XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C Lc 16,19-31

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 16,19-31)
Gesù disse ai farisei:
«C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.
Ma Abramo rispose: “Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.
E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”». Parola del Signore.

RIFLESSIONI

Con questa parabola Gesù ci richiama l’irreparabile eternità delle pene dell’inferno. È un discorso duro, ma viene dalle labbra di Gesù. Il ricco Epulone, che durante la vita terrena non ha praticato la carità, soffre irrimediabilmente nell’oltrevita. Egli, come i suoi fratelli, conosceva la legge e le profezie che specificano i modi della giustizia divina: forse riteneva che per lui si sarebbe fatta un’eccezione, e invece tutto si compie alla lettera. Siamo avvertiti anche noi: non possiamo edulcorare la legge di Cristo, affidarci a una “misericordia” che non trovi corrispettivo nella nostra carità. Finché siamo quaggiù abbiamo tempo per compiere il bene, e in tal modo guadagnarci la felicità eterna: poi sarà troppo tardi. Gesù dà un senso anche alle sofferenze di Lazzaro: le ingiustizie terrene saranno largamente compensate nell’altra vita, l’unica che conta. Abbiamo il dovere di far conoscere a tutti, cominciando dalle persone che amiamo, la logica della giustizia divina: e questa è la forma più squisita della carità.

 

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta Capitolo 191

“Consegna a Michea tanto denaro che domani egli possa ricompensare quanto oggi si è fatto prestare dai contadini di questa zona”, dice Gesù a Giuda Iscariota, che generalmente amministra le… sostanze comuni.

E poi Gesù chiama Andrea e Giovanni e li manda in due punti in cui si può vedere la strada o le strade che vengono da Jezrael. Chiama poi Pietro e Simone e li manda incontro ai contadini di Doras con l’ordine di fermarli presso il confine fra le due proprietà. Infine dice a Giacomo e Giuda: “Prendete le cibarie e venite”.

Li seguono i contadini di Giocana, donne, uomini e bambini, e gli uomini portano due piccole anfore, piccole per modo di dire, che devono essere colme di vino. Più che anfore sono giarre e conterranno su per giù quei dieci litri ognuna. Vanno là dove un folto vigneto, già tutto coperto di foglie novelle, indica la fine dei possessi di Giocana. Oltre vi è un largo fossato, mantenuto pieno d’acqua con chissà che fatica.

Gesù ascolta con benignità le confidenze di alcuni che lamentano le angherie di Doras e intanto attende i poveri contadini di Doras, che non tardano a venire e che si prostrano al suolo non appena vedono Gesù al riparo di un albero.

“Pace a voi, amici. Venite. Oggi la sinagoga è qui ed Io sono il vostro sinagogo. Ma prima voglio essere il vostro padre di famiglia. Sedete in cerchio, che vi dia un cibo. Oggi avete lo Sposo, e facciamo convito di nozze”.

E Gesù scopre una cesta e ne trae pani che dà agli stupiti contadini di Doras, e dall’altra leva quelle cibarie che ha potuto trovare: formaggi, verdure che ha fatto cucinare e un piccolo caprettino o agnellino, cotto intero, che spartisce ai poveri disgraziati, poi versa il vino e fa circolare il rozzo calice perché tutti bevano.

“Ma perché? Ma perché? E loro?”, dicono quelli di Doras accennando a quelli di Giocana.

“Loro hanno già avuto”.

“Ma che spesa! Come hai potuto?”.

“Ci sono ancora dei buoni in Israele”, dice Gesù sorridendo.

“Ma oggi è sabato…”.

“Ringraziate quest’uomo”, dice Gesù accennando all’uomo di Endor. “È lui che ha procurato l’agnello. Il resto fu facile averlo”.

Quei poveretti divorano -è la parola- il cibo da tanto sconosciuto. Vi è uno, piuttosto vecchio, che si stringe al fianco un fanciullo di un dieci anni circa; mangia e piange.

“Perché, padre, fai così?…”, chiede Gesù.

“Perché la tua bontà è troppa…”.

L’uomo di Endor dice con la sua voce gutturale: “È vero… e fa piangere. Ma il pianto è senza amaro…”.

“È senza amaro. È vero. E poi… io vorrei una cosa. È anche desiderio questo pianto”.

“Che vuoi, padre?”.

“Questo fanciullo lo vedi? È mio nipote. Mi è rimasto dopo la frana di questo inverno. Doras neppure sa che mi ha raggiunto, perché lo faccio vivere come una bestia selvatica nel bosco e solo al sabato lo vedo. Se me lo scopre, o lo caccia o lo mette al lavoro… e sarà peggio di un animale da soma questo tenero mio sangue… A Pasqua lo manderò con Michea a Gerusalemme per divenire figlio della Legge… e poi?… È il figlio di mia figlia…”.

“Lo daresti a Me, invece? Non piangere. Ho tanti amici che sono onesti, santi e senza figli. Lo alleveranno santamente, nella mia via…”.

“Oh! Signore! Da quando ho saputo di Te l’ho desiderato. E pregavo il santo Giona, lui che sa cosa è essere di questo padrone, di salvare il mio nipote da questa morte…”.

“Fanciullo, verresti con Me?”.

“Sì, mio Signore. E non ti darò dolore”.

“È detto”.

“Ma… a chi lo vuoi dare?”, chiede Pietro tirando Gesù per una manica. “A Lazzaro anche questo?”.

“No, Simone. Ma ce ne sono tanti senza figli…”.

“Ci sono anche io…”. Il viso di Pietro pare fino affilarsi nel desiderio.

Simone, te l’ho detto. Tu devi essere il “padre” di tutti i figli che Io ti lascerò in eredità. Ma non devi avere la catena di nessun figlio tuo proprio. Non ti mortificare. Tu sei troppo necessario al Maestro perché il Maestro possa staccarti da Sé per un affetto. Sono esigente, Simone. Sono esigente più di uno sposo gelosissimo. Ti amo con ogni predilezione e ti voglio tutto per Me e di Me”.

“Va bene, Signore… Va bene… Sia fatto come Tu vuoi”. Il povero Pietro è eroico nel suo aderire a questa volontà di Gesù.

«Sarà il figlio della mia nascente Chiesa. Va bene? Di tutti e di nessuno. Sarà il “nostro” bambino. Ci seguirà quando lo permetteranno le distanze, o ci raggiungerà, e suoi tutori saranno i pastori, loro che amano nei bambini tutti il “loro” bambino Gesù. Vieni qui, fanciullo. Come ti chiami?”.

“Jabé di Giovanni, e son di Giuda”, dice sicuro il ragazzo.

“Sì. Siamo giudei noi”, conferma il vecchio. “Io lavoravo nelle terre di Doras in Giudea, e mia figlia si è sposata con uno di quelle parti. Lavorava ai boschi presso Arimatea e quest’in-verno…”.

“Ho visto la sventura”.

“Il fanciullo si è salvato perché quella notte era da un parente lontano… Veramente si è portato il nome, Signore! L’ho detto subito a mia figlia: “Perché? Non ricordi l’antico?”. Ma il marito volle chiamarlo così, e Jabé fu”.

“Il fanciullo invocherà il Signore e il Signore lo benedirà e dilaterà i suoi confini, e la mano del Signore è sulla sua mano, ed egli non sarà più oppresso dal male”. Questo gli concederà il Signore per consolare te, padre, gli spiriti dei morti, e confortare l’orfano.

Ed ora che abbiamo separato il bisogno del corpo da quello dell’anima con un atto di amore al fanciullo, ascoltate la parabola che ho pensata per voi.

Vi era un tempo un uomo molto ricco. Le vesti più belle erano le sue, e nei suoi abiti di porpora e di bisso si pavoneggiava nelle piazze e nella sua casa, riverito dai cittadini come il più potente del paese, e dagli amici che lo secondavano nella sua superbia per averne utile.

