V DOMENICA DI QUARESIMA ANNO A (Gv 11,1-45) 29 Marzo 2020

Gv 11,1-45

GESU’

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Giovanni. (Gv 11,1-45)
In quel tempo, un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato».
All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?». Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui».
Disse queste cose e poi soggiunse loro: «Lazzaro, il nostro amico, s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo». Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se si è addormentato, si salverà». Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!». Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!».
Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».
Dette queste parole, andò a chiamare Maria, sua sorella, e di nascosto le disse: «Il Maestro è qui e ti chiama». Udito questo, ella si alzò subito e andò da lui. Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro.
Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?».
Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberàtelo e lasciàtelo andare».
Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui. Parola del Signore.

Forma breve:

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Giovanni. (Gv 11, 3-7.17.20-27.33b-45)
In quel tempo, le sorelle di Lazzaro mandarono a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato». All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!».
Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Marta, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».
Gesù si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?».
Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberàtelo e lasciàtelo andare».
Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui. Parola del Signore.

RIFLESSIONI

Il racconto della risurrezione di Lazzaro è una delle “storie di segni” che racconta san Giovanni. Si tratta qui di presentare Gesù, vincitore della morte. Il racconto culmina nella frase di Gesù su se stesso: “Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me non morrà in eterno” (vv. 25-26).
Che Dio abbia il potere di vincere la morte, è già la convinzione dei racconti tardivi dell’Antico Testamento. La visione che ha Ezechiele della risurrezione delle ossa secche – immagine del ristabilimento di Israele dopo la catastrofe dell’esilio babilonese – presuppone questa fede (Ez 37,1-14). Nella sua “Apocalisse”, Isaia si aspetta che Dio sopprima la morte per sempre, che asciughi le lacrime su tutti i volti (Is 25,8). E, per concludere, il libro di Daniele prevede che i morti si risveglino – alcuni per la vita eterna, altri per l’orrore eterno (Dn 12,2). Ma il nostro Vangelo va oltre questa speranza futura, perché vede già date in Gesù “la risurrezione e la vita” che sono così attuali. Colui che crede in Gesù ha già una parte di questi doni della fine dei tempi. Egli possiede una “vita senza fine” che la morte fisica non può distruggere. In Gesù, rivelazione di Dio, la salvezza è presente, e colui che è associato a lui non può più essere consegnato alle potenze della morte.

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta. Capitolo 548  

Gesù viene verso Betania da Ensemes. Devono aver fatto una marcia veramente faticosa su per i sentieri rompicollo dei monti Adomin. Gli apostoli, sfiatati, stentano a seguire Gesù che va rapidamente, come l’amore lo portasse sulle sue ali di fuoco. Gesù ha un sorriso radioso mentre procede avanti a tutti, a testa alta sotto i raggi tiepidi del sole meridiano.

Prima che giungano alle prime case di Betania, li vede un ragazzetto scalzo che va verso la fonte presso il paese con una brocca di rame vuota. Dà un grido. Posa la brocca in terra e via di corsa, con tutta la velocità  delle sue gambette, verso l’interno del paese.

«Certo va ad avvisare che Tu giungi», osserva Giuda Taddeo dopo aver sorriso come tutti della risoluzione… energica del ragazzino, che ha abbandonato anche la sua brocca alla mercé del primo che passa.

La cittadina, vista così da presso la fonte, che è un poco più in alto del paese, appare quieta, come deserta. Solo il fumo bigio che si alza dai camini indica che nelle case sono le donne intente a preparare il pasto meridiano, e qualche grossa voce di uomo fra gli ulivi e i frutteti vasti e silenziosi avverte che gli uomini sono al lavoro. Ciononostante, Gesù preferisce prendere una viottola che passa alle spalle del paese per poter giungere da Lazzaro senza attirare l’attenzione dei cittadini.

Sono quasi a mezzo tragitto quando si sentono alle spalle il ragazzetto di prima, che li sorpassa correndo e poi si punta in mezzo alla via a guardare Gesù, pensieroso…

«La pace a te, piccolo Marco. Hai avuto paura di Me che sei fuggito?», chiede Gesù carezzandolo.

«Io no, Signore, che non ho avuto paura. Ma siccome per molti giorni Marta e Maria hanno mandato servi sulle strade che vengono qui a vedere se venivi, ora che ti ho visto sono corso per dire che venivi…».

«Hai fatto bene. Le sorelle si prepareranno il cuore a vedermi».

«No, Signore. Le sorelle non si prepareranno nulla perché non sanno nulla. Non hanno voluto che lo dicessi. Mi hanno preso quando ho detto, entrando nel giardino: “C’è il Rabbi”, e mi hanno cacciato fuori dicendo: “Sei un bugiardo o uno stolto. Egli ormai non viene più perché ormai è certo che non può più fare il miracolo”. E perché io dicevo che eri proprio Tu, mi hanno dato due schiaffoni come ancora non ne avevo presi mai… Guarda qui che guance rosse. Mi bruciano! E mi hanno spinto via dicendo: “Questo per purificarti di aver guardato un demonio”. E io ti guardavo per vedere se eri diventato un demonio. Ma non lo  vedo… Sei sempre il mio Gesù, bello come gli Angeli che la mamma mi dice».

Gesù si china a baciarlo sulle gotine schiaffeggiate dicendo: «Così ti passa il pizzicore. Ne ho dolore che per Me tu abbia sofferto…».

«Io no, Signore, perché quegli schiaffi mi hanno fatto dare due baci da Te», e gli si attacca alle gambe sperandone altri.

«Dì un po’, Marco. Chi è che ti ha cacciato? Quei di Lazzaro?», chiede il Taddeo.

«No. I giudei. Vengono per il cordoglio tutti i giorni. Sono tanti! Sono in casa e nel giardino. Vengono presto, vanno via tardi. Sembrano i padroni loro. Maltrattano tutti. Vedi che non c’è nessuno per le vie? I primi giorni si stava a vedere… ma poi… Ora solo noi bambini si gira per… Oh! la mia brocca! La mamma che aspetta l’acqua… Ora mi picchierà anche lei!…».

Sorridono tutti della sua desolazione davanti alla prospettiva di altri schiaffi, e Gesù dice: «Vai allora svelto…».

«È che… volevo entrare con Te e vederti fare il miracolo…», e termina: «…e vedere le loro facce… per vendicarmi degli schiaffi…».

«Questo no. Non devi desiderare vendetta. Essere buono e perdonare devi… Ma la mamma aspetta l’acqua…».

«Vado io, Maestro. So dove sta Marco. Spiegherò alla donna e ti raggiungerò…», dice Giacomo di Zebedeo correndo via.

Si rimettono in cammino lentamente e Gesù tiene per mano il bambino gongolante…

Eccoli alla cancellata del giardino. La costeggiano. Molte cavalcature stanno legate ad essa, sorvegliate dai servi dei singoli proprietari. Il bisbiglio che si leva da essi attira l’attenzione di qualche giudeo, che si volge verso il cancello aperto proprio nel momento che Gesù pone piede sul limitare del giardino.

«Il Maestro!», dicono i primi che lo vedono, e questa parola scorre come un fruscio di vento da gruppo a gruppo, si propaga, va come un’onda, venuta da lontano a spezzarsi sulla riva, sin contro i muri della casa e vi penetra, certo portata dai molti giudei presenti, o da qualche fariseo, rabbi o scriba o sadduceo, sparsi qua e là.

Gesù si inoltra molto lentamente mentre tutti, pur accorrendo da ogni parte, si scansano dal viale sul quale Egli cammina. E dato che nessuno Lo saluta, Egli non saluta nessuno, come neppure conoscesse molti dei lì radunati a guardarlo con l’ira e l’odio negli sguardi, meno i pochi che, essendogli discepoli occulti, o per lo meno essendo di retto cuore anche se non Lo amano come Messia, Lo rispettano come un giusto.

E questi sono Giuseppe, Nicodemo, Giovanni, Eleazaro, l’altro Giovanni scriba, visto per la moltiplicazione dei pani, e l’altro Giovanni ancora, che sfamò i discesi dal monte delle beatitudini, Gamaliele col figlio suo, Giosuè, Gioacchino, Mannaen, lo scriba Gioele di Abia, incontrato al Giordano nell’episodio di Sabea, Giuseppe Barnaba discepolo di Gamaliele, Cusa che guarda Gesù da lontano, un poco intimidito di rivederlo dopo lo sbaglio fatto, o forse preso dal rispetto umano che lo trattiene dal farsi avanti come amico.

Certo è che né gli amici, o osservatori senz’astio, né i nemici salutano. E Gesù non saluta.

Si è limitato a un generico inchino mettendo piede sul viale. Poi ha proceduto diritto, come estraneo alla molta folla che ha d’intorno. Il ragazzetto gli cammina sempre al fianco nelle sue vesti di contadinello e coi piedini scalzi di bimbo povero, ma col viso luminoso di chi è in festa, gli occhietti neri, vispi, ben aperti a tutto vedere… e a sfidare tutti…

Marta esce dalla casa fra un gruppo di giudei visitatori, fra i quali sono mescolati Elchia e Sadoc. Si fa solecchio con la mano per aiutare gli occhi stanchi di pianto, ai quali è penosa la luce, a vedere dove è Gesù. Lo vede. Si stacca da chi l’accompagna e corre verso Gesù, che è a pochi passi dalla vasca che brilla di bagliori, colpita come è dal sole. Si getta ai piedi di Gesù dopo il primo inchino e glieli bacia, mentre dice fra un grande scoppio di pianto: «La pace a Te, Maestro!».

Anche Gesù le ha detto, non appena l’ha vista vicina: «La pace a te!», ed ha alzato la mano a benedire lasciando andare quella del bambino, che viene preso per mano da Bartolomeo e tirato un poco indietro.

Marta prosegue: «Ma pace per la tua serva non c’è più».

Alza il viso verso Gesù stando ancora in ginocchio e con un grido di dolore, che si sente bene nel silenzio che so è fatto, esclama:

«Lazzaro è morto! Se Tu fossi stato qui, egli non sarebbe morto. Perché non sei venuto prima, Maestro!».

Ha un involontario tono di rimprovero nel fare questa domanda. Poi torna al tono accasciato di chi non ha più la forza per rimproverare e ha l’unico conforto del poter ricordare gli ultimi atti e desideri di un parente, al quale si è cercato di dare ciò che desiderava, e non c’è rimorso perciò nel cuore:

«Ti ha tanto chiamato, Lazzaro, il fratello nostro!… Ora vedi! Io sono dolente e Maria piange e non sa darsi pace. Ed egli non è più qui. Tu sai se lo amavamo! Speravamo tutto da Te!…».

Un mormorio di compassione per la donna e di rimprovero per Gesù, un assentire al sottinteso pensiero: «e potevi esaudirci, perché noi lo meritavamo per l’amore che abbiamo per Te, e Tu invece ci hai delusi», scorre da gruppo a gruppo fra scuotii di teste o sguardi derisori.

Solo i pochi occulti discepoli sparsi fra la folla presente hanno sguardi di compassione per Gesù che ascolta, molto pallido e mesto, la dolente che gli parla. Gamaliele, le braccia conserte al petto nella sua ampia e ricca veste di lana finissima ornata di fiocchi azzurri, un poco in disparte fra un gruppo di giovani in cui è suo figlio e Giuseppe Barnaba, guarda fissamente Gesù, senza odio e senza amore.

Marta, dopo essersi asciugata il volto, riprende a parlare:

«Ma anche ora io spero, perché so che qualunque cosa Tu chiederai al Padre ti sarà concessa».

Una dolorosa, eroica professione di Fede, detta con la voce che trema di pianto, con l’ansia che trema nello sguardo, con l’ultima speranza che trema nel cuore.

«Tuo fratello risorgerà. Alzati, Marta».

Marta si alza, rimanendo curva in venerazione davanti a Gesù al quale risponde:

«Lo so, Maestro. Egli risorgerà all’ultimo giorno».

«Io sono la Risurrezione e la Vita. Chiunque crede in Me, anche se morto, vivrà. E chi crede in Me non morrà in eterno. Credi tu tutto questo?».

Gesù, che prima aveva parlato con voce piuttosto bassa, unicamente a Marta, per dire queste frasi in cui proclama la sua potenza di Dio alza la voce, e il perfetto timbro di essa echeggia come uno squillo d’oro nel vasto giardino. Un fremito quasi di spavento scuote gli astanti. Ma poi alcuni ghignano scuotendo il capo.

Marta, alla quale Gesù pare volere trasfondere speranza sempre più forte tenendole la mano appoggiata sulla spalla, alza il viso che teneva curvo. Lo alza verso Gesù fissando i suoi occhi addolorati nelle luminose pupille di Cristo e, stringendo le mani sul petto con un’ansia diversa, risponde:

«Si, Signore. Io credo questo. Credo che Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivo, venuto nel mondo. E che puoi tutto ciò che vuoi. Credo. Ora vado ad avvertire Maria», e va via lesta scomparendo nella casa.

Gesù resta dove è. Ossia, fa qualche passo avanti e si accosta all’aiuola che circonda la vasca, aiuola tutta imbrillantata, da quel lato, dal pulviscolo  acque dello zampillio, che un lieve vento fa inclinare, come fosse un piumetto d’argento, verso quel lato; e pare perdersi, Gesù, nel contemplare i guizzi dei pesci sotto il velo dell’acqua limpida, i loro giuochi che mettono virgole d’argento e riflessi d’oro nel cristallo delle acque percosse dal sole.

I giudei Lo osservano. Si sono involontariamente separati in gruppi ben distinti.

Da un lato, di fronte a Gesù, tutti quelli che gli sono nemici, divisi solitamente fra loro per spirito settario, ora concordi per osteggiare Gesù.

Al suo fianco, dietro gli apostoli, ai quali si è riunito Giacomo di Zebedeo, Giuseppe, Nicodemo e gli altri di spirito benevolo. Più là, Gamaliele, sempre al suo posto e nella stessa posa, e solo, perché il figlio e i discepoli si sono separati da lui dividendosi fra i due gruppi principali per essere più vicini a Gesù.

Col suo grido abituale: «Rabboni!», Maria esce dalla casa correndo a braccia tese verso Gesù e gettandoglisi ai piedi, che bacia singhiozzando forte. Diversi giudei, che erano in casa con lei e che l’hanno seguita, uniscono i loro pianti, di dubbia sincerità, a quelli di lei. Anche Massimino, Marcella, Sara, Noemi hanno seguito Maria e così tutti i servi, e i lamenti sono forti e alti. Io credo che nella casa non sia rimasto nessuno. Marta, vedendo piangere così Maria, piange forte lei pure.

