

«Ti salverai. Ma perché essere avaro col buon Dio che è tanto generoso con te? Perché pretendere per sé solo la salvezza, carpita a fatica, e non la grande santità che dà subito eterna pace? Suvvia, uomo! Sii generoso con l’anima tua!».

L’uomo dice umilmente: «Ci penserò, Signore. Ci penserò. Sento che Tu hai ragione e che io faccio torto all’anima mia obbligandola a lunga purgazione prima di avere la pace».

«Bravo. Questo pensiero è già un principio di perfezionamento».

Un altro di Rama chiede: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?».

«Se l’uomo sapesse condursi con rispetto verso se stesso e con amore reverenziale a Dio, tutti gli uomini si salverebbero, come Dio lo desidera. Ma l’uomo non procede così. E, come uno stolto, si trastulla con l’orpello invece di prendere l’oro vero.

Siate generosi nel volere il Bene. Vi costa? In questo è il merito.

Sforzatevi di entrare per la porta stretta. L’altra, ben larga e ornata, è una seduzione di satana per traviarvi. Quella del Cielo è stretta, bassa, nuda e scabra. Per passarvi occorre essere agili, leggeri, senza pompa e senza materialità. Occorre essere spirituali per poterlo fare.

Altrimenti, venuta l’ora della morte, non riuscirete a varcarla. E in verità si vedranno molti che cercheranno di entrarvi senza potervi riuscire, tanto sono obesi di materialità, infronzolati di pompe mondane, irrigiditi da una crosta di peccato, incapaci a piegarsi per la superbia che fa loro da scheletro.

E verrà allora il Padrone del Regno a chiudere la porta, e quelli fuori, quelli che non avranno potuto entrare al tempo giusto, stando fuori busseranno all’uscio gridando: “Signore, aprici. Ci siamo anche noi”.

Ma Egli dirà: “In verità Io non vi conosco, né so da dove venite”.

Ed essi: “Ma come? Non ti ricordi di noi? Noi abbiamo mangiato e bevuto con Te e noi ti abbiamo ascoltato quando Tu insegnavi nelle nostre piazze”.

Ma Egli risponderà: “In verità Io non vi riconosco. Più vi guardo e più mi apparite fatti sazi di ciò che Io ho dichiarato cibo impuro. In verità più Io vi scruto e più vedo che voi non siete della mia famiglia. In verità, ecco, ora vedo di chi siete figli e sudditi: dell’Altro. Avete per padre satana, per madre la Carne, per nutrice la Superbia, per servo l’Odio, per tesoro avete il peccato, per gemme i vizi.

Sul vostro cuore è scritto: ‘Egoismo’.

Le vostre mani sono sporche delle rapine fatte ai fratelli. Via di qui! Lontani da Me, voi tutti, operatori di iniquità”.

E allora, mentre dal profondo dei Cieli verranno fulgidi di gloria Abramo, Isacco, Giacobbe e tutti i Profeti e giusti del Regno di Dio, essi, quelli che non hanno avuto amore ma egoismo, non sacrificio ma mollezza, saranno cacciati lontano, confinati al luogo dove il pianto è eterno e dove non c’è che terrore.

E i risorti gloriosi, venuti da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno, si aduneranno alla mensa nuziale dell’Agnello, Re del Regno di Dio. E si vedrà allora che molti che parvero i “minimi” nell’esercito della Terra saranno i primi nella cittadinanza del Regno. E così pure vedranno che non tutti i potenti d’Israele sono potenti in Cielo, e non tutti gli eletti dal Cristo alla sorte di suoi servi hanno saputo meritare di essere eletti alla mensa nuziale. Ma bensì vedranno che molti, creduti “i primi”, saranno non solo ultimi, ma non saranno neppure ultimi.

Perché molti sono i chiamati, ma pochi quelli che dell’elezione sanno farsi una vera gloria».

Mentre Gesù parla, con un pellegrinaggio diretto a Gerusalemme, o venuto da Gerusalemme sopra-affollata in cerca di alloggio, sopraggiungono dei farisei. Vedono l’assembramento e si avvicinano a vedere. Presto scorgono la testa bionda di Gesù splendere contro il muro oscuro della casa di Tommaso.

«Fate largo, ché vogliamo dire una parola al Nazareno», urlano prepotenti.