Le sue sale erano aperte ogni giorno in splendidi banchetti in cui la folla degli invitati, tutti ricchi, e perciò non bisognosi, si pigiavano adulando il ricco Epulone. I suoi banchetti erano celebri per abbondanza di cibi e di vini prelibati.

Ma nella stessa città vi era un mendico, un grande mendico. Grande nella sua miseria come l’altro era grande nella sua ricchezza. Ma sotto la crosta della miseria umana del mendico Lazzaro vi era celato un tesoro ancor più grande della miseria di Lazzaro e della ricchezza dell’Epulone. Ed era la santità vera di Lazzaro.

Egli non aveva mai trasgredito alla Legge, neppure sotto la spinta del bisogno, e soprattutto aveva ubbidito al precetto dell’amore verso Dio e verso il prossimo.

Egli, come sempre fanno i poveri, si accostava alle porte dei ricchi per chiedere l’obolo e non morire di fame. E andava ogni sera alla porta dell’Epulone sperando averne almeno le briciole dei pomposi banchetti che avvenivano nelle ricchissime sale. Si sdraiava sulla via, presso la porta, e paziente attendeva.

Ma se l’Epulone si accorgeva di lui lo faceva scacciare, perché quel corpo coperto di piaghe, denutrito, in vesti lacere, era una vista troppo triste per i suoi convitati. L’Epulone diceva così. In realtà era perché quella vista di miseria e di bontà era un rimprovero continuo per lui.

Più pietosi di lui erano i suoi cani, ben pasciuti, dai preziosi collari, che si accostavano al povero Lazzaro e gli leccavano le piaghe, mugolando di gioia per le sue carezze, e giungevano a portargli gli avanzi delle ricche mense, per cui Lazzaro sopravviveva alla denutrizione per merito degli animali, perché per mezzo dell’uomo sarebbe morto, non concedendogli l’uomo neppure di penetrare nella sala dopo il convito per raccogliere le briciole cadute dalle mense.

Un giorno Lazzaro morì. Nessuno se ne accorse sulla Terra, nessuno lo pianse. Anzi ne giubilò l’Epulone di non vedere quel giorno né poi quella miseria che egli chiamava “obbrobrio” sulla sua soglia. Ma in Cielo se ne accorsero gli Angeli. E al suo ultimo anelito, nella sua tana fredda e spoglia, erano presenti le coorti celesti, che in un folgoreggiare di luci ne raccolsero l’anima portandola con canti di osanna nel seno di Abramo.

Passò qualche tempo e morì l’Epulone. Oh! che funerali fastosi! Tutta la città, che già sapeva della sua agonia e che si pigiava sulla piazza dove sorgeva la sua dimora per essere notata come amica del grande, per curiosità, per interesse presso gli eredi, si unì al cordoglio, e gli ululi salirono al cielo e con gli ululi del lutto le lodi bugiarde al “grande”, al “benefattore”, al “giusto” che era morto.

Può parola d’uomo mutare il giudizio di Dio? Può apologia umana cancellare quanto è scritto sul libro della Vita? No, non può. Ciò che è giudicato è giudicato, e ciò che è scritto è scritto. E, nonostante i funerali solenni, l’Epulone ebbe lo spirito sepolto nell’inferno.

Allora, in quel carcere orrendo, bevendo e mangiando fuoco e tenebre, trovando odio e torture in ogni dove e in ogni attimo di quella eternità, alzò lo sguardo al Cielo. Al Cielo che aveva visto in un bagliore di folgore, in un atomo di minuto, e la cui non dicibile bellezza gli rimaneva presente ad essere tormento fra i tormenti atroci.

E vide lassù Abramo. Lontano, ma fulgido, beato… e nel suo seno, fulgido e beato pure egli, era Lazzaro, il povero Lazzaro un tempo spregiato, repellente, misero, ed ora?… Ed ora bello della Luce di Dio e della sua santità, ricco dell’amore di Dio, ammirato non dagli uomini ma dagli Angeli di Dio.

Epulone gridò piangendo: “Padre Abramo, abbi pietà di me! Manda Lazzaro, poiché non posso sperare che tu stesso lo faccia, manda Lazzaro ad intingere la punta del suo dito nell’acqua e a posarla sulla mia lingua per rinfrescarla, perché io spasimo per questa fiamma che mi penetra di continuo e mi arde!”.

Abramo rispose: “Ricordati, figlio, che tu avesti tutti i beni in vita, mentre Lazzaro ebbe tutti i mali. E lui seppe del male fare un bene, mentre tu non sapesti dei tuoi beni fare nulla che male non fosse. Perciò è giusto che ora lui sia qui consolato e che tu soffra. Inoltre non è più possibile farlo.

I Santi sono sparsi sulla Terra perché gli uomini di loro se ne avvantaggino. Ma quando, nonostante ogni vicinanza, l’uomo resta quello che è -nel tuo caso, un demonio- è inutile poi ricorrere ai Santi.

Ora noi siamo separati.

Le erbe sul campo sono mescolate. Ma una volta che sono falciate vengono separate dalle buone le malvagie. Così è di voi e di noi. Fummo insieme sulla Terra e ci cacciaste, ci tormentaste in tutti i modi, ci dimenticaste, contro l’amore. Ora siamo divisi. Tra voi e noi c’è un tale abisso che quelli che vogliono passare da qui a voi non possono, né voi, che lì siete, potete valicare l’abisso tremendo per venire a noi”.

Epulone piangendo più forte gridò: “Almeno, o padre santo, manda -io te ne prego-, manda Lazzaro a casa di mio padre. Ho cinque fratelli. Non ho mai capito l’amore neppure fra parenti. Ma ora, ora comprendo cosa è di terribile essere non amati.

E, poi che qui dove io sono è l’odio, ora ho capito, per quell’atomo di tempo che vide la mia anima Iddio, cosa è l’Amore. Non voglio che i miei fratelli soffrano le mie pene. Ho terrore per loro che fanno la mia stessa vita. Oh! manda Lazzaro ad avvertirli di dove io sono, e perché ci sono, e a dire loro che l’inferno è, ed è atroce, e che chi non ama Dio e il prossimo all’inferno viene.

Mandalo! Che in tempo provvedano, e non abbiano a venire qui, in questo luogo di eterno tormento”.

Ma Abramo rispose: “I tuoi fratelli hanno Mosè ed i Profeti. Ascoltino quelli”.

E con gemito di anima torturata rispose l’Epulone: “Oh! padre Abramo! Farà loro più impressione un morto… Ascoltami! Abbi pietà!”.

Ma Abramo disse: “Se non hanno ascoltato Mosè ed i Profeti, non crederanno nemmeno ad uno che risusciti per un’ora dai morti per dire loro parole di Verità. E d’altronde non è giusto che un beato lasci il mio seno per andare a ricevere offese dai figli del Nemico. Il tempo delle ingiurie per esso è passato. Ora è nella pace e vi sta, per ordine di Dio che vede l’inutilità di un tentativo di conversione presso coloro che non credono neppure alla Parola di Dio e non la mettono in pratica”.

Questa la parabola, il cui significato è così chiaro da non meritare neppure una spiegazione.

Qui veramente è vissuto conquistando la santità il Lazzaro novello, il mio Giona, la cui gloria presso Dio è palese nella protezione che dà a chi spera in Lui. A voi sì che Giona può venire, protettore e amico, e ci verrà se sarete sempre buoni.

Io vorrei, e dico a voi ciò che dissi a lui la scorsa primavera, Io vorrei potervi tutti aiutare, anche materialmente, ma non posso, ed è il mio dolore. Non posso che additarvi il Cielo. Non posso che insegnarvi la grande sapienza della rassegnazione promettendovi il Regno futuro.