«La pace a te, Maria. Alzati! Guardami! Perché questo pianto simile a quello di chi non ha speranza?».

Gesù si curva per dire piano queste parole, gli occhi negli occhi di Maria, che stando in ginocchio, rilassata sui calcagni, tende a Lui le mani in gesto di invocazione e non può parlare tanto è il suo singhiozzare.

«Non ti ho detto di sperare oltre il credibile per vedere la gloria di Dio? È forse mutato il tuo Maestro per avere ragione di angosciarsi così?».

Ma Maria non raccoglie le parole, che la vogliono già preparare alla gioia troppo forte dopo tanta angoscia, e grida, finalmente padrona della sua voce:

«Oh! Signore! Perché non sei venuto prima? Perché ti sei tanto allontanato da noi? Lo sapevi che Lazzaro era malato! Se Tu fossi stato qui, non sarebbe morto il fratello mio. Perché non sei venuto? Io dovevo mostrargli ancora che lo amavo. Egli doveva vivere. Io dovevo mostrargli che perseveravo nel bene. Tanto l’ho angustiato il fratello mio!

E ora! Ora che potevo farlo felice, mi è stato tolto! Tu me lo potevi lasciare. Dare alla povera Maria la gioia di consolarlo dopo avergli dato tanto dolore. Oh! Gesù! Gesù! Maestro mio! Mio Salvatore! Speranza mia!», e si ribatte, la fronte sui piedi di Gesù, che vengono di nuovo lavati dal pianto di Maria, e geme:

«Perché hai fatto questo, o Signore?! Anche per quei che ti odiano e che godono di quanto avviene… Perché hai fatto questo, Gesù?!».

Ma non è rimprovero nel tono di Maria come lo ha avuto Marta, ma ha solo l’angoscia di chi, oltre il suo dolore di sorella, ha anche quello di discepola che sente sminuito nel cuore di molti il concetto sul suo Maestro.

Gesù, molto curvo per raccogliere queste parole mormorate con la faccia al suolo, si rialza e dice forte:

«Maria, non piangere! Anche il tuo Maestro soffre per la morte dell’amico fedele… per averlo dovuto lasciar morire…».

Oh! che sogghigno e che sguardi di livido giubilo sono sui volti dei nemici di Cristo! Lo sentono vinto e gioiscono, mentre gli amici si fanno sempre più tristi.

Gesù dice ancor più forte: «Ma Io ti dico: non piangere. Alzati! Guardami! Credi tu che Io, che ti ho tanto amata, abbia fatto questo senza motivo? Puoi credere che Io ti abbia dato questo dolore inutilmente? Vieni. Andiamo da Lazzaro. Dove lo avete posto?».

Gesù, più che a Maria e Marta, che non parlano, prese come sono da un pianto più forte, interroga tutti gli altri, specie quelli che, usciti di casa con Maria, sembrano i più turbati. Forse sono parenti più anziani, non so.

E questi rispondono a Gesù, visibilmente afflitto: «Vieni e vedi», e si avviano verso il luogo del sepolcro che è ai termini del frutteto, là dove il suolo ha delle ondulazioni e delle vene di roccia calcarea che affiorano dal suolo.

Marta, al fianco di Gesù che ha forzato Maria ad alzarsi e che la guida, perché essa è accecata dal gran pianto, indica con la mano a Gesù dove è Lazzaro, e quando sono presso al luogo dice anche: «È lì, Maestro, che il tuo amico è sepolto», e accenna alla pietra posta obliquamente sulla bocca del sepolcro.

«Levate quella pietra», grida Gesù ad un tratto, dopo aver asciugato il suo pianto.

Tutti hanno un movimento di stupore, e un mormorio scorre per l’assembramento, che si è aumentato di alcuni betaniti che sono entrati nel giardino e si sono accodati agli ospiti. Vedo alcuni farisei che si toccano la fronte scuotendo il capo come per dire: «È pazzo!».

Nessuno eseguisce l’ordine. Anche nei più fedeli vi è della titubanza, della ripulsione a farlo. Gesù ripete più forte il suo ordine, facendo sbigottire più ancora la gente che, presa da due sentimenti opposti, ha un movimento come per fuggire e, subito dopo, uno di accostarsi di più per vedere, sfidando il prossimo fetore del sepolcro che Gesù vuole aperto.

«Maestro, non è possibile», dice Marta sforzandosi di trattenere il pianto per parlare.

«Già da quattro giorni è la sotto. E Tu sai di che male è morto! Solo il nostro amore lo poteva curare… Ora certo egli puzza già fortemente nonostante gli unguenti… Che vuoi vedere? La sua putredine?… Non si può… anche per l’impurità della corruzione e…».

«Non ti ho detto che se crederai vedrai la gloria di Dio? Levate quella pietra. Lo voglio!». È un grido di volere divino…

Un «oh!» sommesso esce da tutti i petti. I volti sbiadiscono. Qualcuno trema come se fosse passato su tutti un vento gelido di morte.

Marta fa un cenno a Massimino, e questo ordina ai servi di prendere gli arnesi atti a smuovere la pietra pesante.

I servi vanno via lesti per tornare con picconi e leve robuste. E lavorano, insinuando le punte dei picconi lucenti fra la roccia e la pietra, e poscia sostituendo i picconi con le leve robuste, infine sollevando attenti la pietra facendola scivolare da un lato e strascicandola poi cautamente contro la parete rocciosa. Un fetore ammorbante esce dal cunicolo oscuro, facendo arretrare tutti.

Marta chiede sottovoce: «Maestro, vuoi scendere là? Se sì, occorrono torce…». Ma è livida al pensiero di doverlo fare.

Gesù non le risponde. Alza gli occhi al cielo, apre le braccia a croce e prega con voce fortissima, scandendo le parole:

«Padre! Io ti ringrazio di avermi esaudito. Lo sapevo che Tu mi esaudisci sempre. Ma l’ho detto per questi che sono qui presenti, per il popolo che mi circonda, perché credano in Te, in Me, e che Tu mi hai mandato!».

Resta ancora così qualche momento, e pare rapito in una estasi tanto è trasfigurato, mentre senza più suono dice altre segrete parole di preghiera o di adorazione. Non so. Quello che so è che è così trasumanato che non lo si può guardare senza sentirsi tremare il cuore in petto.

Sembra farsi, da corpo, luce, spiritualizzarsi, alzarsi di statura e anche da terra. Pur conservando i suoi colori di capelli, occhi, pelle, vesti, non come durante la trasfigurazione del Tabor, durante la quale tutto divenne luce e candore abbagliante, pare emanare luce e tutto di Lui divenire luce. La luce pare fargli un alone intorno, specie intorno al volto levato al cielo, rapito in contemplazione certo del Padre.

Sta così qualche tempo, poi torna Lui, l’Uomo, ma di una maestà potente.

Si avanza sino alla soglia del sepolcro. Sposta le braccia -che sino a quel momento aveva tenuto aperte a croce, a palme volte al cielo- in avanti, a palme verso terra, e le mani sono perciò già dentro al cunicolo del sepolcro e biancheggiano nella nerezza che colma il cunicolo.

Egli sprofonda il fuoco azzurro dei suoi occhi, il cui bagliore di miracolo è oggi insostenibile, in quella nerezza muta, e con voce potente, con un grido più forte di quando sul lago comandò al vento di cadere, con una voce quale in nessun miracolo gli ho sentito, grida:

«Lazzaro! Vieni fuori!».

La voce si ripercuote per eco nel cavo sepolcrale e si spande uscendone poi per tutto il giardino, si ripercuote contro i dislivelli delle ondulazioni di Betania, io credo che vada sino alle prime balze collinose oltre i campi e di là torni, ripetuta e sommessa, come comando che non può cadere. Certo è che da infinite parti si riode: «fuori! fuori! fuori!».

Tutti hanno un più intenso brivido e, se la curiosità inchioda tutti ai loro posti, i volti sbiancano e gli occhi si spalancano, mentre le bocche si socchiudono involontariamente, con l’urlo dello stupore già nella strozza.

Marta, un poco indietro e di fianco, è come affascinata a guardare Gesù. Maria cade in ginocchio, lei che non si è mai scostata dal suo Maestro, cade in ginocchio sul limitare del sepolcro, una mano sul petto a frenare i palpiti del cuore, l’altra che inconsciamente e convulsamente tiene un lembo del mantello di Gesù, e si capisce che trema perché il mantello ha lievi scosse impresse dalla mano che lo tiene.

Un che di bianco pare emergere dal fondo profondo del cunicolo. Prima è appena una piccola linea convessa, poi si muta in un che di ovale, poi all’ovale si sottopongono linee più ampie, più lunghe, sempre più lunghe. E il già morto, stretto nelle sue fasce, viene avanti lentamente, sempre più visibile, fantomatico impressionante.

Gesù arretra, arretra, insensibilmente ma continuamente, più quello avanza. La distanza fra i due è perciò sempre uguale.

Maria è costretta a lasciare il lembo del manto, ma non si muove da dove è. La gioia, l’emozione, tutto, l’inchiodano al posto dove era.

Un «oh!» sempre più netto esce dalle gole chiuse prima da uno spasimo di attesa, da sussurro appena distinto si muta in voce, da voce in un grido potente.

Lazzaro è ormai sul limitare e si ferma là rigido, muto, simile ad una statua di gesso appena sbozzata, perciò informe, una lunga cosa, sottile nel corpo, sottile nelle gambe, più larga nel tronco, macabra come la morte stessa, spettrale nel biancore delle fasce contro lo sfondo scuro del sepolcro. Al sole che lo investe, le fasce appaiono qua e là già colanti putredine.

Gesù grida forte: «Scioglietelo e lasciatelo andare. Dategli vesti e cibo».

«Maestro!…», dice Marta e vorrebbe forse dire di più, ma Gesù la guarda fisso, soggiogandola col suo fulgido sguardo, e dice:

«Qui! Subito! Portate una veste. Vestitelo alla presenza di tutti e dategli da mangiare».

Ordina, e non si volge mai a guardare chi ha alle spalle e intorno. Il suo occhio guarda soltanto Lazzaro, Maria che è vicina al risorto, incurante del ribrezzo che danno a tutti le bende marciose, e Marta che ansima come le scoppiasse il cuore e non sa se gridare la sua gioia o se piangere…

I servi si affrettano ad eseguire. Noemi corre via per prima, e per prima torna con le vesti che tiene a cavalcioni del braccio. Alcuni slegano i lacci delle fasce dopo essersi rimboccate le maniche e cinte le vesti perché non tocchino la putredine colante. Marcella e Sara tornano con anfore di odori, seguite da servi, chi con catini e brocche fumanti d’acque calde e chi con vassoi, tazze colme di latte, e vino, frutta, focacce coperte di miele.

Le bende basse e lunghissime, di lino, mi pare, con le cimose ai due lati, certo tessute per quell’uso, si srotolano come rotoli di fettucce da una grande bobina e si accumulano al suolo, pesanti di aromi e di marciume. I servi le scansano usando dei bastoni. Hanno iniziato dal capo, eppure anche là è marciume, certo scolato dal naso, dalle orecchie, dalla bocca.

Il sudario messo sul volto è tutto zuppo di questi scoli e il volto di Lazzaro, che appare pallidissimo, scheletrito, con gli occhi tenuti chiusi dalle manteche messe nelle orbite, coi capelli appiccicati e così pure la barbetta rada sul mento, ne è bruttato.

Cade lentamente il lenzuolo, la sindone messa intorno al corpo, man mano che le bende scendono, scendono, scendono, liberando il tronco che avevano costretto per dei giorni e rendendo forma umana a ciò che prima avevano reso simile ad una grande crisalide. Le spalle ossute, le braccia scheletrite, le coste appena coperte di pelle, il ventre infossato appaiono lentamente. E man mano che le bende cadono, le sorelle, Massimino, i servi, si affannano a levare il primo strato di sudiciume e di balsami, e insistono sinché con acque sempre mutate e rese detergenti dagli aromi aggiunti alle acque, la pelle non appare netta.

Lazzaro, quando gli liberano il volto e può guardare, dirige il suo sguardo a Gesù prima ancora che alle sorelle, e si smemora e astrae da tutto ciò che avviene nel guardare, con un sorriso d’amore sulle labbra pallide e un luccichio di pianto nelle occhiaie fonde, il suo Gesù.

Anche Gesù gli sorride ed ha una lucentezza di pianto nell’angolo dell’occhio, ma senza parlare dirige lo sguardo di Lazzaro al cielo, e Lazzaro comprende e muove le labbra in una silenziosa preghiera.

Marta crede che voglia dire qualcosa e ancor non abbia voce e chiede: «Che mi dici, Lazzaro mio?».

«Nulla, Marta. Ringraziavo l’Altissimo». La pronuncia è sicura, forte la voce. La gente ha un nuovo «oh!» di stupore.

Ormai lo hanno liberato sino ai fianchi, liberato e pulito. E possono rivestirlo della tunica corta, una specie di camiciola che supera l’inguine ricadendo sulle cosce.

Lo fanno sedere per slegargli e lavargli le gambe. Come esse appaiono, Marta e Maria gridano forte accennando alle gambe e le fasce. E, se sulle fasce strette alle gambe e sulla sindone posta sotto le fasce gli scoli putridi sono tanto abbondanti da far rivoli sulle tele, le gambe appaiono cicatrizzate affatto. Solo le cicatrici rosso-cianotiche sono a indicare dove erano le cancrene.

La gente, tutta, grida più forte di stupore; Gesù sorride, e sorride Lazzaro che si guarda per un attimo le gambe guarite, e poi si torna ad astrarre guardando Gesù. Pare che non si possa saziare di vederlo.

I giudei, farisei, sadducei, scribi, rabbi, si fanno avanti, cauti per non contaminarsi le vesti. Guardano ben da vicino Lazzaro. Guardano ben da vicini Gesù. Ma né Lazzaro né Gesù si occupano di loro. Si guardano. E tutto il resto è nulla.