Con nessun entusiasmo la folla si apre e gli apostoli vedono venire verso di loro il gruppo farisaico.

«Maestro, pace a Te!».

«La pace a voi. Che volete?».

«Vai a Gerusalemme?».

«Come ogni fedele israelita».

«Non ci andare! Un pericolo ti aspetta là. Noi lo sappiamo perché veniamo di là, incontro alle nostre famiglie. E siamo venuti ad avvertirti perché abbiamo saputo che eri a Rama».

«Da chi, se è lecito chiederlo?», chiede Pietro, insospettito e pronto ad attaccare una disputa.

«Ciò non ti riguarda, uomo. Sappi solo, tu che ci chiami serpenti, che presso il Maestro i serpenti sono molti e che faresti bene a diffidare dei troppi, e dei troppo potenti, discepoli».

«Ohé! Non vorrai insinuare che Mannaen o…».

«Silenzio, Pietro. E tu, fariseo, sappi che nessun pericolo può distogliere un fedele dal suo dovere. Se si perde la vita è nulla. Quello che è grave è perdere la propria anima contravvenendo alla Legge. Ma tu lo sai. E sai che Io lo so. Perché allora mi tenti? Non sai forse che Io so perché lo fai?».

«Non ti tento. È verità. Molti fra noi saranno tuoi nemici. Ma non tutti. Noi non ti odiamo. Sappiamo che Erode ti cerca e ti diciamo: parti. Vattene via di qua, perché se Erode ti cattura certo ti uccide. È ciò che desidera».

«È ciò che desidera, ma che non farà. Questo lo so Io. Del resto, andate a dire a quella vecchia volpe che Colui che egli cerca è a Gerusalemme. Infatti Io vengo cacciando i demoni, operando guarigioni senza nascondermi. E lo faccio e farò oggi, domani e dopodomani, finché il mio tempo non sarà finito.

Ma bisogna che Io cammini finché non ho toccato il termine. E bisogna che oggi e poi un’altra e un’altra e un’altra volta ancora, Io entri in Gerusalemme, perché non è possibile che il mio cammino si fermi prima. E deve compiersi in giustizia, ossia in Gerusalemme».

«Il Battista è morto altrove».

«È morto in santità, e santità vuol dire “Gerusalemme”. Ché se ora Gerusalemme vuol dire “Peccato”, ciò è solo per ciò che non è che terrestre e che presto non sarà più. Ma Io parlo di ciò che è eterno e spirituale, ossia della Gerusalemme dei Cieli. In essa, nella sua santità, muoiono tutti i giusti ed i Profeti.

In essa Io morirò e voi inutilmente volete indurmi al peccato. E morirò, anche, fra le colline di Gerusalemme, ma non per mano di Erode, sebbene per volere di chi mi odia più sottilmente di lui, perché vede in Me l’usurpatore del Sacerdozio ambito e il purificatore d’Israele da tutti i morbi che lo corrompono.

Non addossate dunque a Erode tutta la smania di uccidere, ma prendete ognuno la vostra parte, ché, in verità, l’Agnello è su un monte sul quale salgono da ogni parte lupi e sciacalli, per sgozzarlo e…».

I farisei fuggono sotto la grandine delle scottanti verità…

Gesù li guarda fuggire. Si volge poi a mezzogiorno, verso una luminosità più chiara che forse indica la zona di Gerusalemme, e mestamente dice:

«Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i tuoi profeti e lapidi coloro che ti sono mandati, quante volte ho voluto radunare i tuoi figli come fa l’uccello sul suo nido radunando i suoi piccoli sotto le sue ali, e tu non hai voluto!

Ecco! Ti sarà lasciata deserta la Casa dal tuo vero Pa­drone. Egli verrà, farà, come vuole il rito, come deve fare il primo e l’ultimo d’Israele, e poi se ne andrà. Non sosterà più fra le tue mura per purificarti con la sua presenza. E ti assicuro che tu e i tuoi abitanti non mi vedrete più, nella mia vera figura, finché non sia il giorno in cui diciate: “Benedetto Colui che viene in nome del Signore”… E voi di Rama ricordate queste parole e tutte le altre, onde non avere parte nel castigo di Dio. Siate fedeli… Andate. La pace sia con voi».

E Gesù si ritira nella casa di Tommaso con tutti i famigliari di esso e i suoi apostoli.