Non odiate mai, per nessuna ragione. L’Odio è forte nel mondo. Ma ha sempre un limite l’Odio. L’Amore non ha limite di potenza né di tempo. Amate perciò, per possederlo a difesa e conforto sulla Terra e a premio in Cielo. Meglio essere Lazzari che Epuloni, credetelo. Giungete a crederlo e sarete beati.

Non sentite nel castigo di questi campi una parola d’odio, anche se i fatti lo potevano giustificare. Non leggete male nel miracolo. Io sono l’Amore e non avrei colpito. Ma, visto che l’Amore non poteva piegare l’Epulone crudele, l’ho abbandonato alla Giustizia, ed essa ha fatto le vendette del martire Giona e dei suoi fratelli.

Voi imparate questo dal miracolo. Che la Giustizia è sempre vigile anche se pare assente e che, essendo Dio Padrone di tutto il creato, si può servire, per l’applicazione di essa, dei minimi quali i bruchi e le formiche per mordere il cuore del crudele e dell’avido e farlo morire in un rigurgito di veleno che lo strozza.

 

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C Lc 16,1-13

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 16,1-13)
Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”.
L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”.
Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”.
Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.
Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza». Parola del Signore.

Forma breve

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 16, 10-13)
Gesù diceva ai discepoli: «Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza». Parola del Signore.

RIFLESSIONI

Vi è prima una parabola e poi una serie di ammonimenti che commentano un elemento della parabola stessa e cioè l’uso del denaro. La parabola, come è ovvio, non loda il fattore perché è disonesto, ma perché ha la chiarezza e la decisione di imboccare l’unica via di salvezza che gli si prospetta. Si sa che l’arte di cavarsela è molto applicata nelle ambigue imprese di questo mondo. Lo è molto meno nella grande impresa della salvezza eterna. Perciò Gesù ci rimprovera di essere più pronti a salvarci dai mali mondani che dal male eterno, lui che da parte sua ha fatto di tutto perché fossimo salvati, fino a salire in croce per noi. Non ci decidiamo a credere che, se non portiamo il nostro peccato davanti a Dio, siamo perduti. Cominciamo le nostre Messe confessando i peccati che abbiamo commessi, ma usciti di chiesa ricominciamo a parlare di quelli altrui.
Un “test” decisivo dell’autenticità della nostra decisione cristiana è proprio l’uso del denaro.
Non è disonesta la ricchezza in sé, né maledizione la ricchezza esteriore. Ma lo è la ricchezza come idolo, innamoramento e progetto, come deformazione interiore del cuore e della mente, che vogliono a tutti i costi essere produttori di potenza e quindi di potere economico.
Occorre decidersi a scegliere: o mammona o Dio; cioè: o essere il signore per signoreggiare o servire il Signore e godere della sua onnipotenza d’amore.
C’è un solo modo di liberarsi dalla schiavitù della ricchezza: farsi “amici” per mezzo di ciò che si ha, cioè con l’impegno della solidale condivisione.

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato”
di Maria Valtorta
Capitolo 381

Molta folla è in attesa del Maestro ed è sparsa per le pendici più basse di un monte piuttosto isolato, perché emergente da un intreccio di valli che lo circondano e dalle quali le sue pendici sorgono, meglio, balzano dirute, a picco quasi, in certi posti proprio a picco. Per giungere alla cima, un sentiero intagliato nella roccia calcarea graffia le coste del monte con una serpentina, che in certi posti ha per confine da un lato la parete diritta del monte, dall’altro il precipizio che scoscende.

La gente si è accampata su questi e attende paziente la venuta del Signore. Deve essere il giorno seguente al discorso agli apostoli, perché è fresca mattina e la rugiada non si è ancora evaporata su tutti gli steli.

L’apparizione di Gesù, bianco-vestito di lino ma ammantellato del rosso mantello per conciliare il caldo delle ore solari col fresco delle notti non ancora estive, è subitanea. Egli guarda, non visto, la gente che Lo attende, e sorride. Pare provenire dal dietro (ovest) del monte, da una mezza altezza, e scende rapido per il sentieruolo difficile.

Inizia a parlare.

«Bello sarebbe se l’uomo fosse perfetto come lo vuole il Padre dei Cieli. Perfetto in ogni suo pensiero, affetto, atto. Ma l’uomo non sa essere perfetto e usa male i doni di Dio, il quale ha dato all’uomo libertà di agire, comandando, però, le cose buone, consigliando le perfette, acciò l’uomo non potesse dire: “Io non sapevo”.

Come usa l’uomo della libertà che Dio gli ha data?

Come potrebbe usarne un bambino nella gran parte dell’umanità, o come uno stolto, o anche come un delinquente, nelle altre parti. Ma poi viene la morte, e allora l’uomo è soggetto al Giudice che chiederà severo: “Come usasti e abusasti di ciò che ti avevo dato?”.

Tremenda domanda!

Come allora men che festuche di paglia appariranno i beni della Terra, per i quali così spesso l’uomo si fa peccatore! Povero di una miserabilità eterna, nudo di una veste che nulla può surrogare, starà avvilito e tremante davanti alla maestà del Signore, né troverà parola per giustificarsi.

Perché sulla terra è facile giustificarsi, ingannando i poveri uomini. Ma in Cielo ciò non può accadere. Dio non si inganna. Mai. E Dio non scende a compromessi. Mai. Come allora salvarsi?

Come fare servire tutto a salvezza, anche ciò che è venuto dalla corruzione che ha insegnato i metalli e le gemme come strumenti di ricchezza, che ha acceso smanie di potere e appetiti di carne?

Non potrà allora l’uomo, che per povero che sia può sempre peccare desiderando smoderatamente oro, cariche e donne -e talora diviene ladro di queste cose per avere ciò che il ricco aveva- non potrà allora l’uomo, ricco o povero che sia, salvarsi mai? Sì che può. E come?

Sfruttando le dovizie per il Bene, sfruttando la miseria per il Bene.

Il povero che non invidia, non impreca e non attenta a ciò che è d’altri, ma di ciò che ha si contenta, sfrutta il suo umile stato per averne santità futura e, in verità, la maggioranza dei poveri sa fare questo. Meno lo sanno fare i ricchi, per i quali la ricchezza è un continuo tranello di satana, della triplice concupiscenza.

Ma udite una parabola e vedrete che anche i ricchi possono salvarsi pur essendo ricchi, o riparare ai loro errori passati coll’uso buono delle ricchezze anche se male acquistate. Perché Dio, il Buonissimo, lascia sempre molti mezzi ai suoi figli perché si salvino.

C’era dunque un ricco il quale aveva un fattore. Alcuni, nemici di questo perché invidiosi del buon posto che aveva, oppure molto amici del ricco e perciò premurosi del suo benessere, accusarono il fattore al suo padrone: “Egli dissipa i tuoi beni. Se ne appropria. Oppure trascura di farli fruttare. Sta attento! Difenditi!”.

Il ricco, udite le ripetute accuse, comandò al fattore di comparirgli davanti. E gli disse:

“Di te mi è stato detto questo e quello. Come mai hai agito in tal modo? Dammi il rendiconto della tua amministrazione perché non ti permetto più di tenerla. Non posso fidarmi di te e non posso dare un esempio di ingiustizia e di indifferenza che indurrebbe i conservi ad agire come tu hai agito. Va e torna domani con tutte le scritture, che io le esamini per rendermi conto della posizione dei miei beni prima di darli ad un nuovo fattore”.