Ecco che vengono messi i sandali a Lazzaro. Egli si alza in piedi, agile, sicuro. Prende la veste che Marta gli porge, da sé se l’infila, si lega la cintura, si aggiusta le pieghe. Eccolo, magro e pallido, ma uguale a tutti. Si lava ancora le mani e le braccia sino al gomito, rimboccandosi le maniche. E poi, con nuova acqua, di nuovo il volto e il capo, sinché non si sente affatto netto. Si asciuga capelli e volto, rende l’asciugatoio al servo e va diritto da Gesù. Si prostra. Gli bacia i piedi.

Gesù si curva, lo rialza, lo stringe al cuore dicendogli:

«Ben tornato, amico mio. La pace sia teco e la gioia. Vivi per compiere la tua felice sorte. Alza il tuo volto, che Io ti dia il bacio di saluto». E lo bacia, ricambiato da Lazzaro, sulle guance.

Soltanto dopo aver venerato e baciato il Maestro, Lazzaro parla alle sorelle e le bacia, e poi bacia Massimino e Noemi che piangono di gioia, e alcuni di quelli che credo siano imparentati con la casa o amici intimissimi. Poi bacia Giuseppe, Nicodemo, Simone Zelote e qualche altro.

Gesù va personalmente da un servo, che ha sulle braccia un vassoio con del cibo, e prende una focaccia con del miele, una mela, una coppa di vino e le offre a Lazzaro, dopo averle offerte e benedette, perché se ne ristori. E Lazzaro mangia col sano appetito di uno che sta bene. Tutti hanno ancora un «oh!» di stupore.

Gesù sembra che non veda che Lazzaro, ma in realtà osserva tutto e tutti, e vedendo che con gesti d’ira Sadoc e Elchia, Canania, Felice, Doras e Cornelio e altri stanno per allontanarsi, dice forte:

«Attendi un momento, o Sadoc. Devo dirti una parola. A te e ai tuoi».

Quelli si fermano con un ceffo da delinquenti. Giuseppe d’Arimatea ha un atto di sgomento e fa cenno allo Zelote di trattenere Gesù.

Ma Egli sta già andando verso il gruppo astioso e già dice forte:

«Ti basta, o Sadoc, quanto hai visto? Mi hai detto un giorno che per credere avevi bisogno, tu e i tuoi uguali, di vedere ricomporsi un morto disfatto in sanità. Sei sazio della puledrine vista? Sei capace di confessare che Lazzaro era morto e che ora è vivo e sano come non era da anni? Lo so.

Voi siete venuti qui a tentare costoro, a mettere in loro maggior dolore e il dubbio. Voi siete venuti qui a cercarmi, sperando trovarmi nascosto nella stanza del morente. Voi siete venuti qui non per sentimento di amore e desiderio di onorare l’estinto, ma per assicurarvi che Lazzaro era realmente morto, e avete continuato a venire giubilando sempre più, più il tempo passava.

Se le cose fossero andate come speravate, come ormai credevate che andassero, avreste avuto ragione di giubilare. L’Amico che guarisce tutti, ma non guarisce l’amico. Il Maestro che premia tutte le fedi, ma non quelle dei suoi amici di Betania. Il Messia impotente davanti alla realtà di una morte. Questo era ciò che vi dava ragione di giubilare. Ma ecco. Dio vi ha risposto.

Nessun profeta ha mai potuto riunire ciò che era sfatto, oltre che morto. Dio lo ha fatto. Ecco là la testimonianza viva di ciò che Io sono.

Un giorno fu che Dio prese del fango e ne fece una forma e vi alitò lo spirito vitale e l’uomo fu. Io ero a dire: “Si faccia l’uomo a nostra immagine e somiglianza”. Perché Io sono il Verbo del Padre. Oggi, Io, Verbo, ho detto a ciò che è ancor meno del fango, alla corruzione: “Vivi”, e la corruzione si è tornata a comporre in carne, e in carne integra, viva, palpitante. Eccola là che vi guarda. E alla carne ho ricongiunto lo spirito giacente da giorni nel seno d’Abramo. L’ho richiamato col mio volere perché tutto Io posso, Io il Vivente, Io il Re dei re cui sono soggette tutte le creature e le cose. Or che mi rispondete?».

È davanti a loro, alto, sfolgorante di maestà, veramente Giudice e Dio. Essi non rispondono.

Egli incalza: «Non vi basta ancora per credere, per accettare l’ineluttabile?».

«Non hai mantenuto che una parte della promessa. Questo non è il segno di Giona…», dice aspro Sadoc.

«Avrete anche quello. L’ho promesso e lo mantengo», dice il Signore. «E un altro qui presente, che attende un altro segno, lo avrà. E poiché è un giusto, lo accetterà. Voi no. Voi rimarrete ciò che siete».

Fa un mezzo giro su Se stesso e vede Simone il sinedrista figlio di Elianna. Lo fissa. Lo fissa. Lascia in asso quelli di prima e, giunto viso a viso con lui, gli dice, a voce bassa ma incisiva: «Buon per te che Lazzaro non ricordi il suo soggiorno fra i morti! Che ne hai fatto di tuo padre, o Caino?».

Simone fugge con un grido di paura, che poi si muta in un urlo di maledizione:

«Che Tu sia maledetto, o Nazareno!», al che Gesù risponde:

«La tua maledizione sale al Cielo e dal Cielo l’Altissimo te la riscaglia. Sei segnato del marchio, o sciagurato!».

Torna indietro fra i gruppi stupiti, spaventati quasi. Incontra Gamaliele che si dirige verso la via. Lo guarda, e Gamaliele guarda Lui. Gesù gli dice senza fermarsi: «Stai pronto, o rabbi. Il segno presto verrà. Non mento mai».

Il giardino si svuota lentamente. I giudei sono sbalorditi, ma i più sprizzano ira da ogni poro. Se gli sguardi potessero incenerire, Gesù sarebbe da molto polverizzato.

Parlano, discutono fra loro, andandosene, così ormai sconvolti dalla sconfitta avuta da non saper più celare sotto una ipocrita apparenza di amicizia lo scopo della loro presenza qui. Se ne vanno senza salutare né Lazzaro né le sorelle.

Restano indietro alcuni che sono conquistati al Signore dal miracolo. Fra questi è Giuseppe Barnaba, che si getta in ginocchio davanti a Gesù e Lo adora. Un altro è lo scriba Gioele di Abia, che fa la stessa cosa prima di partire a sua volta. E altri ancora che non conosco, ma che devono essere influenti.

Lazzaro intanto, circondato dai suoi più intimi, si è ritirato in casa. Giuseppe, Nicodemo e gli altri buoni salutano Gesù e se ne vanno. Partono, con profondi saluti, i giudei che stavano presso Marta e Maria. I servi chiudono il cancello. La casa torna in pace.

Gesù si guarda intorno. Vede fumare e rosseggiare in fondo al giardino, là verso il sepolcro. Gesù, solo, ritto in mezzo ad un sentiero, dice:

«La putredine che viene annullata dal fuoco… La putredine della morte… Ma quella dei cuori… di quei cuori nessun fuoco l’annullerà… Neppure il fuoco dell’inferno. Sarà eterna… Che orrore!… Più della morte… Più della corruzione… E… Ma chi ti salverà, o Umanità, se tanto ami essere corrotta? Vuoi essere corrotta. E Io… Io ho strappato al sepolcro un uomo con una parola… E con un mare di parole… e uno di dolori non potrò strappare al peccato l’uomo, gli uomini, milioni di uomini».

Si siede e si copre il volto con le mani, accasciato…

Lo vede un servo che passa. Va in casa. Dopo poco esce di casa Maria. Va da Gesù, leggera come non toccasse il suolo. L’avvicina, dice piano:

«Rabboni, sei stanco… Vieni, o mio Signore. I tuoi apostoli stanchi sono andati nell’altra casa, tutti meno Simone lo Zelote… Piangi, Maestro? Perché?».

Si inginocchia ai piedi di Gesù… l’osserva… Gesù la guarda. Non risponde. Si alza e si dirige verso la casa, seguito da Maria.

Entrano in una sala. Lazzaro non c’è, e non c’è lo Zelote. Ma Marta c’è, felice, trasfigurata di gioia. Si volge a Gesù spiegando: «Lazzaro è andato al bagno. Per purificarsi ancora. Oh! Maestro! Maestro! Che dirti?». Lo adora con tutta se stessa. Nota la tristezza di Gesù e dice:

«Sei triste, Signore? Non sei felice che Lazzaro…». Le viene un sospetto: «Oh! Tu sei serio con me. Ho peccato. È vero».

«Abbiamo peccato, sorella», dice Maria.

«No. Tu no. Oh! Maestro, Maria non ha peccato. Maria ha saputo ubbidire. Io sola ho disubbidito. Io ti ho mandato a chiamare perché… perché non potevo più sentire che essi insinuassero che Tu non eri il Messia, il Signore… e non potevo più vedere soffrire… Lazzaro ti voleva tanto. Ti chiamava tanto… Perdonami, Gesù».

«E tu non parli, Maria?», interroga Gesù.

«Maestro… io… Io non ho sofferto allora altro che come donna. Soffrivo perché… Marta, giura, giura qui, davanti al Maestro, che mai, mai dirai a Lazzaro il suo delirio… Maestro mio… io ti ho conosciuto del tutto, o divina Misericordia, nelle ultime ore di Lazzaro. Oh! mio Dio! Ma come mi hai amata Tu, Tu che mi hai perdonata, Tu, Dio, Tu, Puro, Tu…, se mio fratello, che pur mi ama, che però è uomo, soltanto uomo, non ha in fondo al cuore perdonato tutto?! No. Dico male. Non ha dimenticato il mio passato e, quando la debolezza del morire ha ottuso in lui la sua bontà che io credevo dimenticanza del passato, egli ha urlato il suo dolore, il suo sdegno per me… Oh!…».

Maria piange…

«Non piangere, Maria. Dio ti ha perdonata e ha dimenticato. L’anima di Lazzaro pure ha perdonato e ha dimenticato, ha voluto dimenticare. L’uomo non ha potuto tutto dimenticare. E quando la carne ha dominato col suo spasimo estremo la volontà illanguidita, l’uomo ha parlato».

«Non ne ho sdegno, Signore. Mi ha servito ad amarti di più e ad amare ancor più Lazzaro. È stato da quel momento però che io pure ti ho desiderato… perché era troppo angoscioso pensare Lazzaro morto senza pace per causa mia… e dopo, dopo, quando ti ho visto schernito dai giudei… quando ho visto che Tu non venivi neppur dopo la morte, neppur dopo che io ti avevo ubbidito sperando oltre il credibile, sperando fin quando il sepolcro si aprì a riceverlo, allora anche il mio spirito ha sofferto. Signore, se avevo da espiare, e certo lo avevo, io ho espiato, Signore…».

«Povera Maria! Conosco il tuo cuore. Tu hai meritato il miracolo, e ciò ti affermi nel saper sperare e credere».

«Mio Maestro, io spererò e crederò sempre ormai. Io non dubiterò più, mai più, Signore. Io vivrò di Fede. Tu mi hai dato la capacità di credere l’incredibile».

«E tu, Marta? Tu hai imparato? No. Non ancora. Sei la mia Marta. Ma non sei ancora la mia perfetta adoratrice. Perché agisci e non contempli? È più santo. Tu vedi? La tua forza, perché troppo volta a cosa terrene, ha ceduto alla constatazione dei fatti terreni che sembrano talora senza rimedio. In verità non hanno rimedio le terrene cose se Dio non interviene.

La creatura per questo ha bisogno di saper credere e contemplare. Di amare sino all’estremo delle forze di tutto l’uomo, con il pensiero, l’anima, la carne, il sangue; con tutte le forze dell’uomo, ripeto. Io ti voglio forte, Marta. Io ti voglio perfetta.

Non hai saputo ubbidire perché non hai saputo credere e sperare completamente, e non hai saputo credere e sperare perché non hai saputo amare totalmente. Ma Io te ne assolvo. Ti perdono, Marta. Ho risuscitato Lazzaro oggi. Ora ti do un cuore più forte. A lui ho reso la vita. A te infondo la forza dell’amare, credere e sperare perfettamente. Ora siate felici e in pace. Perdonate a chi vi ha offese in questi giorni…».

«Signore, in questo io ho peccato. Poco fa, al vecchio Canania che ti aveva schernito gli altri giorni, ho detto: “Chi ha trionfato? Tu o Dio? Il tuo scherno o la mia fede? Cristo è il Vivente ed è la Verità. Io lo sapevo che la sua gloria sarebbe rifulsa più grande. E tu, vecchio, rifatti l’anima, se non vuoi conoscere la morte”».

«Hai detto bene. Ma non contendere coi malvagi, Maria. E perdona. Perdona se mi vuoi imitare… Ecco Lazzaro. Ne sento la voce».

Infatti Lazzaro entra, rivestito di nuovo e tutto rasato sulle guance, coi capelli regolati e odorosi di essenze. Con lui sono Massimino e lo Zelote.

«Maestro!». Lazzaro si inginocchia, ancora adorando.

Gesù gli pone la mano sul capo e sorride dicendo: «La prova è superata, amico mio. Per te e le sorelle. Ora siate felici e forti a servire il Signore. Che ti ricordi, amico, del passato? Voglio dire delle tue ore estreme?».

«Un grande desiderio di vederti ed una grande pace fra l’amor delle sorelle».

«E che ti doleva più di lasciare morendo?».

«Te, Signore, e le sorelle. Te per non poterti servire, esse perché mi hanno dato ogni gioia…».

«Oh! io, fratello!», sospira Maria.

«Tu più di Marta. Tu mi hai dato Gesù e la misura di ciò che è Gesù. E Gesù ti ha data a me. Tu sei il dono di Dio, Maria».

«Lo dicevi anche morendo…», dice Maria e studia il volto del fratello.

«Perché è il mio costante pensiero».

«Ma io ti ho dato tanto dolore…».

«Anche la malattia ha dato dolore. Ma per essa spero avere espiato le colpe del vecchio Lazzaro e d’esser risorto, purificato per essere degno di Dio. Tu ed io, i due risorti per servire il Signore, e Marta fra noi, lei che fu sempre la pace della casa».

«Lo senti, Maria? Lazzaro dice parole di sapienza e verità. Ora Io mi ritiro e vi lascio alla vostra gioia…».

«No, Signore. Tu resti. Con noi. Qui. Resti a Betania e nella mia casa. Sarà bello…».