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

XX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C Lc 12,49-53 18 Agosto 2019

Lc 12,49-53 Gesù disse ai suoi discepoli: Sono venuto a portare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 12,49-53)

Gesù disse ai suoi discepoli:
«Sono venuto a portare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!
Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera». Parola del Signore.

RIFLESSIONI
Un dispiacere si fa sempre più pesante per Gesù in cammino verso la sua passione: lui che voleva raccogliere insieme tutto il popolo di Dio si vede sempre più isolato nel suo insuccesso. Eppure resta fedele: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra”. Questo fuoco, immagine del giudizio di Dio, della sua parola ultima e definitiva, si accenderà attraverso di lui.
Ma, per realizzare questo, egli deve ricevere un battesimo, attraversare la sofferenza e la morte.
Il rifiuto dell’amore di Dio è divenuto estremo nel rifiuto della sua persona. In un certo senso la sua venuta provoca questo rifiuto. E Gesù non vuole nasconderlo con una pace facile, non può lasciare in pace un mondo che si rinchiude nella durezza del cuore. Ormai egli è pronto a prendere su di sé tutte le conseguenze del rifiuto di Dio, le divisioni tra gli uomini fino nelle loro relazioni più intime. È l’ultima prova già descritta dai profeti (Mi 7,1-17). Il Vangelo ci dice: nel momento del rifiuto totale di Cristo, il fuoco è acceso.

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta Capitolo 276

(È lo stesso testo della settimana scorsa, l’ultima parte riguarda il Vangelo di oggi)

Beati quei servi che il Padrone, arrivando, troverà vigilanti.

In verità, per ricompensarvi della attesa fedele, Egli si cingerà la veste e, fattili sedere a tavola, si metterà a servirli. Può venire alla prima vigilia, come alla seconda e alla terza. Voi non lo sapete. Siate perciò sempre vigilanti. E beati voi se lo sarete e così vi troverà il Padrone!

Non vi ingannate col dire: “C’è tempo! Questa notte Egli non viene”. Ve ne accadrebbe male. Voi non sapete.

Se uno sapesse quando il ladro viene, non lascerebbe incustodita la casa perché il malandrino possa sforzarne la porta e i forzieri. Anche voi state preparati, perché, quando meno ve lo penserete, verrà il Figlio dell’Uomo dicendo: “È l’ora”».

Pietro, che si è persino dimenticato di finire il suo cibo per ascoltare il Signore, vedendo che Gesù tace, chiede: «Questo che dici è per noi o per tutti?».

«È per voi e per tutti. Ma più è per voi, perché voi siete come intendenti preposti dal Padrone a capo dei servi e avete doppio dovere di stare pronti, e per voi come intendenti, e per voi come semplici fedeli. Che deve essere l’intendente preposto dal padrone a capo dei suoi familiari per dare a ciascuno, a suo tempo, la giusta porzione? Deve essere accorto e fedele. Per compiere il suo proprio dovere, per far compiere ai sottoposti il loro proprio dovere. Altrimenti ne soffrirebbero gli interessi del padrone, che paga perché l’intendente faccia in sua vece e ne tuteli gli interessi in sua assenza.

Beato quel servo che il padrone, tornando alla sua casa, trova ad operare con fedeltà, solerzia e giustizia. In verità vi dico che lo farà intendente anche di altre proprietà, di tutte le sue proprietà, riposando e giubilando in cuor suo per la sicurezza che quel servo gli dà.

Ma se quel servo dice: “Oh! bene! Il padrone è molto lontano e mi ha scritto che tarderà a tornare. Perciò io posso fare ciò che mi pare e poi, quando penserò prossimo il ritorno, provvederò”. E comincerà a mangiare e a bere fino ad essere ubriaco e a dare ordini da ebbro e, poiché i servi buoni, a lui sottoposti, si rifiutano di eseguirli per non danneggiare il padrone, si dà a battere servi e serve fino a farli cadere in malattia e languore. E crede di essere felice, e dice: “Finalmente gusto ciò che è esser padrone e temuto da tutti”.

Ma che gli avverrà?

Gli avverrà che il padrone giungerà quando meno egli se lo aspetta, magari sorprendendolo nell’atto di intascare denaro o di corrompere qualche servo fra i più deboli. Allora, Io ve lo dico, il padrone lo caccerà dal posto di intendente, e persino dalle file dei suoi servi, perché non è lecito tenere gli infedeli e traditori in mezzo agli onesti.