E licenziò il fattore, che se ne andò pensieroso dicendo fra sé:

“E ora? Come farò ora che il padrone mi leva la fattoria? Economie non ne ho perché, persuaso come ero di farla franca, tanto usurpavo tanto godevo. Mettermi come contadino e sottoposto non mi va perché sono disusato al lavoro e appesantito dai bagordi. Chiedere l’elemosina mi va meno ancora. Troppo avvilimento! E che farò?”.

Pensa e pensa, trovò modo di uscire dalla penosa situazione. Disse:

“Ho trovato! Con lo stesso mezzo come mi sono assicurato un bel vivere fino ad ora, d’ora in poi mi assicurerò amici che mi ospiteranno per riconoscenza quando non avrò più la fattoria. Chi benefica ha sempre amici. Andiamo dunque a beneficare per essere beneficato e andiamoci subito, prima che la notizia si sparga e sia troppo tardi”.

E andato dai diversi debitori del suo padrone disse al primo:

“Quanto devi tu al mio padrone per la somma che ti prestò alla primavera di tre anni fa?”.

E l’interrogato rispose: “Cento barili d’olio per la somma e gli interessi”.

“Oh! poverino! Tu, così carico di prole, tu afflitto da malattie nei figli, dover dare tanto?! Ma non ti dette per un valore di trenta barili?”.

“Sì. Ma avevo bisogno subito e lui mi disse: ‘Te lo do. Ma a patto che tu mi dia quanto la somma ti frutta in tre anni’. Mi ha fruttato per un valore di cento barili. E li devo dare”.

“Ma è un’usura! No. No. Lui è ricco e tu sei appena fuori della fame. Lui è con poca famiglia e tu con tanta. Scrivi che ti ha fruttato per cinquanta barili e non ci pensare più. Io giurerò che ciò è vero. E tu avrai benessere”.

“Ma non mi tradirai? Se lo viene a sapere?”.

“Ti pare? Io sono il fattore, e ciò che giuro è sacro. Fa come ti dico e sii felice”.

L’uomo scrisse, consegnò e disse: “Te benedetto! Mio amico e salvatore! Come compensarti?”.

“Ma in nessun modo! Vuol dire che, se per te avessi a soffrire ed essere cacciato, tu mi accoglierai per riconoscenza”.

“Ma certo! Certo! Contaci pure”.

Il fattore andò da un altro debitore, tenendo su per giù lo stesso discorso. Costui doveva rendere cento staia di grano, perché per tre anni la secca aveva distrutto le sue biade e aveva dovuto chiederne al ricco per sfamare la famiglia.

“Ma non ci pensare a raddoppiare ciò che ti ha dato! Negare il grano! Esigerne il doppio da uno che ha fame e figli, mentre il suo tarla nei granai perché ce ne è in esuberanza! Scrivi ottanta staia”.

“Ma se si ricorda che me ne ha date venti e venti e poi dieci?”.

“Ma che vuoi che ricordi? Io te li ho dati e io non voglio ricordare. Fa, fa così e mettiti a posto. Giustizia ci vuole fra poveri e ricchi! Io già, se ero io il padrone, volevo solo le cinquanta staia e forse condonavo anche quelle”.

“Tu sei buono. Fossero tutti come te! Ricordati che la mia casa ti è amica”.

Il fattore andò da altri, tenendo lo stesso metodo, professandosi pronto a soffrire per rimettere le cose a posto con giustizia. E offerte di aiuti e benedizioni piovvero su lui.

Rassicurato sul domani, andò tranquillo dal padrone, il quale a sua volta aveva pedinato il fattore e scoperto il suo giuoco. Pure lo lodò dicendo:

“La tua azione non è buona e per essa non ti lodo. Ma lodarti devo per la tua accortezza. In verità, in verità i figli del secolo sono più avveduti dei figli della luce”.

E ciò che disse il ricco Io pure vi dico:

“La frode non è bella, e per essa Io non loderò mai nessuno. Ma vi esorto ad essere, almeno come figli del secolo, avveduti con i mezzi del secolo, per farli usare a monete per entrare nel regno della Luce”.

Ossia con le ricchezze terrene, mezzi ingiusti nella ripartizione e usati per l’acquisto di un benessere transitorio che non ha valore nel Regno eterno, fatevene degli amici che vi aprano le porte di esso. Beneficate coi mezzi che avete, restituite quello che voi, o altri della vostra famiglia, hanno preso senza diritto, distaccatevi dall’affetto malato e colpevole per le ricchezze.

E tutte queste cose saranno come amici che nell’ora della morte vi apriranno le porte eterne e vi riceveranno nelle dimore beate.

Come potete esigere che Dio vi dia i suoi beni paradisiaci se vede che non sapete fare buon uso neppure dei beni terrestri?

Volete che, per un impossibile supposto, ammetta nella Gerusalemme celeste elementi dissipatori? No, mai. Lassù si vivrà con carità e con generosità e giustizia. Tutti per Uno e tutti per tutti. La comunione dei Santi è società attiva e onesta, è santa società. E nessuno che abbia mostrato di essere ingiusto e infedele può entrarvi.

Non dite: “Ma lassù saremo fedeli e giusti perché lassù tutto avremo senza temere nulla”. No.

Chi è infedele nel poco sarebbe infedele anche se il Tutto possedesse, e chi è ingiusto nel poco ingiusto è nel molto.

Dio non affida le vere ricchezze a chi nella prova terrena mostra di non sapere usare delle ricchezze terrene. Come può Dio affidarvi un giorno in Cielo la missione di spiriti sostenitori dei fratelli sulla terra, quando avete mostrato che carpire e frodare, o conservare con avidità, è la vostra prerogativa?

Vi negherà perciò il vostro tesoro, quello che per voi aveva conservato, dandolo a quelli che seppero essere avveduti sulla terra, usando anche ciò che è ingiusto e malsano in opere che giusto e sano lo fanno.

Nessun servo può servire due padroni. Perché o dell’uno o dell’altro sarà, o l’uno o l’altro odierà. I due padroni che l’uomo può scegliere sono Dio o Mammona. Ma se vuole essere del primo non può vestire le insegne, seguire le voci, usare i mezzi del secondo».

 

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C Beata Vergine Maria Addolorata

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Luca. (Lc 15,1-32)
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”». Parola del Signore.

Forma breve

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Luca. (Lc 15, 1-1)
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte». Parola del Signore

RIFLESSIONI
“Si avvicinarono a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: Costui riceve i peccatori e mangia con loro. Allora egli disse loro questa parabola…” (Lc 15,1-2).
A un uditorio di mormoratori Gesù racconta le tre parabole dei perduti ritrovati. Quale nuova idea di Dio ci rivelano? Tra tutte le parabole sono indubbiamente le più sconvolgenti perché ci insegnano anzitutto che Dio si interessa di ciò che è perduto e che prova grande gioia per il ritrovamento di ciò che è perduto. Inoltre, Dio affronta le critiche per stare dalla parte del perduto: il padre affronta l’ira del figlio maggiore con amore, con pace, senza scusarsi. Gesù affronta le critiche fino a farsi calunniare, critiche che si riproducono continuamente e quasi infallibilmente. Perché tutte le volte che la Chiesa si ripropone l’immagine di Dio che cerca i perduti, nasce il disagio. E ancora, Dio si interessa anche di un solo perduto. Le parabole della pecorella perduta e della donna che fatica tanto per una sola dramma perduta, hanno del paradossale per indicare il mistero di Dio che si interessa anche di uno solo perduto, insignificante, privo di valore, da cui non c’è niente di buono da ricavare. Ciò non significa evidentemente che dobbiamo trascurare i tanti, però è un’immagine iperbolica dell’incomprensibile amore del Signore. Per questo l’etica cristiana arriva a vertici molto esigenti, che non sempre comprendiamo perché non riusciamo a farci un’idea precisa della dignità assoluta dell’uomo in ogni fase e condizione della sua vita.