«Resterò. Ti voglio compensare di tutto quanto hai patito. Marta, non essere triste. Marta pensa di avermi addolorato. Ma la mia pena non è per voi quanto per coloro che non si vogliono redimere. Essi odiano sempre più. Hanno il veleno nel cuore… Ebbene… perdoniamo».

«Perdoniamo, Signore», dice Lazzaro col suo mite sorriso…

E su questa parola tutto ha fine.

 

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

IV DOMENICA DI QUARESIMA – LAETARE ANNO A (Gv 9,1-41). 22 MARZO 2020

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Giovanni. (Gv 9,1-41)
In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo».
Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa “Inviato”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.
Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so».
Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!».
Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori.
Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui. Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane». Parola del Signore.

Forma breve

Dal Vangelo secondo Giovanni. Gv 9, 1.6-9.13-17.34-38
In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita; sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa “Inviato”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!».
Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori.
Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui. Parola del Signore.

RIFLESSIONI

La “luce” è uno dei simboli originali delle Sacre Scritture. Essa annuncia la salvezza di Dio. Non è senza motivo che la luce è stata la prima ad essere creata per mettere un termine alle tenebre del caos (Gen 1,3-5). Ecco la professione di fede dell’autore dei Salmi: “Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò paura?” (Sal 28,1). E il profeta dice: “Alzati, Gerusalemme, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te” (Is 60,1). Non bisogna quindi stupirsi se il Vangelo di san Giovanni riferisce a Gesù il simbolo della luce. Già il suo prologo dice della Parola divina, del Logos: “In lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta” (Gv 1,4-5). La luce è ciò che rischiara l’oscurità, ciò che libera dalla paura che ispirano le tenebre, ciò che dà un orientamento e permette di riconoscere la meta e la via. Senza luce, non c’è vita.
Il racconto della guarigione del cieco è una “storia di segni” caratteristica di san Giovanni. Essa mette in evidenza che Gesù è “la luce del mondo” (v. 5, cf. 8, 12), che egli è la rivelazione in persona e la salvezza di Dio – offerte a tutti.

A

 

RIVELAZIONE DI GESÙ A MARIA VALTORTA
CORRISPONDENZA NELL’“EVANGELO COME MI È STATO RIVELATO” DI MARIA VALTORTA. CAPITOLO 510

 

Gesù esce insieme ai suoi discepoli e a Giuseppe di Sefori, diretto alla sinagoga. La giornata, limpida e serena, rallegra come una promessa di primavera dopo giorni di vento e di nuvole tutte invernali. Molti di Gerusalemme sono quindi per le vie, chi diretto alle sinagoghe, chi di ritorno da esse o da altri luoghi con la famiglia, intenzionato ad uscire dalla città per godersi il sole nelle campagne. Dalla porta di Erode, visibile dalla casa di Giuseppe di Sefori, si vede uscire la gente per degli allegri svaghi oltre le mura, all’aperto. Un tuffo nel verde, nell’ampio, nel libero, fuori delle vie anguste fra le alte case. Credo che la cintura agreste che era intorno a Gerusalemme fosse voluta spontaneamente dai cittadini, che volevano conciliare la misura del sabato col loro desiderio di aria e di sole, presi per le vie e non soltanto sulle altane delle case.

Ma Gesù non va verso la porta di Erode. Anzi volge le spalle alla stessa, dirigendosi verso l’interno della città. Ma non ha fatto che pochi passi nella via più larga, nella quale sbocca la stradetta dove è la casa di Giuseppe di Sefori, che Giuda di Keriot gli richiama l’attenzione su un giovane, che procede verso di loro toccheggiando il muro con un bastone, alzando il volto privo di occhi verso l’alto, nell’andatura caratteristica dei ciechi. Le vesti sono povere, sebbene pulite, e deve essere persona nota a molti di Gerusalemme, perché più di uno lo addita e alcuni vanno a lui dicendo: «Uomo, oggi hai sbagliato la strada. Le vie del Moria sono tutte superate. Già sei in Bezeta».

«Non chiedo elemosina di denaro, oggi», risponde con un sorriso il cieco e procede sempre con quel sorriso verso il nord della città.

«Maestro, osservalo. Ha le palpebre saldate. Anzi direi che non ha palpebre. La fronte si unisce alle guance senza incavo alcuno, e sembra che sotto non siano le palle degli occhi. È nato così l’infelice. E così morrà, senza aver visto una volta la luce del sole, né il volto dell’uomo. Ora dimmi, Maestro. Per essere così punito, certo ha peccato. Ma se è cieco nato, come certamente è, come può aver peccato prima di nascere? Avranno forse peccato i suoi parenti e Dio li ha puniti facendolo nascere in tal modo?».

Anche gli altri apostoli e Isacco e Marziam si stringono a Gesù per ascoltare la sua risposta. E affrettando il passo, come attirati dall’altezza di Gesù che domina la folla, accorrono due gerosolimitani di civile condizione, che erano un poco indietro del cieco. E fra questi è Giuseppe d’Arimatea, che non si avvicina ma addossandosi ad un portone alto su due gradini, gira lo sguardo su tutti i volti osservando tutto.

Gesù risponde, e si sentono nitidamente le parole nel silenzio che si è fatto: «Non ha peccato né lui né i suoi parenti più di quanto pecchi ogni uomo e forse anche meno. Perché povertà è sovente freno al peccare. Ma egli è nato così perché ancora una volta siano manifeste in lui le potenze e le opere di Dio.

Io sono la Luce venuta nel mondo perché quelli del mondo, che hanno dimenticato Iddio o smarrito la sua effigie spirituale, vedano e ricordino, e perché quelli che cercano Dio, o di Lui già sono, siano confermati nella fede e nell’amore.

Il Padre mi ha mandato perché nel giorno che ancora è concesso ad Israele Io completi la conoscenza di Dio in Israele e nel mondo. Ecco dunque che Io debbo compiere le opere di Colui che mi ha mandato, a testimoniare che Io posso ciò che Egli può, perché sono Uno con Lui. E il mondo sappia e veda che il Figlio non è dissimile dal Padre, e creda in Me per ciò che Io sono.

Dopo verrà la notte nella quale non si può lavorare, la tenebra, e chi non si sarà scolpito il mio segno e la fede in Me non potrà più farlo nelle tenebre e nella confusione, dolore, desolazione e rovina che copriranno questi luoghi e sbalordiranno gli spiriti con gli orgasmi degli affanni. Ma finché Io sono nel mondo, Io sono Luce e Testimonianza, Parola, Via e Vita, Sapienza, Potenza e Misericordia. Va’, dunque, e raggiungi il cieco nato e portamelo qui».

«Va’ tu, Andrea. Io voglio restare qui e vedere ciò che fa il Maestro», risponde Giuda indicando Gesù, che si è chinato verso la via polverosa, ha sputato in un mucchietto di terriccio e col dito sta stemperando la polvere nella saliva formando una pallina di fango e che, mentre Andrea, sempre condiscendente, va a prendere il cieco che sta per svoltare nella vietta dove è la casa di Giuseppe di Sefori, se la spalma sui due indici restando così, con le mani come le tengono  i sacerdoti nella Santa Messa, al Vangelo o all’Epistola.

Però Giuda si ritira dal suo posto dicendo a Matteo e Pietro:

«Venite qui, voi che avete poca statura, e vedrete meglio». E si mette dietro a tutti, quasi celato dai figli d’Alfeo e da Bartolomeo, che sono alti.

Andrea torna tenendo per mano il cieco, che si affanna a dire: «Non voglio denaro. Lasciami andare. So dove è quello chiamato Gesù. E vado per chiedere…».

«Questo è Gesù, questo che ti è davanti», dice Andrea fermandosi davanti al Maestro.

Gesù, contrariamente al solito, non chiede nulla all’uomo. Subito gli stende il poco fango, che ha sugli indici, sulle palpebre chiuse e gli ordina: «Ed ora va’, il più sollecito che puoi, alla cisterna di Siloe, senza fermarti a parlare con nessuno».

Il cieco, col volto impiastricciato di fango, resta un attimo perplesso e apre le labbra per parlare. Poi le chiude e ubbidisce. I primi passi sono lenti, come di chi è pensieroso oppure deluso. Poi affretta il passo, rasentando col bastoncello il muro, sempre più lesto, lesto quanto lo può un cieco, forse più, come se si sentisse guidato…

I due gerosolimitani ridono sarcastici scrollando il capo e se ne vanno. Giuseppe d’Arimatea, e mi stupisce il fatto, li segue senza neppure salutare il Maestro, tornando sui suoi passi, ossia verso il Tempio, mentre da quella stessa direzione veniva. Così tanto il cieco, come i due, come Giuseppe  d’Arimatea vanno verso il sud della città, mentre Gesù piega verso occidente e Lo perdo di vista, perché il volere del Signore mi fa seguire il cieco e quelli che lo seguono.

Superata Bezeta, entrano tutti nella valle che è fra il Moria e Sion -mi sembra di averla sentita altre volte chiamare Tiropeo- la percorrono tutta fino ad Ofel, lo costeggiano, escono sulla via che va alla fonte di Siloe, sempre stando con quest’ordine: per primo il cieco, che deve essere conosciuto in quella parte popolana, poi i due, ultimo, a qualche distanza Giuseppe d’Arimatea.

Giuseppe si ferma presso una casetta meschina, seminascosto da una siepe di bosso, che sporge contornando l’orticello della povera casa. Ma i due vanno proprio vicino alla fonte e osservano il cieco, che si accosta cauto al vasto bacino e, tastando il muro umido, spenzola dentro alla cisterna una mano e la trae gocciolante d’acqua e se ne lava gli occhi, una, due, tre volte. Alla terza preme sul viso anche l’altra mano, lasciando cadere il bastone e gettando un grido come di dolore.

Poi scosta lentamente le mani e il suo primo grido di pena si muta in un urlo di gioia:

«Oh! Altissimo! Io vedo!», e si getta a terra come vinto dall’emozione, le mani messe a parare gli occhi, strette alle tempie, per ansia di vedere, per sofferenza di luce, e ripete:

«Vedo! Vedo! Questa è dunque la terra! Questa la luce! Questa l’erba che conoscevo solo per la sua frescura…».

Si alza e stando curvo, come uno che porta un peso, il suo peso di gioia, va al ruscello che porta via il soprappiù dell’acqua e lo guarda scorrere scintillante e ridarella, e mormora:

«E questa è l’acqua… Ecco! Così la sentivo fra le dita fredda e che non si tiene, ma non ti conoscevo… Ah! Bella! Bella! Come è tutto bello!».

Alza il viso e vede un albero… ci va vicino, lo tocca, stende una mano, attira a sé un rametto, lo guarda e ride, ride, e fa solecchio, e guarda il cielo, il sole, e due lacrime scendono dalle vergini palpebre aperte a contemplare il mondo… E abbassa gli occhi sull’erba dove un fiore ondula sullo stelo, e vede se stesso riflesso nell’acqua del ruscello, e si guarda e dice:

«Così io sono!», e osserva stupito una tortora venuta a bere poco più là, e una capretta che strappa le ultime foglie di un rosaio selvatico, e una donna che viene verso la fonte con un figliolino in seno. E quella donna gli ricorda sua madre, la sua madre dallo sconosciuto volto, e alzando le braccia al cielo grida:

«Te benedetto, Altissimo, per la luce, per la madre, e per Gesù!», e corre via lasciando a terra il suo ormai inutile bastone…

I due non hanno atteso di vedere tutto questo. Appena visto che l’uomo ci vedeva, sono corsi via verso la città. Giuseppe invece resta fino alla fine e, quando il cieco non più cieco gli sfreccia davanti entrando nel dedalo di viuzze del popolano borgo di Ofel, lascia a sua volta il suo posto e torna sui suoi passi, verso la città, molto pensieroso…

Il borgo di Ofel, sempre rumoroso, è ora addirittura in subbuglio. Chi corre a destra, chi a sinistra. Domande, risposte.

«Ma vi sarete sbagliati con un altro…».

«No, ti dico. Gli ho parlato dicendo: “Ma sei proprio tu, Simonia detto Bartolomai?”, e lui ha detto: “Lo sono”. Volevo chiedergli come fu, ma è corso via».

«Dove è ora?».

«Dalla madre, certamente».

«Chi? Chi l’ha visto?», chiedono nuovi accorrenti.

«Io, io», dicono in diversi rispondendo.

«Ma come avvenne?».

«…L’ho visto correre senza bastone con due occhi nel volto e ho detto: “Guarda! Così sarebbe Bartolomai se…”».

«Ti dico che tremo tutta. Entrando ha gridato: “Madre, io ti vedo!”».

«Una grande gioia per i parenti. Ora potrà aiutare il padre e guadagnare il suo cibo…».

«Quella povera donna! Si è sentita male dalla gioia. Oh! una cosa! una cosa! Io ero andata a farmi dare un po’ di sale e…».

«Corriamo a sentire da lui…».

Giuseppe d’Arimatea si trova preso in mezzo a questo baccano e, non so se per curiosità o se per spirito di imitazione, segue la corrente e va a finire in un vicoletto cieco, che se proseguisse andrebbe al Cedron, dove la folla si accalca soverchiando col suo parlare il fruscio delle acque del torrente, ingrossato dalle piogge di autunno. E Giuseppe vi arriva quando da un altro vicolo che sbocca in questo, vengono i due di prima con altri tre: uno scriba, un sacerdote e un altro che non identifico alla veste. Essi si fanno largo con prepotenza e cercano di entrare nella casa stipata di gente.

La casa è fatta di una vasta cucina nera come il catrame, con un angolo tagliato fuori da un rustico assito, oltre il quale è un giaciglio e una porta che dà in un’altra stanza con un letto più grande. Una porta, aperta nella parete opposta, mostra un orticello di pochi metri quadri. Ed è tutto.

Il cieco guarito parla addossato al tavolo, rispondendo a chi lo interroga, tutta la gente povera come lui, popolo minuto di Gerusalemme, di questo borgo, che è forse il più povero di tutti. Sua madre, ritta vicino a lui, lo guarda e piange asciugandosi gli occhi nel suo velo. Il padre, un uomo sciupato dal lavoro, si stropiccia la barba con la mano scossa da un tremito. Entrare nella casa è impossibile anche alla prepotenza giudea e dottorale, e i cinque devono ascoltare da fuori le parole del guarito.