E tanto più sarà punito quanto più il padrone prima lo aveva amato e istruito. Perché chi più conosce la volontà e il pensiero del padrone più è tenuto a compierlo con esattezza.

Se non fa così come il padrone ha detto, ampiamente, come a nessun altro, avrà molte percosse, mentre chi, come servo minore, ben poco sa e sbaglia credendo di far bene, avrà castigo minore.

A chi molto fu dato molto sarà chiesto, e dovrà rendere molto chi molto ebbe in custodia, perché sarà chiesto conto ai miei intendenti anche dell’anima del pargolo di un’ora.

La mia elezione non è fresco riposo in un boschetto fiorito. Io sono venuto a portare fuoco sulla Terra; e che posso desiderare se non che si accenda? Perciò mi affatico e voglio vi affatichiate fino alla morte e finché la Terra sia tutta un rogo di fuoco celeste. Io devo essere battezzato con un battesimo. E come sarò angustiato finché non sarà compiuto! Non vi chiedete perché? Perché per esso potrò di voi fare dei portatori del Fuoco, degli agitatori che si muoveranno in tutti e contro tutti gli strati sociali, per farne un’unica cosa: il gregge di Cristo.

Credete voi che Io sia venuto a metter pace sulla Terra? E secondo il modo di vedere della Terra? No. Ma anzi discordia e separazione.

Perché d’ora innanzi, e fintanto che tutta la Terra non sarà un unico gregge, di cinque che sono in una casa due saranno contro tre, e sarà il padre contro il figlio, e questo contro il padre, e la madre contro le figlie, e queste contro quella, e le suocere e nuore avranno un motivo di più per non intendersi, perché un linguaggio nuovo sarà su certe labbra e accadrà come una Babele, perché un sommovimento profondo scuoterà il regno degli affetti umani e soprumani.

Ma poi verrà l’ora in cui tutto si unificherà in una lingua nuova, parlata da tutti i salvati dal Nazareno, e si depureranno le acque dei sentimenti, andando sul fondo le scorie e brillando alla superficie le limpide onde dei laghi celesti.

In verità che non è riposo il servirmi, secondo quanto dà, l’uomo, di significato a questa parola. Occorre eroismo e instancabilità. Ma Io ve lo dico: alla fine sarà Gesù, sempre e ancora Gesù, che si cingerà la veste per servirvi, e poi si siederà con voi ad un banchetto eterno e sarà dimenticata fatica e dolore.

Ora, posto che nessuno più ci ha cercato, andiamo al lago. Riposeremo in Magdala. Nei giardini di Maria di Lazzaro c’è posto per tutti, ed ella ha messo la sua casa a disposizione del Pellegrino e dei suoi amici.

Non occorre che vi dica che Maria di Magdala è morta col suo peccato ed è rinata dal suo pentimento Maria di Lazzaro, discepola di Gesù di Nazaret. Voi lo sapete già, perché la notizia è corsa come fremito di vento in una foresta.

Ma Io vi dico ciò che non sapete: che tutti i beni personali di Maria di Lazzaro sono per i servi di Dio e per i poveri di Cristo. Andiamo…».

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

XIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C (Lc 12,32-48) 11 Agosto 2019

Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà.

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Luca. (Lc 12,32-48)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno.
Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore.
Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito.
Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!
Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».
Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?».
Il Signore rispose: «Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi.
Ma se quel servo dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda a venire”, e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli.
Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche.
A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più». Parola del Signore.

Forma breve

Dal Vangelo secondo Luca. (Lc 12,35-40)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito.
Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!
Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo». Parola del Signore

RIFLESSIONI

In questo brano del Vangelo Cristo ci dice di non avere paura, di non lasciarci prendere dall’angoscia: il nostro stato d’animo di sempre deve essere una tranquilla fiducia in Dio, poiché “al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno”. Dobbiamo aprire un conto in questo regno, perché solo lì si trova la vera ricchezza. La motivazione e il fine dell’uomo provengono sempre da dove egli pensa che si trovino i veri valori: “Perché dove è il vostro tesoro, lì sarà anche il vostro cuore”. Questa priorità implica che noi siamo distaccati dal denaro e dai beni materiali, e che li utilizziamo per il bene altrui, essendo responsabili davanti a Dio della loro gestione.
Dobbiamo anche tenerci in uno stato di veglia costante, aspettando la venuta di Cristo: “Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese”. Come i servi non sanno quando il loro padrone rientrerà dal ricevimento di nozze, come un uomo non può sapere quando entreranno i ladri nella sua casa, così noi non conosciamo l’ora della nostra morte, quando cioè Cristo tornerà per noi.