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta Capitolo 205

La gente si è affollata sulla via. Gesù si trova a Magdala e inizia a parlare:

«Una donna aveva dieci dramme nella sua borsa. Ma in un movimento la borsa le cadde dal seno, aprendosi, e le monete ruzzolarono per terra. Ella le raccolse con l’aiuto delle vicine presenti e le contò. Erano nove. La decima era introvabile. Da­to che era prossima la sera e la luce mancava, la donna accese la lampada, la posò al suolo e presa una scopa si dette a scopa­re attentamente per vedere se era ruzzolata lontano dal luogo dove era caduta. Ma la dramma non si trovava. Le amiche se ne andarono stanche di ricerche.

La donna spostò allora il cassapanco, la scansia, il cofano pesante, smosse le anfore e gli or­cioli posati nella nicchia del muro. Ma la dramma non si trova­va. Allora si pose carponi e cercò nel mucchio delle spazzature, messo contro la porta di casa, per vedere se la dramma era ro­tolata fuori di casa mescolandosi agli avanzi delle verdure. E trovò infine la dramma tutta sporca, sepolta quasi dalle spaz­zature ricadute su di essa.

La donna giubilante la prese, la lavò, l’asciugò. Era più bel­la di prima, ora. E la mostrò alle vicine che chiamò di nuovo a gran voce, e che si erano ritirate dopo averla aiutata nelle pri­me ricerche, dicendo:

“Ecco! Vedete? Voi mi consigliavate di non faticare più. Ma io ho insistito e ho ritrovato la dramma perduta. Rallegratevi perciò con me che non ho avuto il dolore di perdere uno solo dei miei tesori”.

Anche il Maestro vostro, e con Lui i suoi apostoli, fa come la donna della parabola. Egli sa che un movimento può far ca­dere un tesoro.

Ogni anima è un tesoro e satana, che è astioso di Dio, provoca i mal movimenti per fare cadere le povere anime.

C’è chi nella caduta si ferma presso la borsa, ossia va poco lontano dalla Legge di Dio che raccoglie le anime nella salva­guardia dei Comandamenti.

È c’è chi va più lontano, ossia si allontana più ancora da Dio e dalla sua Legge.

C’è infine chi rotola fino nelle spazzature, nelle lordure, nel fango. E là fini­rebbe a perire con l’essere arso nei fuochi eterni, così come le immondezze vengono arse in luoghi acconci.

Il Maestro lo sa e cerca instancabile le monete perdute. Le cerca in ogni luogo, con amore.

Sono i suoi tesori. E non si stanca e non si ripugna di nulla. Ma fruga, fruga, smuove, spazza, finché trova. E trovato che abbia, lava l’anima ritrova­ta col suo perdono e chiama gli amici, tutto il Paradiso e tutti i buoni della Terra, e dice: “Rallegratevi con Me perché ho tro­vato ciò che si era smarrito, ed è più bello di prima perché il mio perdono lo fa nuovo”.

In verità vi dico che si fa molta festa in Cielo e giubilano gli Angeli di Dio e i buoni della Terra per un peccatore che si con­verte.

In verità vi dico che non c’è cosa più bella delle lacrime del pentimento. In verità vi dico che solo i demoni non sanno, non possono giubilare per questa conversione che è un trionfo di Dio. E anche vi dico che il modo come un uomo accoglie la conversione di un peccatore è misura della sua bontà e della sua unione con Dio. La pace sia con voi».

La gente capisce la lezione e guarda la Maddalena, venuta a sedersi sulla porta con il poppante fra le braccia, forse per darsi un contegno, e sfolla lentamente rimanendo solo la pa­drona della casetta e la madre sua sopraggiunta coi bambini. Manca Beniamino, ancora a scuola.

“Giovanni di Endor, vieni qui con Me. Ti devo parlare”, dice Gesù affacciandosi sull’uscio.

L’uomo accorre lasciando il bambino al quale insegnava qualcosa. “Che mi vuoi dire, Maestro?”, chiede.

“Vieni con Me qui sopra”.

Salgono sulla terrazza e si siedono dalla parte più riparata perché, per quanto sia mattina, il sole è già forte. Gesù gira lo sguardo sulla campagna coltivata, in cui i grani di giorno in giorno divengono d’oro e gli alberi gonfiano le loro frutta. Pare volere attingere il pensiero da quella metamorfosi vegetale.

“Senti, Giovanni. Oggi Io credo che verrà Isacco per condurmi i contadini di Giocana prima della loro partenza. Ho detto a Lazzaro di prestare a Isacco un carro per fare loro accelerare il ritorno senza tema di giungere con un ritardo che provocherebbe loro un castigo. E Lazzaro lo fa. Perché Lazzaro fa tutto ciò che Io dico.

Ma da te Io voglio un’altra cosa. Ho qui una somma che mi è stata data da una creatura per i poveri del Signore. Generalmente è un mio apostolo l’incaricato di tenere le monete e di dare gli oboli. È Giuda di Keriot generalmente; qualche volta gli altri. Giuda non è presente. Gli altri non voglio siano a cognizione di quel che voglio fare. Anche Giuda questa volta non lo sarebbe. Lo farai tu, in mio Nome…”.

“Io, Signore?… Io?… Oh! non ne sono degno!…”.

“Ti devi abituare a lavorare in mio Nome. Non sei venuto per questo?”.

“Sì. Ma pensavo dovere lavorare a ricostruire la povera anima mia”.

“E Io te ne do il mezzo. In che hai peccato? Contro la misericordia e l’amore. Con l’odio hai demolito la tua anima. Con l’amore e la misericordia la ricostruirai. Io te ne do il materiale. Ti adibirò particolarmente alle opere di misericordia e di amore. Tu sei anche capace di curare, tu sei capace di parlare. Per questo sei atto ad avere cura delle infelicità fisiche e morali, e hai capacità di farlo.

Inizierai con quest’opera. Tieni la borsa. La darai a Michea e ai suoi amici. Fanne parti uguali. Ma falle così come Io dico. La dividi per dieci, poi ne dai quattro parti a Michea: una per sé, una per Saulo, una per Gioele e una per Isaia. E le altre sei le dai a Michea perché le dia al vecchio padre di Jabé, per sé e per i suoi compagni. Potranno così avere qualche conforto”.

“Va bene. Ma che dico loro per giustificare?”.

“Dirai: Questo è perché vi ricordiate di pregare per un’anima che si redime”.

“Ma potranno pensare che sia io! Non è giusto!”.

“Perché? Non ti vuoi redimere?”.

“Non è giusto che pensino che sia io il donatore”.

“Lascia, e fa come Io dico”.

“Ubbidisco… ma almeno concedimi di mettere anche io qualche cosa. Tanto… ora non mi occorre più nulla. Libri non ne compero più, polli da nutrire non ne ho più. A me basta tanto poco… Tieni, Maestro. Serbo solo un minimo per le spese dei sandali…”, ed estrae da una borsa che aveva in cintura molte monete e le aggiunge alle monete di Gesù.

“Dio ti benedica per la tua misericordia… Giovanni, fra poco ci lasceremo perché tu andrai con Isacco”.

“Me ne duole, Maestro. Ma ubbidisco”.

“Anche a Me duole di allontanarti. Ma ho tanto bisogno di discepoli peregrinanti. Io non basto più. Presto lancerò gli apostoli, poi manderò i discepoli. E tu farai molto bene. Ti serberò a speciali missioni. Intanto con Isacco ti formerai. È tanto buono e lo Spirito di Dio lo ha veramente istruito durante la lunga malattia. Ed è l’uomo che tutto ha sempre perdonato…

Lasciarci, del resto, non vuole dire non vederci più. Ci incontreremo sovente, e ogni volta che ci ritroveremo parlerò proprio per te, ricordatelo…”.