«Come mi si sono aperti? Quell’uomo che si chiama Gesù mi ha sporcato gli occhi con della terra bagnata e mi ha detto: “Va’ a lavarti alla fonte di Siloe”. Ci sono andato, mi sono lavato e si sono aperti gli occhi e ho visto».

«Ma come hai fatto a trovare il Rabbi? Dicevi sempre che eri disgraziato perché mai Lo incontravi, neppure quando passava sempre di qui per andare da Giona al Getsemani. E oggi, adesso che non si sa mai dove sia…».

«Eh! Ieri sera è venuto un suo discepolo e mi ha dato due monete dicendo:

“Perché non cerchi di vedere?”. Gli ho detto: “Ho cercato. Ma non trovo mai quel Gesù che fa miracoli. Lo cerco da quando ha guarito Annalia, del mio stesso borgo, ma se vado qua Egli è là…”, e lui mi ha detto:

“Io sono un suo apostolo e ciò che io voglio Egli fa. Vieni domani a Bezeta e cerca la casa di Giuseppe il galileo, quello del pesce secco, Giuseppe di Sefori, presso la porta di Erode e l’arco della piazza, dalla parte d’oriente, e vedrai che prima o poi Egli passa di là o entra nella casa ed io ti accennerò al Maestro”.

Ho detto: “Ma domani è sabato”. Volevo dire che Egli non farebbe nulla di sabato. Ma mi ha detto:

“Se vuoi guarire è il giorno, perché dopo lascia la città, né sai se Lo potrai più incontrare”. Io ho detto ancora:

“So che Lo perseguitano. Ho sentito dalle porte della cinta del Tempio, dove vado a mendicare. E perciò dico che ora che Lo perseguitano così, meno ancora vorrà essere perseguitato e non mi guarirà di sabato”.

E lui: “Fa ciò che ti dico e in sabato tu vedrai il sole”.

E io sono andato. Chi non sarebbe andato? Se lo dice un suo apostolo! Mi ha detto anche:

“Io sono quello che Egli più ascolta, e vengo apposta perché mi fai pietà e perché voglio che splenda il suo potere dopo che Lo hanno vilipeso. Tu, cieco nato, Lo farai risplendere. So ciò che dico. Vieni e vedrai”.

E io sono andato, e non ero ancora arrivato alla casa di Giuseppe che un uomo mi ha preso per mano, ma alla voce non era quello di ieri, e mi ha detto:

“Vieni con me, fratello”, e io non volevo andare, credevo mi volesse dare pane e denaro, vesti forse, e gli dicevo di lasciarmi andare perché avevo saputo dove trovare quello chiamato Gesù, e l’uomo mi ha detto:

“Questo è Gesù, questo che ti è davanti”.

Ma io non ho visto nulla, perché ero cieco. Ho sentito due dita coperte di terra bagnata toccarmi qui e qui, e una voce dire:

“Va’ sollecito a Siloe e lavati e non parlare con alcuno”, e l’ho fatto. Ma ero sconfortato perché speravo vederci subito, e quasi ho creduto che fosse uno scherzo di giovani senza cuore, e non volevo quasi andare. Ma ho sentito dentro una specie di voce dire: “Spera e ubbidisci”, e allora sono andato alla fonte e mi sono lavato e ho visto». E il giovane si ferma estatico a ripensare alla gioia del primo vedere…

«Fate uscire l’uomo. Lo vogliamo interrogare», gridano i cinque.

Il giovane si fa largo ed esce sulla soglia.

«Dove è Colui che ti ha guarito?».

«Io non lo so», dice il giovane, al quale un amico ha sussurrato: «Sono scribi e sacerdoti».

«Come non lo sai? Dicevi ora che lo sapevi. Non mentire ai dottori della Legge e al sacerdote! Guai a chi cerca ingannare i magistrati del popolo!».

«Non inganno nessuno. Quel discepolo mi ha detto: “È in quella casa” ed era vero, perché c’ero vicino quando sono stato preso e condotto da Lui. Ma dove ora sia non so. Il discepolo mi ha detto che vanno via. Potrebbe già essere uscito dalle porte».

«Ma dove andava?».

«E che ne so io?! Andrà in Galilea… Per come viene trattato qui!…».

«Stolto e irrispettoso! Bada a come parli, feccia del popolo! Ti ho detto: per che via si dirigeva?».

«Ma come volete che lo sappia se ero cieco? Può un cieco dire dove va un altro?».

«Sta bene. Seguici».

«Dove volete portarmi?».

«Dai capi dei farisei».

«Perché? Che c’entrano essi con me? Mi hanno forse guarito, essi, che io li debba ringraziare? Quando ero cieco e mendicavo, le mie mani non sentivano mai le loro monete, il mio udito mai la loro parola di pietà, e il mio cuore mai il loro amore. Che devo dire loro? Non ho che uno al quale dire “grazie”, dopo mio padre e mia madre che per tanti anni mi hanno amato infelice.

Ed è questo Gesù che mi ha guarito amandomi col suo Cuore, come i miei parenti col loro. Io non vengo dai farisei. Sto con mia madre e mio padre, a godere di vedere il loro volto ed essi i miei occhi nati ora, dopo tante primavere da quella in cui nacqui ma non vidi la luce».

«Non tante parole. Vieni e seguici».

«Che no! Non vengo! Avete voi forse mai asciugato una lacrima o un sudore a mia madre avvilita della mia sventura, a mio padre sfinito dal lavoro? Ora io lo posso fare col mio aspetto, e dovrei lasciarli e seguirvi?».

«Te lo ordiniamo. Non sei tu che ordini, ma il Tempio e i capi del popolo. Se la superbia di esser guarito ti rende ottusa la mente a ricordare che noi comandiamo, noi te lo ricordiamo. Avanti! Cammina!».

«Ma perché io devo venire? Che volete da me?».

«Che tu deponga della cosa. È sabato. Opera compiuta nel sabato. Va registrata per il peccato. Peccato tuo e di quel satana».

«Satana voi! Peccato voi! E io dovrei venire a deporre contro chi mi ha beneficato? Voi siete ebbri! Al Tempio verrò. A benedire il Signore. E non più di così. Nell’ombra della cecità sono stato per tanti anni. Ma le palpebre chiuse non hanno fatto tenebra che agli occhi. L’intelletto è stato in luce lo stesso, in grazia di Dio, e mi dice che non devo danneggiare l’unico Santo che è in Israele».

«Uomo, basta! Non sai che vi sono castighi per chi si oppone ai magistrati?».

«So niente io. Qui sono e qui sto. E non vi conviene nuocermi. Vedete che tutto l’Ofel è dalla mia parte».

«Sì! Sì! Lasciatelo! Sciacalli! È protetto da Dio. Non lo toccate! Dio è coi poveri! Dio è con noi, affamatori e ipocriti!».

La gente urla e minaccia con una di quelle spontanee manifestazioni popolari che sono le esplosioni di sdegno degli umili verso chi li preme, o di amore per chi li protegge. E grida:

«Guai a voi se colpite il nostro Salvatore! L’Amico dei poveri! Il Messia tre volte Santo. Guai a voi! Non si è temuto le ire di Erode, non quelle dei Presidi, quando si è voluto. Non temiamo le vostre, vecchie iene dalle mascelle sdentate! Sciacalli dalle unghie mozzate! Inutili prepotenti!

Roma non vuole i tumulti e non opprime il Rabbi perché Egli è pace. Ma voi vi conosce. Andate via! Via dai quartieri di quelli che opprimete con decime più forti delle loro forze, ad aver denaro per saziare le vostre fami e a compiere i turpi mercati. Discendenti di Giasone! Di Simone! Torturatori dei veri Eleazari, dei santi Onia. Conculcatori dei profeti! Via! Via!». Il tumulto si accende sempre più fiero.

Giuseppe d’Arimatea, schiacciato contro un muretto, sino allora spettatore attento ma inattivo dei fatti, con un’agilità insospettabile in un vecchio, e per di più così infagottato in vesti e mantelli, salta in piedi sul muricciolo e urla:

«Silenzio, cittadini. E ascoltate Giuseppe l’Anziano!».

Una, due, dieci teste si volgono in direzione del grido. Vedono Giuseppe. Gridano il suo nome. Deve essere molto noto il d’Arimatea e deve godere il favore del popolo, perché le urla di sdegno si mutano in urla di gioia:

«C’è Giuseppe l’Anziano! Viva lui! Pace e lunga vita al giusto! Pace e benedizione al benefattore dei miseri! Silenzio, ché parla Giuseppe! Silenzio!».

Il silenzio si fa a fatica, e si ode per qualche minuto il frusciare del Cedron oltre il vicolo. Tutte le teste sono rivolte a Giuseppe, avendo tutti dimenticato l’oggetto che prima li faceva volgere in opposta direzione: i cinque disgraziati e improvvidi che hanno suscitato il tumulto.

«Cittadini di Gerusalemme, uomini di Ofel, perché volete lasciarvi accecare dal sospetto e dall’ira? Perché mancare al rispetto e alle consuetudini, voi sempre così fedeli alle leggi dei padri? Di che temete? Forse che il Tempio sia un Moloch che non rende ciò che accoglie? Forse che i giudici vostri siano tutti ciechi, più del vostro amico, ciechi nel cuore e sordi nella giustizia? Non è forse usanza che un fatto prodigioso sia deposto, scritto e conservato da chi di dovere per le cronache di Israele?

Lasciate dunque che, anche per onore del Rabbi che amate, il miracolato salga a deporre l’opera da Esso compiuta. Ancora titubate? Ebbene, io mi fo mallevadore che nulla avverrà di male a Bartolomai. E voi sapete che io non mento. Come un figlio a me caro lo scorterò lassù, e ve lo ricondurrò qui poi. A me credete. E del sabato non fate un giorno di peccato con la ribellione ai vostri capi».

«Dice giusto! Non si deve. Possiamo credergli. Egli è un giusto. Nelle buone deliberazioni del Sinedrio è sempre la sua voce». La gente si scambia le sue idee e finisce per gridare:

«A te sì. Il nostro amico a te lo affidiamo!».

E rivolta al giovane: «Vieni! Non temere. Con Giuseppe d’Arimatea sei sicuro come e più che con tuo padre», e fa largo perché il giovane possa andare da Giuseppe, che è sceso dal suo pulpito improvvisato, e mentre passa gli dicono:

«Veniamo anche noi. Non temere!».

Giuseppe, nelle sue ricche vesti di splendida lana, pone una mano sulla spalla del giovane e si mette in cammino. La tunica bigia e consumata del giovane, il suo piccolo mantello, strusciano contro l’ampia veste rosso cupa e il pomposo manto ancor più scuro del vecchio sinedrista. Dietro, i cinque e, dopo questi, molti e molti di Ofel…

Eccoli al Tempio, dopo aver traversato le vie centrali attirando l’attenzione di molti, che si additano il già cieco dicendo: «Ma è colui che mendicava cieco! E ora ha gli occhi! Ma forse è uno che gli somiglia! No. È lui certo e lo conducono al Tempio. Andiamo a sentire», e il codazzo aumenta sempre più, sinché le mura del Tempio li inghiottono tutti.

Giuseppe guida il giovane in una sala, non è il Sinedrio, dove sono molti farisei e scribi. Giuseppe entra e con lui entra Bartolomai e i cinque. I popolani di Ofel vengono respinti nel cortile.

«Ecco l’uomo. Io stesso ve l’ho condotto, avendo, non visto, assistito al suo incontro col Rabbi e alla sua guarigione. E vi posso dire che fu del tutto casuale da parte del Rabbi. L’uomo, lo sentirete anche voi, fu condotto, o meglio, invitato ad andare dove era il Rabbi, da Giuda di Keriot, che voi conoscete. E io ho sentito, e anche questi due con me hanno sentito perché erano presenti, come fu Giuda a tentare Gesù di Nazaret al miracolo.

Or io qui depongo che, se uno vi è da punire, non è il cieco, né il Rabbi, ma l’uomo di Keriot, che -Dio mi vede se mento nel dire ciò che il mio intelletto pensa- è il solo autore del fatto come colui che lo ha con apposita manovra provocato. Ho detto».

«Il tuo dire non annulla la colpa del Rabbi. Se un suo discepolo pecca non deve peccare il Maestro. Ed Egli ha peccato guarendo in sabato. Ha compiuto opera servile».

«Sputare in terra non è fare opera servile. E toccare gli occhi di un altro non è fare opera servile. Io pure tocco l’uomo e non credo di peccare».

«Egli ha fatto miracolo in sabato. In questo sta il peccato».

«Onorare il sabato con un miracolo è grazia di Dio e sua bontà. È il suo giorno. E non potrà l’Onnipotente celebrarlo con un miracolo che faccia splendere la sua potenza?».

«Non siamo qui per ascoltare te. Tu non sei imputato. È l’uomo che vogliamo interrogare. Rispondi, tu. Come hai ottenuto la vista?».

«L’ho detto. E questi mi hanno sentito. Il discepolo di quel Gesù mi ha detto ieri: “Vieni e io ti farò guarire”. E sono venuto. E mi sono sentito mettere del fango qui e una voce dirmi di andare a Siloe e lavarmi. E l’ho fatto e ci vedo».

«Ma sai tu chi ti ha guarito?».

«Certo che lo so! Gesù. Ve l’ho detto».

«Ma sai di preciso chi è Gesù?».

«Non so niente io. Sono un povero e un ignorante. E fino poco fa ero cieco. Questo so. E so che Lui mi ha guarito. E se lo ha potuto fare, certo Dio è con Lui».

«Non bestemmiare! Non può Dio essere con chi non osserva il sabato», urlano alcuni.

Ma Giuseppe e i farisei Eleazaro, Giovanni e Gioacchino osservano: «Neppure però può un peccatore fare tali prodigi».

«Siete sedotti voi pure, forse, da quel posseduto?».

«No. Siamo giusti. E diciamo che, se Dio non può essere con chi opera in sabato, neppure può l’uomo senza Dio fare che un cieco nato veda», dice calmo Eleazaro. E gli altri annuiscono.

«E il demonio dove lo mettete?», urlano bisbetici i malevoli.

«Non posso credere, e neppur voi lo credete, che il demonio possa far opera capace di far lodare il Signore», dice il fariseo Giovanni.

«E chi lo loda?».

«Il giovane, i suoi parenti, tutto Ofel, ed io con loro, e con me tutti quelli che giusti sono e santamente timorati di Dio», ribatte Giuseppe.