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato”
di Maria Valtorta
Capitolo 276

Gesù benedice e si ritira in un folto di bosco con gli apostoli e i discepoli per prendere cibo e ristoro. Ma, mentre mangiano, Egli ancora parla continuando la lezione di prima, ripetendo un tema già detto agli apostoli più volte e che credo sarà sempre insufficientemente detto, perché l’uomo è troppo preso dalle paure stolte.

«Credete», dice, «che solo di questo arricchimento di virtù occorre preoccuparsi. E badate: non sia mai la vostra una preoccupazione affannosa, inquieta. Il bene è nemico delle inquietudini, delle paure, delle frette, che troppo risentono ancora di avarizia, di gelosia, di diffidenza umana.

Il vostro lavoro sia costante, fiducioso, pacifico. Senza brusche partenze e bruschi arresti.

Così fanno gli onagri selvaggi. Ma nessuno li usa, a meno che sia un matto, per fare del sicuro cammino. Pacifici nelle vittorie, pacifici nelle sconfitte. Anche il pianto per un errore fatto, che vi addolora perché con esso errore avete spiaciuto a Dio, deve essere pacifico, confortato dall’umiltà e dalla fiducia.

L’accasciamento, il rancore verso se stesso, è sempre sintomo di superbia e così anche di sfiducia.

Se uno è umile sa di essere un povero uomo soggetto alle miserie della carne che talora trionfa. Se uno è umile ha fiducia non tanto in sé quanto in Dio, e sta calmo anche nelle disfatte dicendo:

“Perdonami, Padre. Io so che Tu sai la mia debolezza che mi prevale talora. Io credo che Tu mi compatisci. Io ho ferma fiducia che Tu mi aiuterai in avvenire ancor più di prima, nonostante io ti soddisfi così poco”.

E non siate né apatici né avari dei beni di Dio. Di quanto avete di sapienza e virtù, date. Siate operosi nello spirito come gli uomini lo sono per le cose della carne.

E, riguardo alla carne, non imitate quelli del mondo, che sempre tremano per il loro domani, per la paura che manchi loro il superfluo, che la malattia venga, che venga la morte, che i nemici possano nuocere e così via. Dio sa di che abbisognate. Non temete perciò per il vostro domani.

Siate liberi dalle paure più pesanti delle catene dei galeotti.

Non vi prendete pena della vostra vita, né per il mangiare, né per il bere, né per il vestire. La vita dello spirito è da più di quella del corpo, e il corpo è da più del vestito, perché col corpo, non col vestito, voi vivete, e con la mortificazione del corpo aiutate lo spirito a conseguire la vita eterna.

Dio sa fino a quando lasciarvi l’anima nel corpo, e fino a quell’ora vi darà ciò che è necessario.

Lo dà ai corvi, animali impuri che si pascono di cadaveri e che hanno la loro ragione di esistere appunto in questa loro funzione di eliminatori di putrefazioni. E non lo darà a voi? Essi non hanno dispense e granai, eppure Dio li nutre lo stesso.

Voi siete uomini e non corvi. Presentemente, poi, siete il fior degli uomini, perché siete i discepoli del Maestro, gli evangelizzatori del mondo, i servi di Dio. E potete pensare che Iddio, che ha cura dei gigli delle convalli e li fa crescere e li veste di veste che più bella non l’ebbe Salomone, senza che loro compiano altro lavoro che profumare, adorando, possa trascurare voi anche nella veste?

Voi sì che da soli non potete aggiungere un dente alle bocche sdentate, né allungare di un pollice la gamba rattrappita, né dare acutezza alla pupilla annebbiata. E, se non potete fare queste cose, potete pensare di poter respingere da voi miseria e malattia e far spuntare cibo dalla polvere? Non potete.