Giovanni si piega su se stesso, si nasconde il volto fra le mani con un aspro scoppio di pianto, e geme: “Oh! allora dimmi subito qualche cosa che mi persuada che io sono perdonato… che io posso servire Dio… Se sapessi, ora che è caduto il fumo dell’odio, come vedo la mia anima… e come… e come penso a Dio…”.

“Lo so, non piangere. Resta nell’umiltà, ma non ti avvilire. L’avvilimento è ancora superbia. Solo, solo umiltà abbi. Suvvia, non piangere…”.

Giovanni di Endor si calma poco a poco…

Quando lo vede calmato, Gesù dice:

“Vieni, andiamo sotto quel folto di meli e raduniamo i compagni e le donne. Parlerò a tutti, ma ti dirò come Dio ti ama”.

Scendono, radunandosi intorno gli altri man mano che vanno, e si siedono poi a cerchio sotto l’ombra del pometo. Anche Lazzaro, che parlava con lo Zelote, si aggiunge alla compagnia. Venti persone in tutto.

“Udite. È una bella parabola che vi guiderà con la sua luce in tanti casi. Un uomo aveva due figli. Il maggiore era serio, lavoratore, affezionato, ubbidiente. Il secondo era intelligente più del maggiore -che in verità era un poco ottuso e si lasciava guidare per non avere da affaticarsi a decidere da sé- ma in compenso era anche ribelle, svagato, amante del lusso e del piacere, dissipatore e ozioso. L’intelligenza è un grande dono di Dio. Ma è un dono che va usato saggiamente. Altrimenti è come certi farmaci i quali, usati in mal modo, non sanano ma uccidono.

Il padre -era nel suo diritto e nel suo dovere- lo richiamava a vita più saggia. Ma senza alcun utile, tolto quello di averne male risposte e un maggior irrigidimento del figlio nelle proprie cattive idee.

Infine un giorno, dopo una disputa più fiera, il figlio minore disse:

“Dammi la mia parte dei beni. Così non sentirò più i tuoi rimproveri e i lagni del fratello. Ognuno il suo e sia finito tutto”.

“Guarda”, rispose il padre, “che presto sarai rovinato. Che farai allora? Pensa che io non sarò ingiusto in favore di te e non riprenderò un picciolo a tuo fratello per darlo a te”.

“Non ti chiederò nulla. Sta sicuro. Dammi la mia parte”.

Il padre fece stimare le terre e le cose preziose e, visto che denaro e gioielli facevano tanto quanto le terre, dette al maggiore i campi e i vigneti, le mandrie e gli ulivi, e al minore il denaro e i gioielli, che il giovane vendette subito mutando tutto in denaro.

E fatto questo, in pochi giorni, se ne andò in un lontano paese dove visse da gran signore, scialacquando tutto il suo tesoro in bagordi di ogni specie, facendosi credere un figlio di re perché si vergognava di dire: “sono campagnolo”, rinnegando perciò il padre suo.

Festini, amici e amiche, vesti, vini, giuoco… vita dissoluta… Presto vide scemare la sostanza e venire avanti la miseria. E con la miseria, a farla più grave, venne nel paese una grande carestia che dette fondo ai resti della sostanza.

Avrebbe potuto andare dal padre. Ma era superbo e non volle. Andò allora da un riccone del paese, già suo amico nei tempi buoni, e lo pregò dicendo: “Accoglimi fra i tuoi servi in ricordo di quando godesti delle mie dovizie”.

Vedete voi come è stolto l’uomo! Preferisce mettersi sotto la frusta di un padrone anziché dire ad un padre: “Perdono! Ho sbagliato!”.

Quel giovane aveva imparato tante cose inutili con la sua intelligenza aperta, ma non aveva voluto imparare il detto dell’Ecclesiastico: “Quanto è infame colui che abbandona il padre suo e quanto è maledetto da Dio chi fa inquietare la madre”.

Era intelligente ma non sapiente.

L’uomo a cui si era rivolto, in cambio del molto che aveva goduto dal giovane stolto, mise questo stolto di guardia ai porci -perché si era in paese pagano e vi erano molti porci- e lo mandò a pasturare nei suoi possessi le mandrie dei porci.

Lurido, stracciato, puzzolente, affamato -perché il cibo era scarso per tutti i servi e specie per gli infimi, e lui, straniero mandriano di porci e deriso, era ritenuto tale- vedeva i porci satollarsi delle ghiande e sospirava: “Potessi almeno io pure empirmi il ventre di questi frutti! Ma sono troppo amari! Neppure la fame me li fa parere buoni”.

E piangeva pensando ai ricchi festini da satrapo fatti poco tempo prima fra risa, canti, danze… e pensava poi agli onesti pranzi ben nutriti della sua casa lontana, alle porzioni che il padre faceva a tutti imparzialmente, serbando per sé sempre il meno, lieto di vedere il sano appetito dei suoi figli… e pensava anche alle parti fatte ai servi da quel giusto, e sospirava:

“I garzoni di mio padre, anche i più infimi, hanno pane in abbondanza… e io qui muoio di fame…”.

Un lungo lavoro di riflessione, una lunga lotta per strozzare la superbia…

Infine venne il giorno che, rinato nell’umiltà e nella sapienza, sorse in piedi e disse:

“Io vado dal padre mio! È stolto questo orgoglio che mi fa prigione. E di che? Perché soffrire e nel corpo e più nel cuore mentre posso avere perdono e sollievo? Vado dal padre mio. È detto. Che gli dirò? Ma quello che è nato qui dentro, in questa abiezione, fra queste lordure, fra i morsi della fame!

Gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami perciò come l’infimo dei tuoi garzoni, ma sopportami sotto il tuo tetto. Che io ti veda passare…

Non potrò dirgli: ‘…perché ti amo’. Non lo crederebbe. Ma lo dirà la mia vita, ed egli lo comprenderà, e prima di morire mi benedirà ancora… Oh! lo spero. Perché mio padre mi ama”.

E, tornato la sera in paese, si licenziò dal padrone e mendicando per via tornò a casa sua.

Ecco i campi paterni… e la casa… e il padre che dirigeva i lavori, invecchiato, scarnito dal dolore, ma sempre buono… Il colpevole, guardando quella rovina causata da lui, si fermò intimorito… ma il padre, girando l’occhio, lo vide e gli corse incontro, perché era ancora lontano, e raggiuntolo gli gettò le braccia al collo e lo baciò.

Solo il padre aveva riconosciuto in quel mendicante avvilito la sua creatura e solo lui aveva avuto un movimento di amore.

Il figlio, stretto fra quelle braccia, con il capo sulla spalla paterna, mormorò fra i singhiozzi: “Padre, lascia che io mi getti ai tuoi piedi”.

“No, figlio mio! Non ai piedi. Sul mio cuore, che ha tanto sofferto della tua assenza e che ha bisogno di rivivere col sentire il tuo calore sul mio petto”.

E il figlio, piangendo più forte, disse:

“Oh! padre mio! Io ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato da te: figlio. Ma permettimi di vivere fra i tuoi servi, sotto il tuo tetto, vedendoti, mangiando il tuo pane, servendoti, bevendo il tuo alito. Ad ogni boccone di pane, ad ogni tuo respiro si riformerà il mio cuore tanto corrotto e diverrò onesto…”.

Ma il padre, tenendolo sempre abbracciato, lo condusse verso i servi, che si erano ammucchiati in distanza e che osservavano, e disse loro:

“Presto, portate qui la veste più bella e catini di acque odorose, lavatelo, profumatelo, rivestitelo, mettetegli dei calzari nuovi e un anello al dito. Poi prendete un vitello ingrassato e ammazzatelo. E si prepari un banchetto. Perché questo figlio mio era morto ed ora è risuscitato, era perduto ed è stato ritrovato.