I malevoli, scornati, non sapendo cosa obbiettare, investono Sidonia detto Bartolomai: «Tu che cosa dici di colui che ti ha aperto gli occhi?».

«Per me è un profeta. E più grande di Elia col figlio della vedova di Sarepta. Perché Elia fece tornare l’anima nel fanciullo. Ma questo Gesù mi ha dato ciò che non avevo mai perso perché non l’avevo mai avuto: la vista. E se mi ha fatto gli occhi così in un baleno e con nulla, salvo un po’ di fango, mentre in nove mesi mia madre con carne e sangue non era riuscita a farmeli, deve essere grande come Dio, che col fango ha fatto l’uomo».

«Va’ via! Va’ via! Bestemmiatore! Bugiardo! Merce d’acquisto!», e cacciano fuori l’uomo come fosse un dannato.

«L’uomo mente. Non può esser vero. Tutti lo possono dire che chi è nato cieco non può guarire. Sarà uno che gli somiglia a Bartolomai e che il Nazareno ha preparato… oppure… Bartolomai non è mai stato cieco».

Davanti a questa sorprendente affermazione Giuseppe d’Arimatea scatta:

«Che l’odio accechi si sa dal tempo di Caino. Ma che faccia stolti non si sapeva ancora. Vi pare che uno giunga alla maturità della gioventù fingendosi cieco per… attendere un presumibile evento strepitoso e molto futuro? O che i parenti di Bartolomai non conoscano il figlio o si prestino a questa menzogna?».

«Il denaro può tutto. Ed essi sono poveri».

«Il Nazareno lo è più di loro».

«Tu menti! Somme da satrapo gli passano fra le mani».

«Ma non vi si fermano un istante. Sono dei poveri quelle somme. Usate per il bene, non per la menzogna».

«Come lo difendi! E sei uno degli Anziani!».

«Giuseppe ha ragione. La verità va detta quale che sia la carica che l’uomo ricopre», dice Eleazaro.

«Correte a richiamare il cieco. E portatelo di nuovo qui. E altri vadano dai parenti e li portino qui», urla Elchia spalancando la porta e ordinando ad alcuni in attesa lì fuori. E la sua bocca è quasi coperta di bava tanto l’ira lo strozza.

Chi corre di qua, chi di là. Il primo che torna è Sidonia detto Bartolomai, stupito e seccato. Lo ficcano in un angolo guardandolo come una muta di cani guata una selvaggina… Poi, dopo un bel po’, ecco venire i genitori di lui, circondati da folla.

«Venite dentro voi. E gli altri fuori!».

I due entrano spaventati e vedono il figlio là in fondo, sano, ma in stato di arresto. La madre geme:

«Figlio mio! E doveva esser giorno di festa per noi!».

«Ascoltate noi. È vostro figlio quell’uomo?», interroga rudemente un fariseo.

«Sì che è nostro figlio! E chi volete che sia se non lui?».

«Ne siete proprio sicuri?».

Il padre e la madre sono tanto sbalorditi della domanda che prima di rispondere si guardano.

«Rispondete!».

«Nobile fariseo, e puoi pensare che un padre e una madre si possano ingannare sulla loro creatura?», dice umilmente il padre.

«Ma… potete giurare che… sì, che per nessuna somma vi fu chiesto di dire che questo è vostro figlio mentre è uno che gli somiglia?».

«Chiesto di dire? E da chi mai? Giurare? Ma mille volte, e per l’altare e il Nome di Dio, se vuoi!». È così sicura l’affermazione che smonterebbe anche il più ostinato.

Ma i farisei non si smontano! Chiedono: «Ma vostro figlio non era nato cieco?».

«Sì. Così era nato. A palpebre chiuse e, sotto, il vuoto, il nulla…».

«E come mai ora ci vede, ha gli occhi e le palpebre aperte su essi? Non vorrete già dire che gli occhi possono nascere così, come fiori a primavera, e che una palpebra si schiuda, come giusto fa il calice di un fiore!…», dice un altro fariseo e ride sarcastico.

«Sappiamo che questo uomo è veramente nostro figlio da quasi trent’anni e che è nato cieco, ma come ora ci veda non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi. Del resto, chiedetene a lui. Non è ebete e non è fanciullo. Ha i suoi buoni anni. Interrogatelo e vi risponderà».

«Voi mentite. Egli, in casa vostra, ha narrato come fu guarito e da chi. Perché dite che non sapete?», urla uno dei due che avevano sempre seguito il cieco.

«Eravamo tanto sbalorditi dalla sorpresa che non abbiamo sentito», si scusano i due.

I farisei si volgono a Simonia detto Bartolomai:

«Vieni avanti tu. E dà pur gloria a Dio se ti riesce! Non sai che chi ti ha toccato gli occhi è un peccatore? Non lo sai? Ebbene, sappilo. Noi te lo diciamo, che lo sappiamo».

«Mah! Sarà come voi dite. Io, se sia peccatore, non lo so. So soltanto che prima ero cieco e ora ci vedo, e ben chiaro».

«Ma cosa ti fece? Come ti aprì gli occhi?».

«Ve l’ho già detto e voi mi avete ascoltato. Ora volete sentire di nuovo? Perché? Forse volete farvi discepoli di Lui?».

«Stolto! Sii tu discepolo di quell’uomo. Noi siamo discepoli di Mosé. E di Mosé sappiamo ogni cosa e che Dio gli ha parlato. Ma di quest’uomo nulla sappiamo, né di dove venga né chi sia, e nessun prodigio del Cielo lo indica come profeta».

«Qui appunto sta il meraviglioso! Che voi non sapete di dove Egli sia e dite che nessun prodigio lo indica per giusto. Ma Egli mi ha aperto gli occhi e nessuno di noi d’Israele aveva mai potuto farlo, neppure l’amore di una madre e i sacrifici del padre mio. Una cosa però sappiamo tutti, tanto io che voi, ed è che Dio non esaudisce il peccatore, ma colui che ha timore di Dio e fa la sua volontà. Non si è mai sentito che nessuno in tutto il mondo abbia potuto aprire gli occhi ad un cieco nato, ma questo Gesù lo ha fatto. Se Egli non fosse da Dio, non lo avrebbe potuto fare».

«Sei nato nel peccato interamente, e deforme sei nello spirito come e più che non lo fosti nel corpo, e ti pretendi di insegnare a noi? Va’ via, maledetto aborto, e fatti satana col tuo seduttore. Via! Via tutti, plebe stolta e peccatrice!», e buttano fuori figlio, padre e madre, come fossero tre lebbrosi.

I tre se ne vanno lesti, seguiti dagli amici. Ma, giunto fuori dalla cinta, Simonia si volge e dice: «E state! E dite ciò che volete! Il vero è che io ci vedo e ne lodo Iddio. E satana voi sarete, non già il Buono che mi ha guarito».

«Taci, figlio! Taci! Purché ciò non ci faccia del male!…», geme la madre.

«Oh! madre mia! Ti ha avvelenato l’anima l’aria di quella sala, tu che nel mio dolore mi insegnavi a lodar Dio e che ora nella gioia non lo sai ringraziare e temi gli uomini? Se Dio mi ha amato tanto e ti ha amata tanto da darci il miracolo, non saprà difenderci da un pungolo di uomini?».

«Il figlio ha ragione, donna. Andiamo alla sinagoga nostra a lodare il Signore, posto che dal Tempio ci hanno cacciato. E andiamoci lesti, prima che termini il sabato…».

E, affrettando il passo, si sperdono nelle vie della valle.

 

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

III DOMENICA DI QUARESIMA ANNO A (Gv 4,5-42) 15 MARZO 2020

Immagine gv-45-42
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TESTO:-
Dal Vangelo secondo Giovanni. (Gv 4,5-42)
In quel tempo, Gesù giunse a una città della Samarìa chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani.
Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?».
Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». «Signore – gli dice la donna -, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». Le dice: «Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui». Gli risponde la donna: «Io non ho marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero».
Gli replica la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità». Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa». Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te».
In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: «Che cosa cerchi?», o: «Di che cosa parli con lei?». La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?». Uscirono dalla città e andavano da lui.
Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbì, mangia». Ma egli rispose loro: «Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete». E i discepoli si domandavano l’un l’altro: «Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?». Gesù disse loro: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. Voi non dite forse: ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l’altro miete. Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica».
Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo». Parola del Signore.

Forma breve

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Giovanni. (Gv 4, 5-15.19b-26.39a.40-42)
In quel tempo, Gesù giunse a una città della Samarìa chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: Dammi da bere!, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?».
Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». «Signore – gli dice la donna -, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua. Vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare».
Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità».
Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa». Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te».
Molti Samaritani di quella città credettero in lui. E quando giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo». Parola del Signore.

RIFLESSIONI

La conversazione di Gesù con la Samaritana si svolge sul tema dell’”acqua viva”. Quest’acqua è indispensabile alla vita, e non è sorprendente che, nelle regioni del Medio Oriente dove regna la siccità, essa sia semplicemente il simbolo della vita e, anche, della salvezza dell’uomo in un senso più generale.
Questa vita, questa salvezza, si possono ricevere solo aprendosi per accogliere il dono di Dio. È questa la convinzione dell’antico Israele come della giovane comunità cristiana. E l’autore dei Salmi parla così al suo Dio: “È in te la sorgente della vita” (Sal 036,10). Ecco la sua professione di fede: “Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio” (Sal 042,2). La salvezza che Dio porta viene espressa con l’immagine della sorgente che zampilla sotto l’entrata del tempio e diventa un grande fiume che trasforma in giardino il deserto della Giudea e fa del mar Morto un mare pieno di vita (Ez 47,1-12). Gesù vuole offrire a noi uomini questa salvezza e questa vita. Per calmare definitivamente la nostra sete di vita e di salvezza. “Io, sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato”
di Maria Valtorta Capitolo 143

“Io mi fermo qui. Andate nella città, comperate quanto occorre per il pasto. Qui mangeremo”.

“Tutti andiamo?”.

“Sì, Giovanni. È bene siate in gruppo”.

“E Tu? Resti solo… Sono samaritani…”.

“Non saranno i peggiori tra i nemici del Cristo. Andate, andate. Io prego mentre vi attendo. Per voi e per questi”.

I discepoli se ne vanno a malincuore, e per tre o quattro volte si volgono a guardare Gesù, che si è seduto su un basso muretto soleggiato che è presso il basso e largo bordo di un pozzo. Un grande pozzo, quasi una cisterna tanto è largo. D’estate deve essere ombreggiato da grandi alberi, ora spogli. L’acqua non si vede, ma il terreno, presso il pozzo, mostra chiari segni di acque attinte, con piccole pozze o con cerchi lasciati dalle brocche umide.

Gesù si siede e medita, nella sua solita posa, coi gomiti appoggiati alle ginocchia e le mani congiunte in avanti, il corpo lievemente piegato e il capo curvo verso terra. Poi sente il bel solicello scardarlo e si fa cadere il mantello dal capo e dalle spalle, tenendolo però ancora raccolto in grembo.

Alza il capo per sorridere a uno stormo di passeri rissosi che si litigano una grossa mollica perduta da qualche persona presso il pozzo. Ma i passeri fuggono per il sopraggiungere di una donna che viene al pozzo con un’anfora vuota tenuta per un manico con la mano sinistra, mentre la destra scosta con un atto di sorpresa il velo per vedere chi è l’uomo là seduto.

Gesù sorride a questa donna sui 35-40 anni, alta, dai tratti fortemente marcati, ma belli. Un tipo che noi diremmo quasi spagnolo per il colorito di un pallore olivastro, le labbra molto accese e piuttosto tumide, gli occhioni fino smisuratamente grandi e neri sotto sopracciglia foltissime, e le trecce corvine che traspaiono dal velo leggero.

Anche le forme, tendenti al formoso, hanno un marcato tipo orientale lievemente molle come quello delle donne arabe. È vestita di una stoffa a righe multicolori, ben stretta alla cintura, tesa sui fianchi e sul petto grassocci, e pendente poi, in una specie di balza ondulante, fino a terra.

Molti anelli e bracciali alle mani grassottelle e brunette e ai polsi che appaiono dalle sottomaniche di lino. Al collo una collana pesante da cui pendono delle medaglie, direi degli amuleti perché ce ne sono di tutte le forme. Pesanti orecchini scendono fin verso il collo e brillano sotto il velo.

“La pace sia con te, donna. Mi dai da bere? Ho molto camminato e ho sete”.

“Ma non sei Tu giudeo? E chiedi da bere a me, samaritana? Che è avvenuto dunque? Siamo riabilitati oppure siete disfatti? Certo  un grande avvenimento è avvenuto se un giudeo parla cortese con una samaritana. Dovrei dirti però: ‘Non ti do nulla per punire in Te tutte le ingiurie che i giudei da secoli ci danno”.

“Hai detto bene. Un grande avvenimento è avvenuto. E per esso molte cose sono cambiate e più ne cambieranno. Dio ha fatto un grande dono al mondo e per esso molte cose sono cambiate. Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è Colui che ti dice: ‘Dammi da bere, forse tu stessa gli avresti chiesto da bere, ed Egli ti avrebbe dato acqua viva”.

“L’acqua viva è nelle vene della terra. Questo pozzo ce l’ha. Ma è nostro”. La donna è beffarda e prepotente.

“L’acqua è di Dio. Come la bontà è di Dio. Come la vita è di Dio. Tutto è di un unico Dio, donna. E tutti gli uomini vengono da Dio, samaritani come giudei. Questo pozzo non è quello di Giacobbe? E Giacobbe non è il capo della stirpe nostra? Se poi un errore ci ha divisi , ciò non cambia l’origine”.

“Errore nostro, vero?” chiede aggressiva la donna.

“Non nostro né vostro. Errore di uno che aveva perso di vista carità e giustizia. Io non ti offendo e non offendo la tua razza. Perché vuoi essere tu offensiva?”.

“Sei il primo giudeo che odo parlare così. Gli altri… Ma, riguardo al pozzo, sì, è quello di Giacobbe e ha un’acqua così abbondante e chiara che noi di Sicar lo preferiamo alle altre fontane. Ma è molto profondo. Tu non hai anfora né otre.

Come potresti dunque attingere per me acqua viva? Sei da più di Giacobbe, il santo patriarca nostro, che ha trovato questa abbondante vena per lui, per i suoi figli e i suoi armenti, e ce l’ha lasciata a suo ricordo e dono?”.

“Tu lo hai detto. Ma chi beve di quest’acqua avrà ancora sete. Io invece ho un’acqua che chi l’ha bevuta non sentirà più sete. Ma è solo mia. Ed Io la darò a chi Me la chiede. Ed in verità ti dico che chi avrà l’acqua che Io gli darò, diverrà per sempre irrorato e non avrà più sete, perché l’acqua mia diventerà in lui sorgente sicura, eterna”.

“Come? Io non capisco. Sei un mago? Come può un uomo divenire un pozzo? Il cammello beve e fa scorta d’acqua nel capace ventre. Ma poi la consuma e non gli dura per tutta la sua vita. E Tu dici che la tua acqua dura per tutta la vita?”.

“Più ancora: zampillerà fino alla vita eterna. Sarà in chi la beve zampillante fino alla vita eterna e darà germi di vita eterna. Perché è sorgente di salute”.

“Dammi di quest’acqua, se è vero che la possiedi. Io mi stanco a venire fin qui. L’avrò e non avrò più sete, e non diverrò mai malata né vecchia”.

“Di questo solo ti stanchi? Non di altro? E non senti bisogno che di attingere per bere, per il tuo misero corpo? Pensaci. Vi è qualcosa da più del corpo. Ed è l’anima. Giacobbe non dette solo l’acqua del suolo a sé e ai suoi. Ma si preoccupò di darsi e di dare la santità, l’acqua di Dio”.

“Ci dite pagani, voi… Se è vero ciò che voi dite, noi non possiamo essere santi..”.

La donna ha perduto il tono petulante e ironico ed è sottomessa e lievemente confusa.

Anche un pagano può essere virtuoso. E Dio, che è giusto, lo premierà per il bene fatto. Non sarà un premio completo, ma, Io te lo dico, fra un fedele in colpa grave e un pagano senza colpa Dio guarda con meno rigore il pagano.

E perché, se sapete d’esser tali, non venite al vero Dio? Come ti chiami?”.

“Fotinai”.

“Ebbene, rispondi a Me, Fotinai. Te ne duoli di non potere aspirare alla santità perché sei pagana, come tu dici, perché sei nelle nebbie di un antico errore, come dico Io?”.

“Sì, che me ne dolgo”.

“E allora perché non vivi almeno da virtuosa pagana?”.

“Signore!…”.

“Sì. Puoi negarlo? Và a chiamare tuo marito e torna qua con lui”.

“Non ho marito…”.

La confusione della donna cresce.

“Hai detto bene. Non hai marito. Hai avuto cinque uomini ed ora hai con te uno che non ti è marito. Era necessario questo? Anche la tua religione non consiglia l’impudicizia. Il Decalogo lo avete voi pure.

Perché allora, Fotinai, tu vivi così? Non ti senti stanca di questa fatica di essere carne di tanti e non l’onesta moglie di uno solo?

Non ti fa paura la tua sera, quando ti troverai sola coi ricordi? Con i rimpianti? Con le paure? Sì. Anche quelle. Paura di Dio e degli spettri. Dove sono le tue creature?”.

La donna abbassa del tutto il capo e non parla.

“Non le hai sulla terra, Ma le loro piccole anime, alle quali tu hai impedito di conoscere il giorno della luce, ti rimproverano. Sempre. Gioielli… belle vesti… casa ricca… nutrita mensa… Sì. Ma vuoto, e lacrime, e miseria interiore. Sei una derelitta, Fotinai.

E solo con un pentimento sincero, attraverso il perdono di Dio, e per conseguenza il perdono delle tue creature, puoi tornare ricca”.

“Signore vedo che Tu sei Profeta. E ne ho vergogna…”.

“E del Padre che è nei Cieli non ne avevi vergogna quando facevi il male? Non piangere di avvilimento davanti all’Uomo…Vieni qui, Fotinai. Vicino a Me. Io ti parlerò di Dio. Forse non Lo conoscevi bene. E per questo, certo per questo, tu hai tanto errato. Se avessi conosciuto bene il vero Dio non ti saresti avvilita così. Egli ti avrebbe parlato e sorretto…”.

“Signore, i nostri padri hanno adorato su questo monte. Voi dite che solo in Gerusalemme si deve adorare. Ma, Tu lo dici, Dio è uno solo. Aiutami a vedere dove e come devo fare…”.

“Donna, credi a Me. Fra poco viene l’ora in cui né sul monte di Samaria né in Gerusalemme sarà adorato il Padre. Voi adorate Colui che non conoscete. Noi adoriamo Colui che conosciamo, perché la salute viene dai giudei. Ti ricordo i Profeti. Ma viene l’ora, anzi ha già inizio, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità, non più col rito antico ma col nuovo rito in cui non saranno sacrifici e ostie di animali consumati col fuoco.

Ma il sacrificio eterno dell’Ostia immacolata arsa dal Fuoco della Carità. Culto spirituale nel Regno spirituale. E sarà compreso da coloro che sapranno adorare in spirito e verità. Iddio è Spirito. Quelli che Lo adorano Lo devono adorare spiritualmente”.

“Tu hai sante parole. Io so, perché anche noi qualcosa sappiamo, che il Messia sta per venire, il Messia, Colui che si chiama anche ‘il Cristo’. Quando sarà venuto ci insegnerà ogni cosa. Qui presso c’è anche quello che dicono il suo Precursore. E molti vanno a sentirlo. Ma è tanto severo!… Tu sei buono… e le povere anime non hanno paura di Te. Penso che il Cristo sarà buono. Lo dicono Re della Pace. Starà molto a venire?”.

“Ti ho detto che il suo tempo è già presente”.

“Come lo sai? Sei forse un suo discepolo? Il Precursore ha molti discepoli. Anche il Cristo li avrà”.

“Sono Io che ti parlo il Cristo Gesù”.

“Tu!…Oh!…”.

La donna, che si era seduta presso Gesù, si alza e fa per fuggire.

“Perché fuggi, donna?”.

“Perché ho orrore di mettere me presso a Te. Sei Santo…”.

“Sono il Salvatore. Sono venuto qui -non era necessario- perché lo sapevo che la tua anima era stanca di essere errante. Ti sei nauseata del tuo cibo… Sono venuto a darti un nuovo cibo e che ti leverà nausea e stanchezza… Ecco i miei discepoli che tornano col mio pane. Ma già Io sono nutrito dall’avere dato a te le briciole iniziali della tua redenzione”.

I discepoli sbirciano, più o meno prudentemente, la donna, ma nessuno parla. Lei se ne va senza più pensare all’acqua e all’anfora.

“Ecco, Maestro”, dice Pietro. “Ci hanno trattato bene. Qui vi è cacio, pane fresco, ulive e mele. Prendi ciò che vuoi. Quella donna ha fatto bene a lasciare l’anfora. Faremo più presto che con le nostre piccole vesciche. Berremo e le faremo piene. Senza avere da chiedere altro ai samaritani. Neppure di avvicinarsi alle loro fontane.

Non mangi? Volevo trovarti del pesce, ma non ce n’è. Forse ti piaceva di più. Sei stanco e pallido”.

“Ho un cibo che voi non conoscete. Mangerò di quello. Mi ristorerà molto”.

I discepoli si guardano fra loro interrogativamente.

Gesù risponde alle loro mute interrogazioni.

“Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e portare a termine l’opera che è suo desiderio Io compia. Quando un seminatore getta il seme, può forse dire di avere già tutto fatto per dire che ha raccolto? No, davvero. Quanto ancora ha da fare per dire: ‘Ecco che la mia opera è compiuta’! E fino a quell’ora non può riposare.

Guardate questi campicelli sotto il lieto sole dell’ora di sesta. Solo un mese fa, anche meno di un mese, la terra era nuda, scura per essere bagnata dalle piogge. Ora guardate. Steli e steli di grano, appena spuntati, di un verde tenuissimo, che nella gran luce pare anche più chiaro, la fanno come coperta di un tenue velo biancheggiante.

Questa è la messe futura e voi vedendola dite: ‘Fra quattro mesi è il raccolto. I seminatori prenderanno i mietitori, perché se uno è sufficiente a seminare il suo campo, molti necessitano per mieterlo. E ambi sono contenti. Tanto colui che ha seminato un piccolo sacchetto di grano, e ora deve preparare granai a riceverlo, come coloro che in pochi giorni guadagnano di che vivere per qualche mese’.

Anche nel campo dello spirito coloro che mieteranno ciò che Io ho seminato si rallegreranno con Me, e come Me, perché Io darò loro il mio salario e il frutto debito. Darò di che vivere nel mio Regno eterno. Voi non avete che da mietere. Il più duro lavoro Io l’ho fatto.

Eppure vi dico: ‘Venite. Mietete nel mio campo. Io sono lieto che voi vi carichiate dei manipoli del mio grano. Quando tutto il mio grano che Io avrò seminato, instancabile, ovunque, sarà da voi raccolto, allora sarà compiuta la volontà di Dio ed Io mi siederò al banchetto della celeste Gerusalemme’.

Ecco che vengono i samaritani con Fotinai. Usate carità con essi. Sono anime che vengono a Dio”.

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

II DOMENICA DI QUARESIMA ANNO A (Mt 17,1-9) 8 Marzo 2020

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Matteo. (Mt 17,1-9)
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui.
Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo».
All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo.
Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti». Parola del Signore.

RIFLESSIONI

Nelle Scritture, la montagna è sempre il luogo della rivelazione. Sono gli uomini come Mosè (Es 19) e Elia (1Re 19) che Dio incontra. Si racconta anche che il volto di Mosè venne trasfigurato da quell’incontro: “Quando Mosè scese dal monte Sinai – le due tavole della Testimonianza si trovavano nelle mani di Mosè mentre egli scendeva dal monte – non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con il Signore” (Es 34,29). La magnificenza della rivelazione divina si comunica anche a coloro che la ricevono e diventano i mediatori della parola di Dio.
Gesù si mette a brillare come il sole sotto gli occhi di tre discepoli: questo lo individua come colui che è l’ultimo a rivelare Dio, come colui che oltrepassa tutti i suoi predecessori. Ciò è sottolineato ancor più dal fatto che Mosè ed Elia appaiono e si intrattengono con lui.
Essi rappresentano la legge e i profeti, cioè la rivelazione divina prima di Gesù. Gesù è l’ultima manifestazione di Dio. È quello che dimostra la nube luminosa – luogo della presenza divina (come in Es 19) – da dove una voce designa Gesù come il servitore regale di Dio (combinazione del salmo 2, 7 e di Isaia 42, 1). A ciò si aggiunge, in riferimento a Deuteronomio 18, 15, l’esortazione ad ascoltare Gesù, ad ascoltare soprattutto il suo insegnamento morale.

 

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta. Capitolo 349.

 

Sono col mio Gesù su un alto monte. Con Gesù sono Pietro, Giacomo e Giovanni. Salgono ancor più in alto e l’occhio spazia per aperti orizzonti che un bel giorno sereno rende netti nei particolari fino nelle lontananze.

Il monte non fa parte di un sistema montano come è quello della Giudea; sorge isolato avendo, rispetto al luogo dove ci troviamo, l’oriente in faccia, il nord alla sinistra, il sud a destra e dietro, a ovest, la vetta che si alza di ancora qualche centinaio di passi. È molto elevato e l’occhio è libero di vedere per un largo raggio.

Il lago di Genezaret pare un lembo di cielo sceso a incastonarsi fra il verde della terra, una turchese ovale chiusa da smeraldi di diverse gradazioni, uno specchio che tremula e si increspa a un vento lieve e sul quale scivolano, con agilità di gabbiani, le barche dalle vele spiegate, leggermente curvate verso l’onda azzurrina, proprio con la grazia del volo candido di un alcione, scorrente l’onda in cerca di preda.

Poi ecco che dalla vasta turchese esce una vena, di un azzurro più pallido là dove il greto è più ampio, e più scuro là dove le rive si stringono e l’acqua è più profonda e cupa per l’ombra che vi gettano gli alberi che crescono vigorosi presso il fiume, nutriti dal suo umore. Il Giordano pare una pennellata quasi rettilinea nel verde della pianura.

Dei paeselli sono sparsi per la pianura al di qua e al di là del fiume. Alcuni sono proprio un pugno di case, altri sono più vasti, già arieggianti a cittadine. Le vie maestre sono rughe giallognole fra il verde. Ma qua, dalla parte del monte, la pianura è molto più coltivata e fertile, molto bella. Si vedono le diverse colture coi loro diversi colori ridere al bel sole che scende dal cielo sereno.

Deve essere primavera, forse marzo, se calcolo la latitudine della Palestina, perché vedo i grani già più alti, ma ancora verdi, ondulare come un mare glauco, e vedo i pennacchi dei più precoci fra gli alberi da frutto mettere come delle nuvolette bianche e rosee su questo piccolo mare vegetale, poi prati tutti in fiore per gli alti fieni sui quali pecorelle pascolanti paiono mucchietti di neve ammucchiata qua e là sul verde.

Proprio vicino al monte, sulle colline che ne sono la base, basse e brevi colline, sono due cittadine, una verso sud, una verso nord. La pianura fertilissima si estende specialmente e più ampiamente verso il sud.

Gesù, dopo una breve sosta al fresco di un ciuffo di alberi, certo concessa per pietà di Pietro che nelle salite fatica palesemente, riprende a salire. Va fin quasi sulla vetta, là dove è un pianoro erboso che ha un semicerchio di alberi verso la costa.

«Riposate, amici. Io vado là a pregare». E accenna con la mano ad un ampio sasso, una roccia che affiora dal monte e che si trova perciò non verso la costa ma verso l’interno, la vetta.

Gesù si inginocchia sulla terra erbosa appoggia le mani e il capo al masso, nella posa che prenderà anche nella preghiera del Getsemani. Il sole non lo colpisce perché la vetta lo ripara. Ma il resto dello spiazzo erboso è tutto lieto di sole, sino al limite d’ombra dello scrimolo alberato sotto il quale si sono seduti gli apostoli.

Pietro si leva i sandali e ne scuote via la polvere e sassolini e sta così, scalzo, coi piedi stanchi fra l’erba fresca, quasi steso, col capo su un ciuffo smeraldino che sporge più degli altri sulla sua zolla come un guanciale. Giacomo lo imita, ma per stare comodo cerca un tronco d’albero al quale appoggia il suo mantello e su questo le spalle. Giovanni resta seduto e osserva il Maestro. Ma la calma del luogo, il venticello fresco, il silenzio e la stanchezza vincono anche lui, e la testa gli si abbassa sul petto e così le palpebre sugli occhi. Non dormono profondamente nessuno dei tre, ma sono in quella sonnolenza estiva che intontisce.

Li scuote una luminosità così viva che annulla quella del sole e dilaga e penetra fin sotto il verde dei cespugli e alberi sotto cui si sono messi.

Aprono gli occhi stupiti e vedono Gesù trasfigurato. Egli è ora tale e quale come Lo vedo nelle visioni del Paradiso.

Naturalmente senza le Piaghe e senza il vessillo della Croce. Ma la maestà del Volto e del Corpo è uguale, uguale ne è la luminosità, e uguale la veste che da un rosso cupo si è mutata nel diamantifero e perlifero tessuto immateriale che Lo veste in Cielo. Il suo Viso è un sole dalla luce siderale ma intensissima, nel quale raggiano gli occhi di zaffiro.

Sembra più alto ancora, come la sua glorificazione ne avesse aumentato la statura. Non saprei dire se la luminosità, che rende persino fosforescente il pianoro, provenga tutta da Lui o se alla sua propria si mesca quella che ha concentrata sul suo Signore tutta la luce che è nell’universo e nei cieli. So che è qualche cosa di indescrivibile.

Gesù è ora in piedi, direi anzi che è alzato da terra, perché fra Lui e il verde del prato vi è come un vaporare di luce, uno spazio dato unicamente da una luce sul quale pare Egli si eriga. Ma è tanto viva che potrei anche ingannarmi, e il non vedere più il verde dell’erba sotto le piante di Gesù potrebbe esser provocato da questa luce intensa che vibra e fa onde come si vede talora nei grandi fuochi. Onde, qui, di un colore bianco, incandescente. Gesù sta col Volto alzato verso il cielo e sorride ad una sua visione che Lo sublima.

Gli apostoli ne hanno quasi paura e Lo chiamano, perché non pare più a loro che sia il loro Maestro tanto è trasfigurato.

«Maestro, Maestro», chiamano piano ma con ansia. Egli non sente.

«È in estasi» dice Pietro tremante. «Che vedrà mai?».

I tre si sono alzati in piedi. Vorrebbero accostarsi a Gesù, ma non osano.

La luce aumenta ancora per due fiamme che scendono dal cielo e si collocano ai lati di Gesù.

Quando sono stabilite sul pianoro, il loro velo si apre e ne appaiono due maestosi e luminosi personaggi. L’uno più anziano, dallo sguardo acuto e severo e da una lunga barba bipartita. Dalla sua fronte partono corni di luce che me lo indicano per Mosè.

L’altro è più giovane, scarno, barbuto e peloso, su per giù come il Battista, al quale direi assomiglia per statura, magrezza, conformazione e severità. Mentre la luce di Mosè è candida come è quella di Gesù, specie nei raggi della fronte, quella che emana Elia è solare, di fiamma viva.

I due Profeti prendono una posa di riverenza davanti al loro Dio Incarnato e, sebbene Questi parli loro con famigliarità, essi non abbandonano la loro posa riverente. Non comprendo neppure una delle parole dette.

I tre apostoli cadono a ginocchio tremanti, col volto fra le mani. Vorrebbero vedere, ma hanno paura.

Finalmente Pietro parla: «Maestro, Maestro. Odimi». Gesù gira lo sguardo con un sorriso verso il suo Pietro, che si rinfranca e dice: «È bello lo stare qui con Te, Mosè e Elia. Se vuoi facciamo tre tende per Te, per Mosè e per Elia, e noi stiamo qui a servirvi…».

Gesù lo guarda ancora e sorride più vivamente. Guarda anche Giovanni e Giacomo. Uno sguardo che li abbraccia con amore. Anche Mosè e Elia guardano i tre fissamente. I loro occhi balenano. Devono essere come raggi che penetrano i cuori.

Gli apostoli non osano dire altro. Intimoriti, tacciono. Sembrano un poco ebbri come chi è sbalordito. Ma quando un velo che non è nebbia, che non è nuvola, che non è raggio, avvolge e separa i Tre gloriosi dietro una schermo ancor più lucido di quello che già li circondava e li nasconde alla vista dei tre, e una Voce potente e armonica vibra ed empie di sé lo spazio, i tre cadono col volto contro l’erba.

«Questo è il mio Figliuolo diletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo».

Pietro nel gettarsi bocconi esclama: «Misericordia di me, peccatore! È la Gloria di Dio che scende!». Giacomo non fiata. Giovanni mormora con un sospiro, come fosse prossimo a svenire: «Il Signore parla!».

Nessuno osa alzare la testa anche quando il silenzio si è rifatto assoluto. Non vedono perciò neppure il tornare della luce alla sua naturalezza di luce solare e mostrare Gesù rimasto solo e tornato il Gesù solito nella sua veste rossa.

Egli cammina verso loro sorridendo e li scuote e tocca e chiama per nome.

«Alzatevi. Sono Io. Non temete» dice, perché i tre non osano alzare il volto e invocano misericordia sui loro peccati, temendo che sia l’Angelo di Dio che vuol mostrarli all’Altissimo.

«Levatevi, dunque. Ve lo comando» ripete Gesù con imperio. Essi alzano il volto e vedono Gesù che sorride.

«Oh! Maestro, Dio mio!» esclama Pietro. «Come faremo a viverti accanto ora che abbiamo visto la tua gloria? Come faremo a vivere fra gli uomini, e noi, uomini peccatori, ora che abbiamo udito la voce di Dio?».

«Dovrete vivermi accanto e vedere la mia gloria sino alla fine. Siatene degni perché il tempo è vicino. Ubbidite al Padre mio e vostro.

Torniamo ora fra gli uomini, perché sono venuto per stare fra essi e per portare essi a Dio. Andiamo. Siate santi per ricordo di quest’ora, forti, fedeli. Avrete parte alla mia più completa gloria. Ma non parlate ora di questo che avete visto ad alcuno. Neppure ai compagni. Quando il Figlio dell’Uomo sarà risuscitato dai morti e tornato nella gloria del Padre, allora parlerete. Perché allora occorrerà credere per avere parte nel mio Regno».

«Ma non deve venire Elia per preparare il tuo Regno? I rabbi dicono così».

«Elia è già venuto ed ha preparato le vie del Signore. Tutto avviene come è stato rivelato. Ma coloro che insegnano la Rivelazione non la conoscono e non la comprendono, e non vedono e riconoscono i segni dei tempi e i messi di Dio. Elia è tornato una volta. La seconda verrà quando il tempo ultimo sarà vicino per preparare gli ultimi a Dio. Ma ora è venuto per preparare i primi al Cristo, e gli uomini non lo hanno voluto riconoscere e lo hanno tormentato e messo a morte. Lo stesso faranno col Figlio dell’Uomo, perché gli uomini non vogliono riconoscere ciò che è loro bene».

I tre chinano la testa pensosi e tristi, e scendono per la via dalla quale sono saliti insieme a Gesù.

Ed è ancora Pietro che dice, in una sosta a mezza via:

«Ah! Signore! Dico anche io come tua Madre ieri: “Perché ci hai fatto questo?”; e anche dico: “Perché ci hai detto questo?”. Le tue ultime parole hanno cancellato la gioia della gloriosa vista dai nostri cuori! Gran giorno di paure questo! Prima ci ha fatto paura la grande luce che ci ha destati, più forte che se il monte ardesse o che se la luna fosse scesa a raggiare sul ripiano, sotto i nostri occhi; poi il tuo aspetto e il tuo staccarti dal suolo come fossi per volare via.

Ho avuto paura che Tu, disgustato dalle nequizie di Israele, te ne tornassi ai Cieli, magari per ordine dell’Altissimo. Poi ho avuto paura di vedere apparire Mosè, che i suoi del suo tempo non potevano più vedere senza velo tanto splendeva sul suo volto il riflesso di Dio, e ancora era uomo, mentre ora è spirito beato e acceso di Dio, e Elia… Misericordia divina!

Ho creduto essere giunto al mio ultimo momento, e tutti i peccati della mia vita, da quando rubavo le frutta nella dispensa da piccino, all’ultimo di averti mal consigliato giorni fa, mi sono venuti alla mente. Con che tremore me ne sono pentito! Poi mi parve che mi amassero quei due giusti… e ho osato parlare.

Ma anche il loro amore mi faceva paura, perché io non merito l’amore di simili spiriti. E dopo… e dopo! … La paura delle paure! La voce di Dio! … Geovè che ha parlato! A noi! Ci ha detto: “Ascoltatelo!”. Tu. E ti ha proclamato “suo Figlio diletto nel quale Egli si compiace”.

Che paura! Geovè!… a noi!… Certo solo la tua forza ci ha tenuti in vita! … Quando Tu ci hai toccato, le tue dita ardevano come punte di fuoco, io ho avuto l’ultimo spavento. Ho creduto che fosse l’ora di essere giudicato e che l’Angelo mi toccasse per prendermi l’anima e portarla all’Altissimo…

Ma come ha fatto tua Madre a vedere… a sentire… a vivere, insomma, quell’ora che Tu hai detto ieri, senza morire, Lei che era sola, giovanetta, senza di Te?».

«Maria, la Senza Macchia, non poteva avere paura di Dio. Eva non ne aveva paura finché fu innocente.  Ed Io c’ero. Io, il Padre e lo Spirito, Noi, che siamo in Cielo e in Terra e in ogni luogo, e che avevamo il nostro Tabernacolo nel cuore di Maria» dice dolcemente Gesù.

«Che cosa! Che cosa! … Ma dopo Tu hai parlato di morte… E ogni gioia è finita… Ma perché proprio a noi tre tutto questo? Non era bene darla a tutti questa visione della tua gloria?».

«Appunto perché tramortite udendo parlare di morte, e morte per supplizio, del Figlio dell’Uomo, l’Uomo-Dio vi ha voluto fortificare per quell’ora e per sempre con la precognizione di ciò che Io sarò dopo la Morte. Ricordatevi tutto questo, per dirlo a suo tempo… Avete capito?».

«Oh! sì, Signore. Non è possibile dimenticare. E sarebbe inutile raccontare. Ci direbbero “ebbri”».

Dice Gesù:

«Non ti eleggo soltanto a conoscere le tristezze del tuo Maestro e i suoi dolori. Chi sa stare meco nel dolore deve avere parte meco nella gloria”. E tu riposa, fedele, piccolo Giovanni, ché il tuo riposo è ben meritato. La mia pace sia gioia in te».

«Ti ho preparata a meditare la mia Gloria. Domani la Chiesa la celebra. Ma Io voglio che il mio piccolo Giovanni la veda nella sua verità per comprenderla meglio. Non ti eleggo soltanto a conoscere le tristezze del tuo Maestro e i suoi dolori. Chi sa stare meco nel dolore deve aver parte meco nella gioia.

Voglio che tu, davanti al tuo Gesù che ti si mostra, abbia gli stessi sentimenti di umiltà e pentimento dei miei apostoli.

Mai superbia. Saresti punita perdendomi.

Continuo ricordo di Chi sono Io e di chi sei tu.

Continuo pensiero alle tue manchevolezze e alla mia perfezione per avere un cuore lavato dalla contrizione.

Ma insieme anche tanta fiducia in Me.

Io ho detto: “Non temete. Alzatevi. Andiamo. Andiamo fra gli uomini perché sono venuto per stare con essi. Siate santi, forti e fedeli per ricordo di quest’ora”. Lo dico anche a te e a  tutti i miei prediletti fra gli uomini, a quelli che mi hanno in maniera speciale.

Non temete di Me. Mi mostro per elevarvi, non per incenerirvi.

Alzatevi: la gioia del dono vi dia vigoria e non vi ottunda nel sapore del quietismo, credendovi già salvi perché vi ho mostrato il Cielo.

Andiamo insieme fra gli uomini. Vi ho invitati a sovrumane opere con sovrumane visioni e lezioni perché possiate essermi di maggiore aiuto. Vi associo alla mia opera. Ma Io non ho conosciuto e non conosco riposo.

Perché il Male non riposa mai e il Bene deve essere sempre attivo per annullare il più che si può l’opera del Nemico. Riposeremo quando il Tempo sarà compiuto. Ora occorre andare instancabilmente, operare continuamente, consumarsi indefessamente per la messe di Dio.

Il mio contatto continuo vi santifichi, la mia lezione continua vi fortifichi, il mio amore di predilezione vi faccia fedeli contro ogni insidia.

Non siate come gli antichi rabbini che insegnavano la Rivelazione e poi non le credevano al punto da non riconoscere i segni dei tempi e i messi di Dio. Riconoscete i precursori del Cristo nel suo secondo avvento, poiché le forze dell’Anticristo sono in marcia, e, facendo eccezione alla misura che mi sono imposta, perché conosco che bevete a certe verità non per spirito soprannaturale ma per sete di curiosità umana, vi dico in verità che quello che molti crederanno vittoria sull’Anticristo, la pace ormai prossima, non sarà che sosta per dare tempo al nemico del Cristo di ritemprarsi, medicarsi le ferite, riunire il suo esercito per una più crudele lotta.

Riconoscete, voi che siete le “voci” di questo vostro Gesù, del Re dei Re, del Fedele e Verace che giudica e combatte con giustizia e sarà il Vincitore della Bestia e dei suoi servi e profeti, riconoscete il vostro Bene e seguitelo sempre.

Nessun bugiardo aspetto vi seduca e nessuna persecuzione vi atterri. La vostra “voce” dica le mie parole. La vostra vita sia per quest’opera. E se avrete sorte, sulla terra, comune al Cristo, al suo Precursore e ad Elia, sorte cruenta o sorte tormentata da sevizie morali, sorridete alla vostra sorte futura e sicura che avrete comune con Cristo, con il suo Precursore, col suo Profeta.

Pari nel lavoro, nel dolore e nella gloria. Qui Io Maestro ed Esempio. Là Io Premio e Re.

Avermi sarà la vostra beatitudine. Sarà dimenticare il dolore. Sarà quanto ogni rivelazione è ancora insufficiente a farvi capire, perché troppo superiore è la gioia della vita futura alla possibilità di immaginare della creatura ancora unita alla carne».

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

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