Ma non siate gente di poca Fede. Avrete sempre di che vi è necessario. Non vi affannate come le genti del mondo, che si arrabattano per provvedersi di che godere. Voi avete il Padre vostro che sa di che abbisognate. Voi dovete solo cercare -e sia la prima delle vostre cure- il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato in più.

Non temete, voi del mio piccolo gregge.

Al Padre mio è piaciuto chiamarvi al Regno perché voi abbiate questo Regno.

Potete perciò aspirare ad esso ed aiutare il Padre con la vostra buona volontà e santa operosità.

Vendete i vostri beni, fatene elemosina se siete soli.

Date ai vostri il necessario del vostro abbandono della casa per seguire Me, perché è giusto non levare il pane ai figli e alle spose. E, se non potete perciò sacrificare le ricchezze di denaro, sacrificate le ricchezze di affetto.

Anche queste sono monete che Dio valuta per quello che sono: oro più puro d’ogni altro, perle più preziose di quelle rapite ai mari, e rubini più rari di quelli delle viscere del suolo.

Perché rinunciare alla famiglia per Me è carità perfetta più di oro senza atomo impuro, è perla fatta di pianto, e rubino fatto di sangue che geme dalla ferita del cuore, lacerato dal distacco da padre e madre, sposa e figli.

Ma queste borse non si logorano, questo tesoro non viene mai meno. I ladri non penetrano in Cielo. Il tarlo non corrode ciò che là è depositato.

E abbiate il Cielo nel cuore e il cuore in Cielo presso il vostro tesoro. Perché il cuore, nel buono o nel malvagio, è là dove è ciò che vi sembra vostro caro tesoro. Perciò, come il cuore è là dove è il tesoro (in Cielo), così il tesoro è là dove è il cuore (ossia in voi), anzi il tesoro è nel cuore e col tesoro dei Santi è nel cuore il Cielo dei Santi.

Siate sempre pronti come chi è in procinto di viaggio o in attesa del padrone. Voi siete servi del Padrone-Iddio. Ad ogni ora vi può chiamare dove Egli è, o venire dove voi siete. Siate perciò sempre pronti ad andare, o a fargli onore stando a fianchi cinti da cintura di viaggio e di lavoro, e con le lampade accese nelle mani.

Uscendo da una festa di nozze con uno che vi abbia preceduto nei Cieli e nella consacrazione a Dio sulla Ter­ra, Dio può sovvenirsi di voi che attendete e può dire: “Andiamo da Stefano o da Giovanni, oppure da Giacomo e da Pietro”. E Dio è veloce nel venire o nel dire: “Vieni”. Perciò siate pronti ad aprirgli la porta quando Egli giungerà, o a partire se Egli vi chiama.

Beati quei servi che il Padrone, arrivando, troverà vigilanti.

In verità, per ricompensarvi della attesa fedele, Egli si cingerà la veste e, fattili sedere a tavola, si metterà a servirli. Può venire alla prima vigilia, come alla seconda e alla terza. Voi non lo sapete. Siate perciò sempre vigilanti. E beati voi se lo sarete e così vi troverà il Padrone!

Non vi ingannate col dire: “C’è tempo! Questa notte Egli non viene”. Ve ne accadrebbe male. Voi non sapete.

Se uno sapesse quando il ladro viene, non lascerebbe incustodita la casa perché il malandrino possa sforzarne la porta e i forzieri. Anche voi state preparati, perché, quando meno ve lo penserete, verrà il Figlio dell’Uomo dicendo: “È l’ora”».

Pietro, che si è persino dimenticato di finire il suo cibo per ascoltare il Signore, vedendo che Gesù tace, chiede: «Questo che dici è per noi o per tutti?».

«È per voi e per tutti. Ma più è per voi, perché voi siete come intendenti preposti dal Padrone a capo dei servi e avete doppio dovere di stare pronti, e per voi come intendenti, e per voi come semplici fedeli. Che deve essere l’intendente preposto dal padrone a capo dei suoi familiari per dare a ciascuno, a suo tempo, la giusta porzione? Deve essere accorto e fedele. Per compiere il suo proprio dovere, per far compiere ai sottoposti il loro proprio dovere. Altrimenti ne soffrirebbero gli interessi del padrone, che paga perché l’intendente faccia in sua vece e ne tuteli gli interessi in sua assenza.

Beato quel servo che il padrone, tornando alla sua casa, trova ad operare con fedeltà, solerzia e giustizia. In verità vi dico che lo farà intendente anche di altre proprietà, di tutte le sue proprietà, riposando e giubilando in cuor suo per la sicurezza che quel servo gli dà.

Ma se quel servo dice: “Oh! bene! Il padrone è molto lontano e mi ha scritto che tarderà a tornare. Perciò io posso fare ciò che mi pare e poi, quando penserò prossimo il ritorno, provvederò”. E comincerà a mangiare e a bere fino ad essere ubriaco e a dare ordini da ebbro e, poiché i servi buoni, a lui sottoposti, si rifiutano di eseguirli per non danneggiare il padrone, si dà a battere servi e serve fino a farli cadere in malattia e languore. E crede di essere felice, e dice: “Finalmente gusto ciò che è esser padrone e temuto da tutti”.

Ma che gli avverrà?

Gli avverrà che il padrone giungerà quando meno egli se lo aspetta, magari sorprendendolo nell’atto di intascare denaro o di corrompere qualche servo fra i più deboli. Allora, Io ve lo dico, il padrone lo caccerà dal posto di intendente, e persino dalle file dei suoi servi, perché non è lecito tenere gli infedeli e traditori in mezzo agli onesti.

E tanto più sarà punito quanto più il padrone prima lo aveva amato e istruito. Perché chi più conosce la volontà e il pensiero del padrone più è tenuto a compierlo con esattezza.

Se non fa così come il padrone ha detto, ampiamente, come a nessun altro, avrà molte percosse, mentre chi, come servo minore, ben poco sa e sbaglia credendo di far bene, avrà castigo minore.

A chi molto fu dato molto sarà chiesto, e dovrà rendere molto chi molto ebbe in custodia, perché sarà chiesto conto ai miei intendenti anche dell’anima del pargolo di un’ora.

La mia elezione non è fresco riposo in un boschetto fiorito. Io sono venuto a portare fuoco sulla Terra; e che posso desiderare se non che si accenda? Perciò mi affatico e voglio vi affatichiate fino alla morte e finché la Terra sia tutta un rogo di fuoco celeste. Io devo essere battezzato con un battesimo. E come sarò angustiato finché non sarà compiuto! Non vi chiedete perché? Perché per esso potrò di voi fare dei portatori del Fuoco, degli agitatori che si muoveranno in tutti e contro tutti gli strati sociali, per farne un’unica cosa: il gregge di Cristo.

Credete voi che Io sia venuto a metter pace sulla Terra? E secondo il modo di vedere della Terra? No. Ma anzi discordia e separazione.

Perché d’ora innanzi, e fintanto che tutta la Terra non sarà un unico gregge, di cinque che sono in una casa due saranno contro tre, e sarà il padre contro il figlio, e questo contro il padre, e la madre contro le figlie, e queste contro quella, e le suocere e nuore avranno un motivo di più per non intendersi, perché un linguaggio nuovo sarà su certe labbra e accadrà come una Babele, perché un sommovimento profondo scuoterà il regno degli affetti umani e soprumani.

Ma poi verrà l’ora in cui tutto si unificherà in una lingua nuova, parlata da tutti i salvati dal Nazareno, e si depureranno le acque dei sentimenti, andando sul fondo le scorie e brillando alla superficie le limpide onde dei laghi celesti.

In verità che non è riposo il servirmi, secondo quanto dà, l’uomo, di significato a questa parola. Occorre eroismo e instancabilità. Ma Io ve lo dico: alla fine sarà Gesù, sempre e ancora Gesù, che si cingerà la veste per servirvi, e poi si siederà con voi ad un banchetto eterno e sarà dimenticata fatica e dolore.

Ora, posto che nessuno più ci ha cercato, andiamo al lago. Riposeremo in Magdala. Nei giardini di Maria di Lazzaro c’è posto per tutti, ed ella ha messo la sua casa a disposizione del Pellegrino e dei suoi amici.

Non occorre che vi dica che Maria di Magdala è morta col suo peccato ed è rinata dal suo pentimento Maria di Lazzaro, discepola di Gesù di Nazaret. Voi lo sapete già, perché la notizia è corsa come fremito di vento in una foresta.

Ma Io vi dico ciò che non sapete: che tutti i beni personali di Maria di Lazzaro sono per i servi di Dio e per i poveri di Cristo. Andiamo…».

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

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