Io voglio che ora lui pure ritrovi il suo semplice amore di pargolo; e il mio amore e la festa della casa per il suo ritorno glielo devono dare. Deve capire che egli è sempre per me il caro bambino ultimo nato, quale era nella infanzia sua lontana, quando mi camminava al fianco facendomi beato col suo sorriso e il suo balbettio”. E così fecero i servi.

Il figlio maggiore era in campagna e non seppe nulla fino al suo ritorno. A sera, venendo verso casa, la vide luminosa di lumi e udì suoni di strumenti e danze uscire da essa. Chiamò un servo che correva indaffarato e gli disse: “Che avviene?”.

E il servo rispose: “È tornato tuo fratello! Tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso perché ha riavuto il figlio e sano, guarito dal suo grande male, ed ha ordinato banchetto. Non si attende che te per cominciare”.

Ma il primogenito, in collera perché gli pareva ingiustizia tanta festa per il minore, che oltre che minore era stato cattivo, non volle entrare e anzi fece per allontanarsi da casa. Ma il padre, avvertito di questo, corse fuori e lo raggiunse tentando di convincerlo e pregandolo di non amareggiargli la sua gioia.

Il primogenito rispose al padre suo: “E vuoi che io non sia inquieto? Tu fai ingiustizia e spregio al tuo primogenito. Io da quando ho potuto lavorare ti ho servito, e sono molti anni. Io non ho mai trasgredito ad un tuo comando, neppure ad un tuo desiderio. Io ti sono sempre stato vicino e ti ho amato per due per farti guarire dalla piaga fatta da mio fratello. E tu non mi hai dato neppure un capretto per godermelo cogli amici.

Questo, che ti ha offeso, che ti ha abbandonato, che è stato infingardo e dissipatore e che torna ora perché è spinto dalla fame, tu lo onori e per lui ammazzi il vitello più bello. Vale la pena essere lavoratori e senza vizi! Questo non me lo dovevi fare!”.

Il padre disse allora stringendoselo al seno:

“Oh! figlio mio! E puoi credere che io non ti ami perché non stendo un velo di festa sulle tue azioni? Le tue azioni sono sante di loro, e il mondo ti loda per esse. Ma questo tuo fratello, invece, ha bisogno di essere rialzato nella stima del mondo e nella stima sua stessa.

E credi tu che io non ti ami perché non ti do un premio visibile? Ma mattina e sera e in ogni mio alito e pensiero tu sei presente al mio cuore, e ad ogni attimo io ti benedico. Tu hai il premio continuo di essere sempre con me, e tutto quanto è mio è tuo. Ma era giusto banchettare e fare festa per questo tuo fratello, che era morto ed è risuscitato al Bene, che era perduto ed è stato ritornato al nostro amore”.

E il primogenito si arrese.

Così, amici miei, succede nella Casa del Padre.

E chi si sa uguale al figlio minore della parabola pensi pure che, se lo imita nell’andare al Padre, il Padre gli dice: “Non ai miei piedi. Ma sul mio Cuore, che ha sofferto della tua assenza e che ora è beato per il tuo ritorno”.

Chi è in condizioni di figlio primogenito e senza colpa verso il Padre, non sia geloso della gioia paterna, ma ne prenda parte, dando amore al fratello redento. Ho detto.

Rimani, Giovanni di Endor, e tu, Lazzaro. Gli altri vadano a preparare le mense. Presto verremo”.

Tutti si ritirano. Quando Gesù, Lazzaro e Giovanni sono soli, Gesù dice a Lazzaro e Giovanni: “Così si farà dell’anima cara che tu attendi, Lazzaro, e così si fa della tua, Giovanni. La bontà di Dio supera ogni misura”…

 

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C Lc,14,25-33 NATIVITÀ DELLA BEATA VERGINE MARIA

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Luca (Lc,14,25-33)
Una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro:
«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.
Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”.
Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.
Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo». Parola del signore.

RIFLESSIONI

Voler essere discepoli del Cristo significa avere scelto e deciso di seguirlo, significa avere scelto Cristo come unico punto di riferimento della e nella nostra vita.
Lo seguiamo perché lo amiamo e perché abbiamo fondato su di lui, e solo su di lui, il nostro progetto di vita.
Vivremo, nonostante tutto, infedeltà ed errori quotidiani, ma non saranno questi a troncare la nostra sequela se sapremo accettarli e viverli come limite e quindi come parte della croce che ogni giorno ci è chiesto di portare. Una croce fatta di grandi e piccole sofferenze e miserie, ma è proprio l’adesione alla “nostra” croce la via per divenire e rimanere suoi discepoli.
La Chiesa, oggi e sempre, è costruita da chi ha il coraggio di affidarsi soltanto a Dio e seguire Gesù con totale abbandono e senza nessun compromesso.

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta Capitolo 281

 

Gesù si trova nel Tempio e chiede a bruciapelo: «Perché intorno a Me vi pigiate? Ditelo. Avete rabbi noti e sapienti, benvisti da tutti. Io sono l’Ignoto e il Malvisto. Perché allora venite a Me?».

«Perché ti amiamo», dicono alcuni, ed altri:

«Perché hai parole diverse dagli altri», ed altri ancora:

«Per vedere i tuoi miracoli», e:

«Perché di Te abbiamo sentito parlare», e:

«Per­ché Tu solo hai parole di vita eterna e opere corrispondenti alle parole», e infine:

«Perché vogliamo unirci ai tuoi discepoli».

Gesù guarda la gente man mano che parla, quasi volesse trafiggerla con lo sguardo per leggerne le più occulte sensazio­ni; e qualcuno, non resistendo a quello sguardo, si allontana o, quanto meno, si nasconde dietro a una colonna o a gente più alta di lui.

Gesù riprende:

«Ma sapete voi cosa vuol dire e vuole essere venire dietro a Me?

Io rispondo a queste sole parole, perché non merita rispo­sta la curiosità e perché chi ha fame delle mie parole è, di conseguenza, di Me amante e desideroso di unirsi a Me. Perciò, fra chi ha parlato, vi sono due gruppi: i curiosi che trascuro, i vo­lonterosi che ammaestro senza inganno sulla severità di questa vocazione.

Venire a Me come discepolo vuol dire rinuncia di tutti gli amori a un solo amore: il mio.

Amore egoista verso se stessi, amore colpevole verso le ricchezze o il senso o la potenza, amo­re onesto verso la sposa, santo verso la madre, il padre, amore amabile dei e ai figli e fratelli, tutto deve cedere al mio amore se si vuole essere miei.

In verità vi dico che più liberi di uccelli spazianti nei cieli devono essere i miei discepoli, più liberi dei venti che scorrono i firmamenti senza che nessuno li trattenga, nessuno e nessuna cosa. Liberi, senza catene pesanti, senza lac­ci d’amore materiale, senza neppure le ragnatele sottili delle più lievi barriere.

Lo spirito è come una delicata farfalla serra­ta dentro al bozzolo pesante della carne, e può appesantirne il volo, o arrestarlo del tutto, anche l’iridescente e impalpabile tela di un ragno: il ragno della sensibilità, della ingenerosità nel sacrificio. Io voglio tutto, senza riserve. Lo spirito abbiso­gna di questa libertà di dare, di questa generosità di dare, per poter esser certo di non essere impigliato nella ragnatela delle affezioni, consuetudini, riflessioni, paure, tese come tanti fili da quel ragno mostruoso che è satana, rapinatore di anime.

Se uno vuol venire a Me e non odia santamente suo padre, sua madre, sua moglie, i suoi figli, i suoi fratelli e le sue sorel­le, e persino la sua vita, non può esser mio discepolo. Ho detto “odia santamente”.

Voi in cuor vostro dite: “L’odio, Egli lo in­segna, non è mai santo. Perciò Egli si contraddice”. No. Non mi contraddico.

Io dico di odiare la pesantezza dell’amore, la passionalità carnale dell’amore al padre e madre, e sposa e figli, e fratelli e sorelle, e alla stessa vita, ma anzi ordino di amare, con la libertà leggera che è propria degli spiriti, i pa­renti e la vita.

Amateli in Dio e per Dio, non posponendo mai Dio a loro, occupandovi e preoccupandovi di portarli dove il discepolo è giunto, ossia a Dio Verità. Così amerete santamente i parenti e Dio, conciliando i due amori e facendo dei legami di sangue non peso ma ala, non colpa ma giustizia.

Anche la vostra vita dovete esser pronti a odiare per seguire Me.

Odia la sua vita colui che, senza paura di perderla o di renderla umanamente triste, la fa servire a Me. Ma non è che una apparenza di odio. Un sentimento erroneamente detto “odio” dal pensiero dell’uomo che non sa elevarsi, dell’uomo tutto ter­restre, di poco superiore al bruto.

In realtà questo apparente odio, che è il negare le soddisfazioni sensuali alla esistenza per dare una sempre più vasta vita allo spirito, è amore.

Amore è, e del più alto che esista, del più benedetto.

Questo negarsi le bas­se soddisfazioni, questo interdirsi la sensualità degli affetti, questo procurarsi rimproveri e commenti ingiusti, questo ri­schiare punizioni, ripudi, maledizioni e forse anche persecuzio­ni, è una sequela di pene.

Ma occorre abbracciarle e imporsele come una croce, un patibolo sul quale si espia ogni passata col­pa per andare giustificati a Dio, e dal quale si ottiene ogni gra­zia, vera, potente, santa Grazia di Dio per coloro che noi amia­mo. Chi non porta la sua croce e non viene dietro a Me, chi non sa fare questo, non può essere mio discepolo.

Pensateci dunque molto, molto, voi che dite: “Siamo venuti perché vogliamo unirci ai tuoi discepoli”.

Non è vergogna ma sapienza pesarsi, giudicarsi e confessare, a se stessi e agli altri: “Io non ho stoffa di discepolo”.

E che? I pagani hanno a base di un loro insegnamento la necessità di “conoscere se stessi”; e voi israeliti, per conquistare il Cielo, non lo sapreste fare? Per­ché, ricordatevelo sempre, beati quelli che verranno a Me. Ma piuttosto che venire per poi tradire Me e Colui che mi ha man­dato, meglio è non venire affatto e rimanere i figli della Legge come fin qui foste.

Guai a coloro che, avendo detto: “Vengo”, portano poi danno al Cristo essendo i traditori dell’idea cri­stiana, gli scandalizzatori dei piccoli, dei buoni! Guai a loro! Eppure vi saranno, e sempre vi saranno!

Imitate perciò colui che vuole edificare una torre. Prima calcola attentamente la spesa necessaria e fa i conti del suo de­naro per vedere se ha di che portarla a termine, perché, termi­nate le fondamenta, non debba sospendere i lavori non avendo più denaro. In questo caso perderebbe anche quanto aveva pri­ma, rimanendo senza torre e senza talenti, e in cambio si atti­rerebbe le beffe del popolo che direbbe: “Costui ha cominciato a fabbricare senza poter finire. Ora può empirsi lo stomaco delle rovine della sua incompiuta fabbrica”.

Imitate ancora i re della Terra, facendo servire i poveri avvenimenti del mondo a insegnamento soprannaturale.

Costoro, quando vogliono muovere guerra ad un altro re, esaminano con calma e attenzione ogni cosa, il pro e il contro, meditano se l’utile della conquista valga il sacrificio delle vite dei sudditi, studiano se è possibile conquistare quel luogo, se le loro mili­zie, inferiori della metà a quelle del rivale, anche se più com­battive, possono vincere; e giustamente pensando che è impro­babile che diecimila vincano ventimila, prima che avvenga lo scontro mandano incontro al rivale una ambasceria con ricchi doni e, ammansendo il rivale, già insospettito dalle mosse mili­tari dell’altro, lo disarmano con prove di amicizia, ne annulla­no i sospetti e fanno con esso trattato di pace, in verità sempre più vantaggioso, tanto umanamente che spiritualmente, di una guerra.

Così dovete fare voi prima di iniziare la nuova vita e di schierarvi contro il mondo. Perché questo è essere miei disce­poli: andare contro la turbinosa e violenta corrente del mondo, della carne, di satana.

E, se non sentite in voi il coraggio di ri­nunciare a tutto per amor mio, non venite a Me perché non po­tete essere miei discepoli».

«Va bene. Ciò che Tu dici è vero», ammette uno scriba che si è mescolato al gruppo. «Ma se ci spogliamo di tutto, con che ti serviamo poi? La Legge ha dei comandi che sono come mo­nete che Dio dà all’uomo perché usandole si compri la vita eterna. Tu dici: “Rinunciate a tutto” e accenni il padre, la ma­dre, le ricchezze, gli onori. Dio ha pur dato queste cose e ci ha detto, per bocca di Mosè, di usarle con santità per apparire giusti agli occhi di Dio. Se Tu ci levi tutto, che ci dai?».

«Il vero amore, l’ho detto, o rabbi. Vi do la mia dottrina che non leva un iota alla antica Legge, ma anzi la perfeziona».

«Allora tutti siamo discepoli uguali, perché tutti abbiamo le stesse cose».

«Tutti le abbiamo secondo la Legge mosaica. Non tutti se­condo la Legge perfezionata da Me secondo l’Amore. Ma non tutti raggiungono, nella stessa, la stessa somma di meriti. An­che fra i miei stessi discepoli non tutti giungeranno ad avere somma di meriti in uguale misura, e alcuno fra essi non solo non avrà somma ma perderà anche l’unica sua moneta: la sua anima».

«Come? A chi più è dato più resterà. I tuoi discepoli, meglio i tuoi apostoli, ti seguono nella tua missione e sono al corrente dei tuoi modi, hanno avuto moltissimo; molto hanno avuto i di­scepoli effettivi, meno i discepoli solo di nome, nulla quelli che, come me, non ti ascoltano che per accidente. È ovvio che mol­tissimo avranno in Cielo gli apostoli, molto i discepoli effettivi, meno i discepoli di nome, nulla quelli che sono come me».

«Umanamente è ovvio, e male anche umanamente. Perché non tutti sono capaci di far fruttare i beni avuti. Odi questa parabola e perdona se troppo a lungo qui insegno. Ma Io sono la rondine di passaggio, e non sosto che per poco nella Casa del Padre, essendo venuto per tutto il mondo e non volendo, que­sto piccolo mondo che è il Tempio di Gerusalemme, permetter­mi di raccogliere il volo e rimanere là dove la gloria del Signo­re mi chiama».

«Perché dici così?».

«Perché è verità».

Lo scriba si guarda intorno e poi china la testa. Che sia ve­rità lo vede scritto su troppi volti di sinedristi, rabbi e farisei che sono andati sempre più ingrossando l’assembramento che è intorno a Gesù.

Volti verdi di bile o porpurei d’ira, sguardi che equivalgono a parole di maledizione e a sputi di veleno, ranco­re che lievita da ogni parte, desiderio di malmenare il Cristo, che resta desiderio solo per paura dei molti che circondano il Maestro con devozione e che sono pronti a tutto per difenderlo, paura forse anche di punizioni da parte di Roma che ha beni­gnità verso il mite Maestro galileo.

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta