31 MARZO 2019 IV DOMENICA DI QUARESIMA – LAETARE – ANNO C

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TESTO:-
Dal Vangelo secondo Luca. (Lc 15,1-3.11-32)
In quel tempo, si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola:
«Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”». Parola del Signore.

RIFLESSIONI
“O Padre, che per mezzo del tuo Figlio operi mirabilmente la nostra redenzione”: è con questa preghiera che apriamo la liturgia di questa domenica. Il Vangelo ci annuncia una misericordia che è già avvenuta e ci invita a riceverla in fretta: “Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”, dice san Paolo (2Cor 5,20).
Il padre non impedisce al suo secondogenito di allontanarsi da lui. Egli rispetta la sua libertà, che il figlio impiegherà per vivere una vita grigia e degradata. Ma mai si stanca di aspettare, fino al momento in cui potrà riabbracciarlo di nuovo, a casa.
Di fronte all’amore del padre, il peccato del figlio risalta maggiormente. La sofferenza e le privazioni sopportate dal figlio minore sono la conseguenza del suo desiderio di indipendenza e di autonomia, e di abbandono del padre. La nostalgia di una comunione perduta risveglia in lui un altro desiderio: riprendere il cammino del focolare familiare.
Questo desiderio del cuore, suscitato dalla grazia, è l’inizio della conversione che noi chiediamo di continuo a Dio. Siamo sempre sicuri dell’accoglienza del padre.
La figura del fratello maggiore ci ricorda che non ci comportiamo veramente da figli e figlie se non proviamo gli stessi sentimenti del padre. Il perdono passa per il riconoscimento del bisogno di essere costantemente accolti dal Padre. Solo così la Pasqua diventa per il cristiano una festa del perdono ricevuto e di vera fratellanza.

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta

Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta Capitolo 205

“Udite. È una bella parabola che vi guiderà con la sua luce in tanti casi. Un uomo aveva due figli. Il maggiore era serio, lavoratore, affezionato, ubbidiente. Il secondo era intelligente più del maggiore -che in verità era un poco ottuso e si lasciava guidare per non avere da affaticarsi a decidere da sé- ma in compenso era anche ribelle, svagato, amante del lusso e del piacere, dissipatore e ozioso.

L’intelligenza è un grande dono di Dio. Ma è un dono che va usato saggiamente. Altrimenti è come certi farmaci i quali, usati in mal modo, non sanano ma uccidono. Il padre -era nel suo diritto e nel suo dovere- lo richiamava a vita più saggia. Ma senza alcun utile, tolto quello di averne male risposte e un maggior irrigidimento del figlio nelle proprie cattive idee.

Infine un giorno, dopo una disputa più fiera, il figlio minore disse: “Dammi la mia parte dei beni. Così non sentirò più i tuoi rimproveri e i lagni del fratello. Ognuno il suo e sia finito tutto”.

“Guarda”, rispose il padre, “che presto sarai rovinato. Che farai allora? Pensa che io non sarò ingiusto in favore di te e non riprenderò un picciolo a tuo fratello per darlo a te”.

“Non ti chiederò nulla. Sta sicuro. Dammi la mia parte”.

Il padre fece stimare le terre e le cose preziose e, visto che denaro e gioielli facevano tanto quanto le terre, dette al maggiore i campi e i vigneti, le mandrie e gli ulivi, e al minore il denaro e i gioielli, che il giovane vendette subito mutando tutto in denaro. E fatto questo, in pochi giorni, se ne andò in lontano paese dove visse da gran signore, scialacquando tutto il suo in bagordi di ogni specie, facendosi credere un figlio di re perché si vergognava di dire: “Sono campagnolo”, rinnegando perciò il padre suo.

Festini, amici e amiche, vesti, vini, giuoco… vita dissoluta… Presto vide scemare la sostanza e venire avanti la miseria. E con la miseria, a farla più grave, venne nel paese una grande carestia che dette fondo ai resti della sostanza.

Avrebbe potuto andare dal padre. Ma era superbo e non volle. Andò allora da un riccone del paese, già suo amico nei tempi buoni, e lo pregò dicendo:

“Accoglimi fra i tuoi servi in ricordo di quando godesti delle mie dovizie”.

Vedete voi come è stolto l’uomo! Preferisce mettersi sotto la frusta di un padrone anziché dire ad un padre: “Perdono! Ho sbagliato!”. Quel giovane aveva imparato tante cose inutili con la sua intelligenza aperta, ma non aveva voluto imparare il detto dell’Ecclesiastico:

“Quanto è infame colui che abbandona il padre suo e quanto è maledetto da Dio chi fa inquietare la madre”. Era intelligente ma non sapiente.

L’uomo a cui si era rivolto, in cambio del molto che aveva goduto dal giovane stolto, mise questo stolto di guardia ai porci -perché si era in paese pagano e vi erano molti porci- e lo mandò a pasturare nei suoi possessi le mandrie dei porci. Lurido, stracciato, puzzolente, affamato -perché il cibo era scarso per tutti i servi e specie per gli infimi, e lui, straniero mandriano di porci e deriso, era ritenuto tale- vedeva i porci satollarsi delle ghiande e sospirava:

“Potessi almeno io pure empirmi il ventre di questi frutti! Ma sono troppo amari! Neppure la fame me li fa parere buoni”.

E piangeva pensando ai ricchi festini da satrapo fatti poco tempo prima fra risa, canti, danze… e pensava poi agli onesti pranzi ben nutriti della sua casa lontana, alle porzioni che il padre faceva a tutti imparzialmente, serbando per sé sempre il meno, lieto di vedere il sano appetito dei suoi figli… e pensava anche alle parti fatte ai servi da quel giusto, e sospirava:

“I garzoni di mio padre, anche i più infimi, hanno pane in abbondanza… e io qui muoio di fame…”.

Un lungo lavoro di riflessione, una lunga lotta per strozzare la superbia…

Infine venne il giorno che, rinato nell’umiltà e nella sapienza, sorse in piedi e disse:

“Io vado dal padre mio! È stolto questo orgoglio che mi fa prigione. E di che? Perché soffrire e nel corpo e più nel cuore mentre posso avere perdono e sollievo? Vado dal padre mio. È detto. Che gli dirò? Ma quello che è nato qui dentro, in questa abiezione, fra queste lordure, fra i morsi della fame!

Gli dirò: ‘Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami perciò come l’infimo dei tuoi garzoni, ma sopportami sotto il tuo tetto. Che io ti veda passare…’. Non potrò dirgli: ‘…perché ti amo’.

Non lo crederebbe. Ma lo dirà la mia vita, ed egli lo comprenderà, e prima di morire mi benedirà ancora… Oh! lo spero. Perché mio padre mi ama”.

E, tornato la sera in paese, si licenziò dal padrone e mendicando per via tornò a casa sua.
Ecco i campi paterni… e la casa… e il padre che dirigeva i lavori, invecchiato, scarnito dal dolore, ma sempre buono… Il colpevole, guardando quella rovina causata da lui, si fermò intimorito… ma il padre, girando l’occhio, lo vide e gli corse incontro, perché era ancora lontano, e raggiuntolo gli gettò le braccia al collo e lo baciò.

Solo il padre aveva riconosciuto in quel mendicante avvilito la sua creatura e solo lui aveva avuto un movimento di amore.

Il figlio, stretto fra quelle braccia, con il capo sulla spalla paterna, mormorò fra i singhiozzi:

“Padre, lascia che io mi getti ai tuoi piedi”.

“No, figlio mio! Non ai piedi. Sul mio cuore, che ha tanto sofferto della tua assenza e che ha bisogno di rivivere col sentire il tuo calore sul mio petto”.

E il figlio, piangendo più forte, disse:

“Oh! padre mio! Io ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato da te: figlio. Ma permettimi di vivere fra i tuoi servi, sotto il tuo tetto, vedendoti, mangiando il tuo pane, servendoti, bevendo il tuo alito. Ad ogni boccone di pane, ad ogni tuo respiro si riformerà il mio cuore tanto corrotto e diverrò onesto…”.

Ma il padre, tenendolo sempre abbracciato, lo condusse verso i servi, che si erano ammucchiati in distanza e che osservavano, e disse loro:

“Presto, portate qui la veste più bella e catini di acque odorose, lavatelo, profumatelo, rivestitelo, mettetegli dei calzari nuovi e un anello al dito. Poi prendete un vitello ingrassato e ammazzatelo. E si prepari un banchetto. Perché questo figlio mio era morto ed ora è risuscitato, era perduto ed è stato ritrovato.

Io voglio che ora lui pure ritrovi il suo semplice amore di pargolo; e il mio amore e la festa della casa per il suo ritorno glielo devono dare. Deve capire che egli è sempre per me il caro bambino ultimo nato, quale era nella infanzia sua lontana, quando mi camminava al fianco facendomi beato col suo sorriso e il suo balbettio”.

E così fecero i servi. Il figlio maggiore era in campagna e non seppe nulla fino al suo ritorno. A sera, venendo verso casa, la vide luminosa di lumi e udì suoni di strumenti e danze uscire da essa. Chiamò un servo che correva indaffarato e gli disse: “Che avviene?”.

E il servo rispose: “È tornato tuo fratello! Tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso perché ha riavuto il figlio e sano, guarito dal suo grande male, ed ha ordinato banchetto. Non si attende che te per cominciare”.

Ma il primogenito, in collera perché gli pareva ingiustizia tanta festa per il minore, che oltre che minore era stato cattivo, non volle entrare e anzi fece per allontanarsi da casa.

Ma il padre, avvertito di questo, corse fuori e lo raggiunse tentando di convincerlo e pregandolo di non amareggiargli la sua gioia. Il primogenito rispose al padre suo:

“E vuoi che io non sia inquieto? Tu fai ingiustizia e spregio al tuo primogenito. Io da quando ho potuto lavorare ti ho servito, e sono molti anni. Io non ho mai trasgredito ad un tuo comando, neppure ad un tuo desiderio. Io ti sono sempre stato vicino e ti ho amato per due per farti guarire dalla piaga fatta da mio fratello. E tu non mi hai dato neppure un capretto per godermelo cogli amici. Questo, che ti ha offeso, che ti ha abbandonato, che è stato infingardo e dissipatore e che torna ora perché è spinto dalla fame, tu lo onori e per lui ammazzi il vitello più bello. Vale la pena essere lavoratori e senza vizi! Questo non me lo dovevi fare!”.

Il padre disse allora stringendoselo al seno:

“Oh! figlio mio! E puoi credere che io non ti ami perché non stendo un velo di festa sulle tue azioni? Le tue azioni sono sante di loro, e il mondo ti loda per esse. Ma questo tuo fratello, invece, ha bisogno di essere rialzato nella stima del mondo e nella stima sua stessa. E credi tu che io non ti ami perché non ti do un premio visibile? Ma mattina e sera e in ogni mio alito e pensiero tu sei presente al mio cuore, e ad ogni attimo io ti benedico. Tu hai il premio continuo di essere sempre con me, e tutto quanto è mio è tuo. Ma era giusto banchettare e fare festa per questo tuo fratello, che era morto ed è risuscitato al Bene, che era perduto ed è stato ritornato al nostro amore”. E il primogenito si arrese.

Così, amici miei, succede nella Casa del Padre. E chi si sa uguale al figlio minore della parabola pensi pure che, se lo imita nell’andare al Padre, il Padre gli dice:

“Non ai miei piedi. Ma sul mio cuore, che ha sofferto della tua assenza e che ora è beato per il tuo ritorno”.

Chi è in condizioni di figlio primogenito e senza colpa verso il Padre, non sia geloso della gioia paterna, ma ne prenda parte, dando amore al fratello redento. Ho detto. Rimani, Giovanni di Endor, e tu, Lazzaro. Gli altri vadano a preparare le mense. Presto verremo”.

Tutti si ritirano. Quando Gesù, Lazzaro e Giovanni sono soli, Gesù dice a Lazzaro e Giovanni: “Così si farà dell’anima cara che tu attendi, Lazzaro, e così si fa della tua, Giovanni. La bontà di Dio supera ogni misura”…

 

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

24 MARZO 2019 III DOMENICA DI QUARESIMA ANNO C

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III DOMENICA DI QUARESIMA ANNO C

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 13,1-9
In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù rispose: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Disse anche questa parabola: «Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: Ecco, son tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest’anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se no, lo taglierai».

 Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta  Capitolo 281

Si fermano davanti ad un’alta casa che, se non erro, è verso il sobborgo di Ofel, ma in luogo più signorile.

«Qui ci fermiamo?».

«Questa è la casa che Lazzaro mi ha offerta per il banchetto di letizia. Qui già vi è Maria».

«Perché non è venuta con noi? Per paura degli scherni?».

«Oh! no! Io solo gliel’ho ordinato».

«Perché, Signore?».

«Perché il Tempio è più suscettibile di una sposa gravida. Finché posso, e non per viltà, non voglio urtarlo».

«Non ti servirà a niente, Maestro. Io, se fossi Tu, non solo lo urterei. Ma lo butterei giù dal Moria con tutti quelli che ci sono dentro».

«Sei un peccatore, Simone. Occorre pregare per i propri simili, non ucciderli».

«Io sono peccatore. Ma Tu no… e… dovresti farlo».

«Ci sarà chi lo fa. E dopo che la misura del peccato sarà raggiunta».

«Quale misura?».

«Una misura che empierà tutto il Tempio, traboccando per Gerusalemme. Non puoi capire… Oh! Marta! Apri dunque al Pellegrino la tua casa!».

Marta si fa riconoscere e aprire. Entrano tutti in un lungo atrio che finisce in un cortile selciato, avente quattro alberi ai quattro angoli. Una vasta scala si apre sopra al terreno, e dalle finestre aperte si vede tutta la città nei suoi sali-scendi. Arguisco perciò che la casa sia sulle pendici meridionali, o sud orientali, della città. La sala è apparecchiata per molti, molti ospiti. Tavole e tavole sono messe le une parallele alle altre. Un centinaio di persone può comodamente prendervi ristoro.

Accorre Maria Maddalena, che era altrove, intenta alle dispense, e si prostra davanti a Gesù. E viene Lazzaro con un sorriso beato sul volto malaticcio. Entrano man mano gli ospiti, un poco impacciati taluni, più sicuri gli altri. Ma la gentilezza delle donne li fa tutti presto a loro agio.

Il sacerdote Giovanni conduce a Gesù i due presi nel Tempio. «Maestro, il mio buon amico Gionata e il mio giovane amico Zaccaria. Sono veri israeliti senza malizia e senz’astio».

«La pace a voi. Sono lieto di avervi. Il rito deve essere osservato anche in queste dolci consuetudini. È bello che la Fede antica dia la mano di amica alla nuova Fede venuta dal suo stesso ceppo. Sedete al mio fianco mentre viene l’ora del pasto».

Parla il patriarcale Gionata, mentre il giovine levita guarda qua e là curioso, stupito, e forse anche intimidito. Penso che si voglia dare un contegno spigliato, ma in realtà sia come un pesce fuor d’acqua. Per fortuna Stefano viene in suo soccorso e gli porta, uno dopo l’altro, gli apostoli e i discepoli principali.

Il vecchio sacerdote, lisciandosi la barba di neve, dice: «Quando Giovanni venne a me, proprio a me, suo maestro, a mostrarmi la sua guarigione, io ebbi voglia di conoscerti. Ma, Maestro, io quasi più non esco dal mio recinto. Vecchio sono… Speravo vederti però prima di morire. E Jeovè mi ha esaudito. Lode sia a Lui! Oggi ti ho sentito al Tempio. Tu superi Hillele, il vecchio, il saggio.

Io non voglio, anzi io non posso dubitare che Tu sia ciò che il mio cuore attende. Ma sai cosa è avere bevuto per quasi ottanta anni la fede d’Israele quale è divenuta in secoli di… lavorazione umana? Si è fatta sangue nostro. E io sono così vecchio! Sentire Te è come sentire l’acqua che esce da una fresca sorgente. Oh! sì! Un’acqua vergine! Ma io… ma io sono saturo dell’acqua stanca che viene da tanto lontano!… che si è appesantita di tante cose. Come farò per levarmi questa saturazione e gustare di Te?».

«Credermi e amarmi. Non necessita altro per il giusto Gionata».

«Ma presto io morirò! Farò in tempo a credere tutto quello che dici? Non riuscirò più neppure a seguire tutte le tue parole, o a conoscerle dalla bocca altrui. E allora?».

«Le imparerai in Cielo. Non muore alla Sapienza che il dannato. Mentre chi muore in Grazia di Dio attinge la Vita e vive nella Sapienza. Cosa credi tu che Io sia?».

«Non puoi essere che l’Atteso che ha precorso il figlio del mio amico Zaccaria. Lo hai conosciuto?».

«Mi era parente».

«Allora Tu sei parente del Battista?».

«Sì, sacerdote».

«Egli è morto… e non posso dire: “Infelice!”. Perché è morto fedele alla giustizia, dopo aver compiuto la sua missione, e perché… Oh! tempi atroci che viviamo! Non è meglio tornare ad Abramo?».

«Sì. Ma più atroci verranno, sacerdote».

«Tu dici? Roma, eh?».

«Non Roma sola. Israele colpevole ne sarà la causa prima».

«È vero. Dio ci colpisce. Lo meritiamo. Ma però anche Roma…

Hai sentito parlare dei galilei uccisi da Pilato mentre consumavano un sacrificio? Il loro sangue si fuse con quello della vittima. Fin presso l’altare! Fin presso l’altare!».

«Ho sentito».

Tutti i galilei tumultuano per questo sopruso. Gridano: «È vero che egli era un falso Messia. Ma perché uccidere i suoi seguaci dopo aver già percosso lui? E perché in quell’ora? Erano più peccatori forse?».

Gesù impone pace e poi dice: «Vi chiedete se erano più peccatori quelli di tanti altri galilei e se è per questo che furono uccisi? No, che no lo erano. In verità vi dico che essi hanno pagato e che molti altri pagheranno se non vi convertite al Signore.

Se non farete tutti penitenza, perirete tutti in ugual misura, in Galilea e altrove. Dio è sdegnato del suo popolo. Io ve lo dico. Non bisogna credere che i colpiti siano sempre i peggiori.

Ognuno esamini se stesso, sé giudichi e non altro. Anche quei diciotto su cui cadde la torre di Siloe e li uccise non erano i più colpevoli in Gerusalemme. Io ve lo dico. Fate, fate penitenza se non volete essere stritolati come essi, e anche nello spirito.

Vieni, sacerdote d’Israele. La mensa è pronta. Tocca a te, perché il sacerdote è sempre colui che va onorato per l’Idea che rappresenta e richiama, tocca a te, patriarca fra noi, tutti più giovani, offrire e benedire».

«No, Maestro! No! Non posso davanti a Te! Tu sei il Figlio di Dio!».

«Offri pure l’incenso davanti all’altare! E non credi forse che là è Dio?».

«Sì che lo credo! Con tutte le mie forze!».

«E allora? Se non tremi di offrire davanti alla Gloria Santissima dell’Altissimo, perché vuoi tremare davanti alla Misericordia che si è vestita di Carne per portare anche a te la benedizione di Dio prima che venga a te la notte?

Oh! che non sapete voi di Israele che, proprio perché l’uomo possa avvicinare Dio e non morirne, ho messo sulla mia Divinità insostenibile il velo della Carne. Vieni e credi e sii felice. In te Io venero tutti i sacerdoti santi, da Aronne all’ultimo che sarà sacerdote d’Israele con giustizia, a te forse, perché in verità la santità sacerdotale langue fra noi come pianta senza soccorso».

La strada che conduce a Sefet lascia la pianura di Corozim per assalire un gruppo montagnoso abbastanza rilevante e molto folto di piante. Un corso d’acqua scende da questi monti, certo diretto al lago di Tiberiade.

I pellegrini attendono a questo ponte che li raggiungano gli altri mandati al lago di Merom. Non attendono molto, infatti. Puntuali all’appuntamento, essi vengono avanti lesti e si riuniscono con gioia al Maestro e ai compagni, riferendo sul come si svolse il loro viaggio, benedetto da alcuni miracoli fatti a turno da «tutti gli apostoli», dicono. Ma Giuda di Keriot corregge: «Meno che da me, che non sono riuscito a nulla». E la sua mortificazione, nel confessarlo, è penosa.

«Ti abbiamo detto che era perché avevamo di fronte un grande peccatore» gli risponde Giacomo di Zebedeo.

E spiega: «Sai, Maestro? Era Giacobbe, molto ammalato. E ti invoca per questo, perché ha paura della morte e del giudizio di Dio. Ma è più avaro che mai, ora che prevede un vero disastro nei suoi raccolti, completamente rovinati dal gelo. Ha perduto tutto il grano da seme e non può seminarne altro, perché è malato e la serva, sfiancata di fatiche e di fame -perché lui economizza anche la farina da pane, preso come è dalla paura di essere un giorno senza mangiare- non ce la fa ad arare il campo.

Noi -abbiamo forse peccato, perché abbiamo lavorato tutto il venerdì e oltre il tramonto, fino all’ultima luce e persino con delle fiaccole e dei falò accesi per vedere- noi abbiamo arato una grande estensione di terreno. Filippo, Giovanni e Andrea sanno fare e io anche. Abbiamo sgobbato… Simone, Matteo e Bartolomeo ci venivano dietro ripulendo le zolle dal grano nato e morto, e Giuda è andato in tuo nome a chiedere un poco di seme a Giuda ed Anna, promettendo la nostra visita di oggi.

Giuda rimaneva presso il letto di Giacobbe per convertirlo. Lui sa parlare meglio di noi. Almeno così hanno voluto dire di loro anche Bartolomeo e lo Zelote. Ma Giacobbe era sordo ad ogni argomento. Voleva la guarigione perché la malattia gli costa, e insolentiva la serva come una poltrona. Per calmarlo, visto che diceva: “Mi convertirò se guarisco”, Giuda gli impose le mani. Ma Giacobbe restò malato come prima. Giuda, sconfortato, ce lo disse.

Provammo noi prima di coricarci. Ma non ebbimo miracolo. Ora Giuda sostiene che è perché lui è in tua disgrazia, avendoti dispiaciuto, ed è avvilito. Ma noi diciamo che è perché avevamo di fronte un peccatore ostinato, il quale pretende di ottenere tutto ciò che vuole, mettendo termini e dando ordini anche a Dio. Chi ha ragione?».

«Voi sette. Avete detto il vero. E Giuda e Anna? I loro campi?».

«Rovinati alquanto. Ma loro hanno mezzi, e tutto è già riparato. Ma sono buoni, quelli! Tieni. Ti mandano quest’offerta e questi cibi. Sperano vederti qualche volta. Quello che rattrista è lo stato d’animo di Giacobbe. Io avrei voluto guarirgli l’anima più che il corpo…» dice Andrea.

«E negli altri luoghi?».

«Oh! Sulla via di Deberet, presso il paese, abbiamo – è stato Matteo – guarito uno con le febbri, che tornava da un medico che lo aveva dato per spacciato. Sostammo da lui e la febbre non è tornata dal tramonto all’aurora, ed egli asseriva di sentirsi bene e forte. Poi a Tiberiade fu Andrea che guarì un barcaiolo che si era spezzata una spalla cadendo sul ponte. Gli impose le mani e la spalla guarì. Figurati l’uomo! Ci volle portare senza spesa a Magdala e a Cafarnao, poi a Betsaida, e là è rimasto, perché vi sono i discepoli Timoteo di Aera, Filippo d’Arbela, Ermasteo e Marco di Giosia, uno dei liberati dal demonio presso Gamala. Vuole essere discepolo anche Giuseppe il barcaiolo…. I bambini, da Giovanna, stanno bene. Non sembrano più quelli. Erano nel giardino e giocavano con Giovanna e Cusa…».

«Li ho visti. Ci sono passato Io pure. Continuate».

«A Magdala è stato Bartolomeo che ha convertito un cuore vizioso e guarito un corpo vizioso. Come ha parlato bene! Ha mostrato che il disordine dello spirito genera disordine nel corpo e ogni concessione alla disonestà degenera in perdita della tranquillità, della salute e infine dell’anima. Quando lo ha visto pentito e persuaso, gli ha imposto le mani e l’uomo è guarito. Volevano trattenerci a Magdala. Ma noi abbiamo ubbidito proseguendo, dopo la notte, per Cafarnao. Lì vi erano cinque che chiedevano grazia a Te. E stavano per tornare via sconfortati. Li guarimmo. Non abbiamo visto nessuno perché ci rimbarcammo subito per Betsaida, per evitare domande da Eli, Uria e compagni. Betsaida! Ma racconta tu, Andrea, a tuo fratello…» termina Giacomo di Zebedeo che ha sempre parlato.

Giuda è cogitabondo e distratto. O finge d’esserlo. Gesù dice: «Già! Rachele. Ricordati bene. È guarita. E i campi daranno molto grano. Vi passammo Io e Giacomo. Tanto può il sacrificio di un fanciullo giusto».

«A Betsaida fu Giacomo che fece miracolo su un povero storpio, e Matteo, sulla via, verso la casa di Giacobbe, guarì un fanciullo. Ma proprio oggi, sulla piazza di quel villaggio presso il ponte, Filippo e Giovanni hanno guarito, il primo uno malato d’occhi, e il secondo un fanciullo indemoniato».

«Avete fatto tutti bene. Molto bene. Ora andremo fino a quel paese sulle pendici e ci fermeremo in qualche casa a dormire».

«E Tu, Maestro mio, che hai fatto? Come sta Maria? E l’altra Maria?» chiede Giovanni.

«Stanno bene e vi salutano tutti. Stanno preparando vesti e quanto occorre per il pellegrinaggio di primavera. E non vedono l’ora di farlo per stare con noi».

«Anche Susanna e Giovanna e nostra madre hanno la stessa ansia» dice sempre Giovanni.

Bartolomeo dice: «Anche mia moglie colle figlie vuole venire quest’anno, dopo tanti anni, a Gerusalemme. Dice che mai più sarà bello come quest’anno… Non so perché lo dica. Ma ella sostiene che se lo sente in cuore».

«Certo allora verrà anche la mia. Non me l’ha detto… Ma ciò che fa Anna fa sempre anche Maria» dice Filippo.

«E le sorelle di Lazzaro? Voi che le avete viste…» chiede Simone Zelote.

«Ubbidiscono con sofferenza all’ordine del Maestro e alla necessità… Lazzaro è molto sofferente, vero, Giuda? Quasi sempre è coricato. Ma con molta ansia attendono il Maestro» dice Tommaso.

«Presto sarà Pasqua e andremo da Lazzaro».

«Ma Tu che hai fatto a Nazaret e a Corozim?».

«A Nazaret ho salutato i parenti e gli amici e i parenti dei due discepoli. A Corozim ho parlato nella sinagoga e ho guarito una donna. Abbiamo sostato dalla vedova alla quale è morta la madre. Un dolore e un sollievo insieme, per le poche risorse e per quanto tempo sottraeva l’assistenza dell’infermiera al lavoro della vedova, che si è messa a filare per conto di altri. Ma non è più disperata. Ha il necessario assicurato ed è paga di ciò. Giuseppe va ogni mattina presso un falegname del Pozzo di Giacobbe per apprendere il mestiere».

«Sono più buoni quelli di Corozim?» chiede Matteo.

«No, Matteo. Sono sempre più cattivi» confessa schiettamente Gesù. «E ci hanno maltrattati. I più potenti, è naturale. Non il popolo semplice».

«È un gran postaccio. Non ci andare più» dice Filippo.

«Ne avrebbe dolore il discepolo Elia, e la vedova e la donna guarita oggi e gli altri buoni».

«Sì. Ma sono tanto pochi che… io non mi occuperei più del luogo. Tu lo hai detto: “È inlavorabile”» dice Tommaso.

«Altra cosa è la resina e altra i cuori. Qualcosa resterà, come seme sprofondato sotto zolle e zolle molto compatte. Ci terrà molto a spuntare. Ma finalmente spunterà. Così di Corozim. Un giorno nascerà ciò che Io ho seminato. Non bisogna stancarsi alle prime sconfitte.

Sentite questa parabola. Potrebbe essere intitolata: “La parabola del buon coltivatore”.

Un ricco aveva una grande e bella vigna, nella quale erano anche piante di fichi di diverse qualità. Alla vigna attendeva un suo servo, esperto vignaiolo e potatore di piante da frutto, che faceva il suo dovere con amore al padrone e alle piante. Tutti gli anni il ricco, nella stagione migliore, andava a più riprese alla sua vigna per vedere maturare le uve e i fichi e gustarne, cogliendoli con le sue mani dalle piante.

Un giorno, dunque, si diresse a un fico che era di qualità buonissima, l’unica pianta di quella qualità che fosse nella vigna. Ma anche quel giorno, come nei due anni precedenti, lo trovò tutto fogliame e niente frutta. Chiamò il vignaiolo e disse: “Sono tre anni che vengo a cercare frutta su questo fico e non trovo che foglie. Si capisce che la pianta ha finito di fruttificare. Tagliala, dunque. È inutile che sia qui ad occupare posto e ad occupare il tuo tempo, per poi non concludere niente. Segala, bruciala, ripulisci il terreno dalle sue radici e nel posto suo mettici una pianticina novella. Fra qualche anno darà frutto essa”.

Il vignaiolo, che era paziente e amoroso, rispose: “Tu hai ragione. Ma lasciami fare ancora per un anno. Io non segherò la pianta. Ma, anzi, con maggior cura la zapperò intorno al suolo, la concimerò e la poterò. Chissà che non fruttifichi ancora. Se dopo quest’ultima prova non farà frutto, ubbidirò al tuo desiderio e la taglierò”.

Corozim è il fico che non dà frutti. Io sono il buon Coltivatore. E il ricco impaziente siete voi. Lasciate fare al buon Coltivatore».

«Va bene. Ma la tua parabola non conclude. Il fico, l’anno di poi, fece frutto?» chiede lo Zelote.

«Non fece frutto e fu reciso. Ma il coltivatore fu giustificato del recidere una pianta ancora giovine e fiorente, perché aveva fatto tutto il suo dovere. Io pure voglio essere giustificato per causa di coloro sui quali dovrò mettere la scure e reciderli dalla mia vigna, dove sono piante sterili o velenose, nidi di serpi, succhiatori di succhi, parassiti o tossici che guastano e nuocciono i compagni discepoli, o anche che penetrano strisciando con le loro radici malevole per proliferare, non chiamati, nella mia vigna, ribelli ad ogni innesto, entrati solo per spiare, denigrare e isterilire il mio campo. Questi li reciderò quando tutto sarà tentato per convertirli.

E per intanto, prima della scure, alzo la cesoia e il coltello del potatore e sfrondo e innesto… Oh! sarà un lavoro duro. Per Me che lo faccio, per coloro che lo subiranno. Ma va fatto. Perché si possa dire in Cielo: “Egli ha tutto compiuto, ma essi sono divenuti sempre più sterili e malvagi più Egli li ha potati, innestati, scalzati, concimati, con sudore e lacrime, con fatiche e sangue”… Eccoci al paese. Andate avanti tutti e chiedete alloggio. Tu, Giuda di Keriot, resta con Me».

Restano soli e, nelle penombre della sera, procedono vicini nel massimo silenzio.

Infine Gesù dice, come parlando a Se stesso: «Eppure, anche se si è caduti in disgrazia di Dio per avere contravvenuto alla sua Legge, sempre si può tornare ad essere ciò che eravamo, rinunciando al peccato…».

Giuda non risponde niente.

Gesù riprende: «E se si è capito che non si può più avere il potere da Dio, perché Dio non è là dove è satana, con facilità si può rimediare, preferendo ciò che Dio concede a ciò che vuole la superbia nostra».

Giuda tace.

Gesù -e sono già alla prima casa del paese- sempre come parlando a Se stesso dice: «E pensare che Io ho sofferto aspra penitenza perché egli si ravveda e torni al Padre suo…».

Giuda ha un sussulto, alza il capo, lo guarda… ma non dice nulla.

Anche Gesù lo guarda… e poi chiede: «Giuda, a chi parlo?».

«A me, Maestro. È per Te che io non ho più potere. Perché Tu me lo hai levato per aumentarlo a Giovanni, a Simone, a Giacomo, a tutti, fuorché a me. Non mi ami, ecco! E finirò per non amarti e per maledire l’ora in cui ti ho amato, rovinandomi agli occhi del mondo per un re imbelle che si lascia soverchiare anche dalla plebe. Non questo speravo da Te!».

«Neppure Io da te. Ma non ti ho mai ingannato, Io. E non ti ho mai costretto. Perché dunque rimani al mio fianco?».

«Perché ti amo. Non posso separarmi più da Te. Mi attiri e mi fai ribrezzo. Ti desidero come l’aria per il respiro e… mi fai paura. Ah! Sono maledetto! Sono dannato! Perché non mi cacci il demonio, Tu che puoi?». Il viso di Giuda è livido e stravolto, pazzo, pieno di paura e di odio… Ricorda già, sebbene pallidamente, la maschera satanica del Giuda del venerdì Santo.

E Gesù ricorda nel volto il Nazareno flagellato che, seduto nel cortile del Pretorio sul mastello capovolto, guarda i suoi schernitori con tutta la sua pietà amorosa. Dice, e sembra che un singhiozzo sia già nella sua voce: «Perché non c’è pentimento in te, ma solo ira contro Dio, quasi Egli fosse il colpevole del tuo peccato».

Giuda dice fra i denti una brutta imprecazione…

«Maestro, abbiamo trovato. Cinque in un luogo, tre nell’altro, due in un altro, e uno e uno in altri due. Non fu possibile fare meglio» dicono i discepoli.

«Va bene. Io vado con Giuda di Keriot» dice Gesù.

«No. Preferisco essere solo. Sono inquieto. Non ti lascerei riposare…».

«Come vuoi tu… Allora andrò con Bartolomeo. Voi farete ciò che vorrete. Intanto andiamo dove è più posto, per poter cenare insieme».

 

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

17 MARZO 2019 II DOMENICA DI QUARESIMA ANNO C Lc 9,28-36

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Dal Vangelo secondo Luca. (Lc 9,28-36)

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Luca. (Lc 9,28-36)
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme.
Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui.
Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa». Egli non sapeva quello che diceva.
Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!».
Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto. Parola del Signore.

RIFLESSIONI

Nella Trasfigurazione, Gesù è indicato come la vera speranza dell’uomo e come l’apogeo dell’Antico Testamento. Luca parla dell’“esodo” di Gesù, che contiene allo stesso tempo morte e risurrezione.
I tre apostoli, vinti dal sonno, che rappresenta l’incapacità dell’uomo di penetrare nel Mistero, sono risvegliati da Gesù, cioè dalla grazia, e vedono la sua gloria. La nube, simbolo dell’immensità di Dio e della sua presenza, li copre tutti. I tre apostoli ascoltano le parole del Padre che definiscono il Figlio come l’eletto: “Questi è il Figlio mio, l’eletto, ascoltatelo”. Non c’è altro commento. Essi reagiscono con timore e stupore. Vorrebbero attaccarsi a questo momento, evitare l’attimo seguente della discesa dalla montagna e il suo fardello di abitudine, di oscurità, di passione.
La Gloria, Mosè ed Elia, scompaiono. Non rimane “che Gesù solo”, sola verità, sola vita e sola via di salvezza nella trama quotidiana della storia umana. Questa visione non li solleverà dal peso della vita di tutti i giorni, spesso spogliata dello splendore del Tabor, e neanche li dispenserà dall’atto di fede al momento della prova, quando i vestiti bianchi e il viso trasfigurato di Gesù saranno strappati e umiliati. Ma il ricordo di questa visione li aiuterà a capire, “che attraverso la passione possiamo giungere al trionfo della risurrezione”.

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta. Capitolo 349

Chi mai fra gli uomini non ha visto, almeno per una volta, un’alba serena di marzo? Se quest’uno c’è, è un grande infelice, perché ignora una delle grazie più belle della natura risveglia­ta da primavera, tornata vergine, fanciulla, quale doveva esserlo nel primo giorno.

In questa grazia, che è pura in ogni suo aspetto e cosa -dalle erbe novelle e rugiadose ai fioretti che si dischiudono, co­me bimbi che nascono, al primo ridere della luce del giorno; agli uccelli che si destano con un frullo d’ali e dicono il primo cip? interrogativo, preludio a tutti i loro canori discorsi della giornata; all’odore stesso dell’aria che ha perduto nella notte, per il lavacro delle rugiade e l’assenza dell’uomo, ogni corruzio­ne di polvere, fumo e sentore di corpi umani- vanno Gesù, gli apostoli e i discepoli. È con essi anche Simone d’Alfeo.

Vanno in direzione sud est, valicando i colli che fanno coro­na a Nazaret, superando un torrente, traversando una pianura stretta fra i colli nazareni e un gruppo di monti verso est. Questi monti sono preceduti dal cono semitronco del Tabor che mi ricorda stranamente, nella sua vetta, la lucerna dei nostri ca­rabinieri vista di profilo. Lo raggiungono. Gesù si ferma e dice:

«Pietro, Giovanni e Giacomo di Zebedeo vengano con Me sul monte. Voi spargetevi alla sua base, dividendovi verso le strade che la costeggiano, e predicate il Signore. Verso sera voglio essere di nuovo a Naza­ret. Non allontanatevi dunque molto. La pace sia con voi».

E volgendosi ai tre chiamati dice: «Andiamo».

E prende la salita senza più volgersi indietro e con un passo così sollecito che fa faticare Pietro a stargli dietro.

In un momento di sosta Pietro, rosso e sudato, gli chiede col fiato grosso:

«Ma dove andiamo? Non ci sono case sul monte. Sul­la cima quella vecchia fortezza. Vuoi andare a predicare là?».

«Avrei preso l’altro versante. Ma tu vedi che gli volgo le spalle. Non andremo alla fortezza, e chi è in essa non ci vedrà neppure. Vado ad unirmi col Padre mio, e vi ho voluti con Me perché vi amo. Su, lesti!».

«Oh! mio Signore! Non potremmo andare un poco più ada­gio, invece, e parlare di quanto abbiamo sentito e visto ieri, che ci ha tenuti desti tutta la notte per parlarne?».

«Agli appuntamenti di Dio si va sempre veloci. Forza, Simon Pietro! Lassù vi farò riposare».

E riprende a salire…

(Dice Gesù: «Qui inserisci la Trasfigurazione avuta il 5 agosto 1944, ma senza il dettato unito alla stessa. Finito di co­piare la Trasfigurazione dello scorso anno, P. M. copierà ciò che ti mostro ora»).

5 agosto 1944.

Sono col mio Gesù su un alto monte. Con Gesù sono Pietro, Giacomo e Giovanni. Salgono ancor più in alto e l’occhio spazia per aperti orizzonti che un bel giorno sereno rende netti nei particolari fino nelle lontananze.

Il monte non fa parte di un sistema montano come è quello della Giudea; sorge isolato avendo, rispetto al luogo dove ci tro­viamo, l’oriente in faccia, il nord alla sinistra, il sud a destra e dietro, a ovest, la vetta che si alza di ancora qualche centinaio di passi. È molto elevato e l’occhio è libero di vedere per un lar­go raggio.

Deve essere primavera, forse marzo, se calcolo la latitudine della Palestina, perché vedo i grani già alti, ma ancora verdi, ondulare come un mare glauco, e vedo i pennacchi dei più pre­coci fra gli alberi da frutto mettere come delle nuvolette bianche e rosee su questo piccolo mare vegetale, poi prati tutti in fiore per gli alti fieni sui quali pecorelle pascolanti paiono mucchietti di neve ammucchiata qua e là sul verde.

Proprio vicino al monte, sulle colline che ne sono la base, basse e brevi colline, sono due cittadine, una verso sud, una verso nord. La pianura fertilissima si estende specialmente e più ampiamente verso il sud.

Gesù, dopo una breve sosta al fresco di un ciuffo di alberi, certo concessa per pietà di Pietro che nelle salite fatica palese­mente, riprende a salire. Va fin quasi sulla vetta, là dove è un pianoro erboso che ha un semicerchio di alberi verso la costa.

«Riposate, amici. Io vado là a pregare».

E accenna con la mano ad un ampio sasso, una roccia che affiora dal monte e che si trova perciò non verso la costa ma verso l’interno, la vetta. Gesù si inginocchia sulla terra erbosa e appoggia le mani e il capo al masso, nella posa che prenderà anche nella preghiera del Getsemani. Il sole non Lo colpisce perché la vetta Lo ripara. Ma il resto dello spiazzo erboso è tutto lieto di sole, sino al limi­te d’ombra dello scrimolo alberato sotto il quale si sono seduti gli apostoli.

Pietro si leva i sandali e ne scuote via polvere e sassolini e sta così, scalzo, coi piedi stanchi fra l’erba fresca, quasi steso, col ca­po su un ciuffo smeraldino che sporge più degli altri sulla sua zolla come un guanciale. Giacomo lo imita, ma per stare comodo cerca un tronco d’albero al quale appoggia il suo mantello e su questo le spalle. Giovanni resta seduto e osserva il Maestro. Ma la calma del luogo, il venticello fresco, il silenzio e la stanchezza vincono anche lui, e la testa gli si abbassa sul petto e così le pal­pebre sugli occhi. Non dormono profondamente nessuno dei tre, ma sono in quella sonnolenza estiva che intontisce.

Li scuote una luminosità così viva che annulla quella del sole e dilaga e penetra fin sotto il verde dei cespugli e alberi sotto cui si sono messi. Aprono gli occhi stupiti e vedono Gesù trasfigurato. Egli è ora tale e quale come Lo vedo nelle visioni del Paradiso. Natu­ralmente senza le Piaghe e senza il vessillo della Croce.

Ma la maestà del Volto e del Corpo è uguale, uguale ne è la lumino­sità, e uguale la veste che da un rosso cupo si è mutata nel diamantifero e perlifero tessuto immateriale che Lo veste in Cielo. Il suo Viso è un sole dalla luce siderale ma intensissima, nel quale raggiano gli occhi di zaffiro.

Sembra più alto ancora, co­me la sua glorificazione ne avesse aumentato la statura. Non saprei dire se la luminosità, che rende persino fosforescente il pianoro, provenga tutta da Lui o se alla sua propria si mesca quella che ha concentrata sul suo Signore tutta la luce che è nell’universo e nei Cieli. So che è qualche cosa di indescrivibile.

Gesù è ora in piedi, direi anzi che è alzato da terra, perché fra Lui e il verde del prato vi è come un vaporare di luce, uno spazio dato unicamente da una luce sul quale pare Egli si eri­ga. Ma è tanto viva che potrei anche ingannarmi, e il non vede­re più il verde dell’erba sotto le piante di Gesù potrebbe esser provocato da questa luce intensa che vibra e fa onde come si ve­de talora nei grandi fuochi. Onde, qui, di un colore bianco, in­candescente.

Gesù sta col Volto alzato verso il Cielo e sorride ad una sua visione che Lo sublima.
Gli apostoli ne hanno quasi paura e Lo chiamano, perché non pare più a loro che sia il loro Maestro tanto è trasfigurato.

«Mae­stro, Maestro», chiamano piano ma con ansia. Egli non sente.

«È in estasi» dice Pietro tremante. «Che vedrà mai?».

I tre si sono alzati in piedi. Vorrebbero accostarsi a Gesù, ma non osano.

La Luce aumenta ancora per due fiamme che scendono dal Cielo e si collocano ai lati di Gesù. Quando sono stabilite sul pianoro, il loro velo si apre e ne appaiono due maestosi e lumi­nosi personaggi.

L’uno più anziano, dallo sguardo acuto e seve­ro e da una lunga barba bipartita. Dalla sua fronte partono cor­ni di luce che me lo indicano per Mosè. L’altro è più giovane, scarno, barbuto e peloso, su per giù come il Battista, al quale direi assomiglia per statura, magrezza, conformazione e seve­rità. Mentre la luce di Mosè è candida come è quella di Gesù, specie nei raggi della fronte, quella che emana Elia è solare, di fiamma viva.

I due Profeti prendono una posa di riverenza davanti al loro Dio Incarnato e, sebbene Questi parli loro con famigliarità, essi non abbandonano la loro posa riverente. Non comprendo nep­pure una delle parole dette.

I tre apostoli cadono a ginocchio tremanti, col volto fra le mani. Vorrebbero vedere, ma hanno paura.

Finalmente Pietro parla: «Maestro, Maestro. Odimi».

Gesù gira lo sguardo con un sorriso verso il suo Pietro, che si rinfran­ca e dice:

«È bello lo stare qui con Te, Mosè e Elia. Se vuoi fac­ciamo tre tende per Te, per Mosè e per Elia, e noi stiamo qui a servirvi…».

Gesù lo guarda ancora e sorride più vivamente. Guarda an­che Giovanni e Giacomo. Uno sguardo che li abbraccia con amore. Anche Mosè e Elia guardano i tre fissamente. I loro oc­chi balenano. Devono essere come raggi che penetrano i cuori.

Gli apostoli non osano dire altro. Intimoriti, tacciono. Sem­brano un poco ebbri come chi è sbalordito. Ma quando un velo che non è nebbia, che non è nuvola, che non è raggio, avvolge e separa i Tre gloriosi dietro uno schermo ancor più lucido di quello che già li circondava e li nasconde alla vista dei tre, e una Voce potente e armonica vibra ed empie di sé lo spazio, i tre cadono col volto contro l’erba.

«Questo è il mio Figliuolo diletto, nel quale mi sono compia­ciuto. Ascoltatelo».

Pietro nel gettarsi bocconi esclama: «Misericordia di me, peccatore! È la Gloria di Dio che scende!».

Giacomo non fiata. Giovanni mormora con un sospiro, come fosse prossimo a sve­nire: «Il Signore parla!».

Nessuno osa alzare la testa anche quando il silenzio si è rifatto assoluto. Non vedono perciò neppure il tornare della luce alla sua naturalezza di luce solare e mostrare Gesù rimasto so­lo e tornato il Gesù solito nella sua veste rossa.

Egli cammina verso loro sorridendo e li scuote e tocca e chiama per nome.

«Alzatevi. Sono Io. Non temete» dice, perché i tre non osano alzare il volto e invocano misericordia sui loro peccati, temendo che sia l’Angelo di Dio che vuol mostrarli all’Altissimo.

«Levatevi, dunque. Ve lo comando» ripete Gesù con imperio. Essi alzano il volto e vedono Gesù che sorride.

«Oh! Maestro, Dio mio!» esclama Pietro.

«Come faremo a viverti accanto ora che abbiamo visto la tua gloria? Come fare­mo a vivere fra gli uomini, e noi, uomini peccatori, ora che ab­biamo udito la voce di Dio?».

«Dovrete vivermi accanto e vedere la mia gloria sino alla fi­ne. Siatene degni perché il tempo è vicino. Ubbidite al Padre mio e vostro. Torniamo ora fra gli uomini, perché sono venuto per stare fra essi e per portare essi a Dio. Andiamo. Siate santi per ricordo di quest’ora, forti, fedeli. Avrete parte alla mia più completa gloria. Ma non parlate ora di questo che avete visto ad alcuno. Neppure ai compagni. Quando il Figlio dell’Uomo sarà risuscitato dai morti e tornato nella gloria del Padre, allo­ra parlerete. Perché allora occorrerà credere per aver parte nel mio Regno».

«Ma non deve venire Elia per preparare al tuo Regno? I rabbi dicono così».

«Elia è già venuto ed ha preparato le vie al Signore. Tutto avviene come è stato rivelato. Ma coloro che insegnano la Rive­lazione non la conoscono e non la comprendono, e non vedono e riconoscono i segni dei tempi e i messi di Dio. Elia è tornato una volta. La seconda verrà quando il tempo ultimo sarà vicino per preparare gli ultimi a Dio.

Ma ora è venuto per preparare i primi al Cristo, e gli uomini non lo hanno voluto riconoscere e lo hanno tormentato e messo a morte. Lo stesso faranno col Fi­glio dell’Uomo, perché gli uomini non vogliono riconoscere ciò che è loro bene».

I tre chinano la testa pensosi e tristi, e scendono per la via dalla quale sono saliti insieme a Gesù.

[3 dicembre 1945].

…Ed è ancora Pietro che dice, in una sosta a mezza via: «Ah! Signore! Dico anche io come tua Madre ieri: “Perché ci hai fatto questo?”; e anche dico: “Perché ci hai detto questo?”.

Le tue ultime parole hanno cancellato la gioia della gloriosa vista dai nostri cuori! Gran giorno di paure questo! Prima ci ha fatto paura la grande luce che ci ha destati, più forte che se il monte ardesse o che se la luna fosse scesa a raggiare sul ripiano, sotto i nostri occhi; poi il tuo aspetto e il tuo staccarti dal suolo come fossi per volare via.

Ho avuto paura che Tu, disgustato dalle nequizie di Israele, te ne tornassi ai Cieli, magari per ordine dell’Altissimo. Poi ho avuto paura di vedere apparire Mosè, che i suoi del suo tempo non potevano più vedere senza velo tanto splendeva sul suo volto il riflesso di Dio, e ancora era uomo, mentre ora è spirito beato e acceso di Dio, e Elia… Misericordia divina!

Ho creduto essere giunto al mio ultimo momento, e tut­ti i peccati della mia vita, da quando rubavo le frutta nella di­spensa da piccino, all’ultimo di averti mal consigliato giorni so­no, mi sono venuti alla mente. Con che tremore me ne sono pentito! Poi mi parve che mi amassero quei due giusti… e ho osato parlare. Ma anche il loro amore mi faceva paura, perché io non merito l’amore di simili spiriti.

E dopo… e dopo!… La paura delle paure! La voce di Dio!… Geové che ha parlato! A noi! Ci ha detto: “Ascoltatelo!». Tu. E ti ha proclamato “suo Fi­glio diletto nel quale Egli si compiace”. Che paura! Geové!… a noi!… Certo solo la tua forza ci ha tenuti in vita!… Quando Tu ci hai toccato, e le tue dita ardevano come punte di fuoco, io ho avuto l’ultimo spavento. Ho creduto che fosse l’ora di essere giudicato e che l’Angelo mi toccasse per prendermi l’anima e portarla all’Altissimo…

Ma come ha fatto tua Madre a vedere… a sentire… a vivere, insomma, quell’ora che Tu hai detto ieri, senza morire, Lei che era sola, giovanetta, senza di Te?».

«Maria, la Senza Macchia, non poteva avere paura di Dio. Eva non ne aveva paura finché fu innocente. Ed Io c’ero. Io, il Padre e lo Spirito, Noi, che siamo in Cielo e in Terra e in ogni luogo, e che avevamo il nostro Tabernacolo nel cuore di Maria» dice dolcemente Gesù.

«Che cosa! Che cosa!… Ma dopo Tu hai parlato di morte… E ogni gioia è finita… Ma perché proprio a noi tre tutto questo? Non era bene darla a tutti questa visione della tua gloria?».

«Appunto perché tramortite udendo parlare di morte, e morte per supplizio, del Figlio dell’Uomo, l’Uomo-Dio vi ha vo­luto fortificare per quell’ora e per sempre con la precognizione di ciò che Io sarò dopo la Morte. Ricordatevi tutto questo, per dirlo a suo tempo… Avete capito?».

«Oh! sì, Signore. Non è possibile dimenticare. E sarebbe inutile raccontare. Ci direbbero “ebbri”».

Tornano ad andare verso la valle. Ma, giunti ad un punto, Gesù piega per un viottolo ripido in direzione di Endor, ossia dal lato opposto di quello nel quale ha lasciato i discepoli.

«Non li troveremo» dice Giacomo. «Il sole inizia la discesa. Si staranno radunando in tua attesa nel luogo dove li lasciasti».

«Vieni e non crearti stolti pensieri».

Infatti, come la boscaglia si apre in una prateria che scende mollemente a toccare la via maestra, vedono tutta la massa dei discepoli, accresciuta da viandanti curiosi, da scribi venuti da non so dove, agitarsi alla base del monte.

«Ohimè! Scribi!… E disputano già!» dice Pietro accennando­li. E scende gli ultimi metri a malincuore.

Ma anche quelli giù in basso li hanno visti e se li accennano e poi si danno a correre verso Gesù, gridando:

«Come mai, Maestro, da questa parte? Stavamo per venire al posto detto. Ma ci hanno trattenuti in dispute gli scribi e in suppliche un padre affannato».

«Di che disputavate fra voi?».

«Per un indemoniato. Gli scribi ci hanno scherniti perché non abbiamo potuto liberarlo. Ci si è messo Giuda di Keriot da capo, di puntiglio. Ma fu inutile. Allora abbiamo detto: “Mettetevici voi”. Hanno risposto: “Non siamo esorcisti”. Per caso sono passati alcuni venienti da Caslot-Tabor, fra i quali erano due esorcisti. Ma anche loro niente. Ecco il padre che viene a pre­garti. Ascoltalo».

Un uomo, infatti, viene avanti supplichevole e si inginocchia davanti a Gesù rimasto sul prato in pendenza, di modo che è più alto della via di almeno tre metri e ben visibile a tutti, perciò.

«Maestro» gli dice l’uomo, «io venivo a Cafarnao con il figlio mio per cercare Te. Te lo portavo, l’infelice figlio mio, perché Tu lo liberassi, Tu che cacci i demoni e guarisci ogni malattia. Egli è preso spesso da uno spirito muto. Quando lo prende, egli non può più che fare gridi rochi, come una bestia che si strozza.

Lo spirito lo butta a terra ed egli là si rotola digrignando i denti, spumando come un cavallo che morda il morso, e si ferisce o ri­schia di morire affogato o bruciato, oppure sfracellato, perché lo spirito più di una volta lo ha buttato nell’acqua, nel fuoco, o giù dalle scale. I tuoi discepoli ci si sono provati, ma non hanno potuto. Oh! Signore buono! Pietà di me e del mio fanciullo!».

Gesù fiammeggia di potenza mentre grida:

«O generazione perversa, o turba satanica, legione ribelle, popolo dell’inferno incredulo e crudele, fino a quando dovrò stare a contatto con te? Fino a quando ti dovrò sopportare?».

È imponente, tanto che si fa un silenzio assoluto e cessano i sogghigni degli scribi.

Gesù dice al padre: «Alzati e portami qui tuo figlio».

L’uomo va e torna con altri uomini, al centro dei quali è un ragazzo sui dodici-quattordici anni. Un bel fanciullo, ma dallo sguardo un poco ebete, come fosse sbalordito. Sulla fronte ros­seggia una lunga ferita e più sotto biancheggia una cicatrice antica.

Non appena vede Gesù che lo fissa coi suoi occhi ma­gnetici, ha un grido roco e un contorcimento convulsivo di tutto il corpo, mentre cade a terra spumando e rotando gli occhi, di modo che appare solo il bulbo bianco, mentre si rotola per terra nella caratteristica convulsione epilettica.

Gesù viene avanti qualche passo per giungergli vicino e di­ce: «Da quando gli avviene ciò? Parla forte, che tutti sentano».

E l’uomo, urlando, mentre il cerchio della folla si stringe e gli scribi si mettono più in alto di Gesù per dominare la scena, dice:

«Fin da bambino. Te l’ho detto: spesso cade nel fuoco, nell’acqua o giù dalle scale e dagli alberi, perché lo spirito lo as­sale all’improvviso e lo scaraventa così per finirlo. È tutto pieno di cicatrici e di bruciature. Molto è se non è rimasto accecato dalle fiamme del focolare. Nessun medico, nessun esorcista, neppure i tuoi discepoli lo hanno potuto guarire. Ma Tu, se, co­me credo fermamente, puoi qualche cosa, abbi pietà di noi e soccorrici».

«Se puoi credere così, tutto mi è possibile, perché tutto è concesso a chi crede».

«Oh! Signore, se io credo! Ma se ancora non credo a suffi­cienza, aumenta Tu la mia fede, perché sia completa e ottenga il miracolo» dice l’uomo piangendo, inginocchiato presso il fi­glio più che mai in convulsione.

Gesù si raddrizza, si tira indietro due passi e, mentre la folla più che mai stringe il suo cerchio, grida forte:

«Spirito ma­ledetto, che fai sordo e muto il fanciullo e lo tormenti, Io te lo comando: esci da lui e non rientrarvi mai più!».

Il fanciullo, pur stando coricato al suolo, fa dei balzi paurosi, puntando testa e piedi ad arco, e ha gridi disumani; poi, dopo un ultimo balzo, nel quale si rivolta bocconi battendo la fronte e la bocca su un masso emergente dall’erba, che si fa rossa di sangue, resta immoto.

«È morto!» gridano in molti.

«Povero fanciullo!», «Povero padre!» compiangono i migliori.

E gli scribi, ghignando: «Ti ha servito bene il Nazareno!», oppure: «Maestro, come è? Questa volta Belzebù ti ha fatto fare brutta figura…», e ridono veleno­samente.

Gesù non risponde a nessuno. Neppure al padre, che ha ri­voltato il figlio e gli asciuga il sangue della fronte e delle labbra ferite, gemendo, invocando Gesù. Ma si china, il Maestro, e prende per mano il fanciullo. E questo apre gli occhi con un sospirone, come si destasse da un sonno, si siede e sorride. Gesù lo attira a Sé, lo fa alzare in piedi e lo consegna al padre, men­tre la folla grida di entusiasmo e gli scribi fuggono, inseguiti dalle beffe della folla…

«E ora andiamo» dice Gesù ai suoi discepoli. E, congedata la folla, gira il fianco del monte portandosi sulla via già fatta al mattino.

Dice Gesù:

«E ora qui si può mettere il commento alla visione del 5 agosto 1944 (quaderno A 930) cominciando dalle parole: “Non ti eleggo soltanto a conoscere le tristezze del tuo Maestro e i suoi dolori. Chi sa stare meco nel dolore deve avere parte meco nel­la gloria”. E tu riposa, fedele, piccolo Giovanni, ché il tuo riposo è ben meritato. La mia pace sia gioia in te».

[5 agosto 1944].

Dice Gesù:

«Ti ho preparata a meditare la mia Gloria. Domani la Chiesa la celebra. Ma Io voglio che il mio piccolo Giovanni la veda nella sua verità per comprenderla meglio. Non ti eleggo soltan­to a conoscere le tristezze del tuo Maestro e i suoi dolori. Chi sa stare meco nel dolore deve aver parte meco nella gioia.

Voglio che tu, davanti al tuo Gesù che ti si mostra, abbia gli stessi sentimenti di umiltà e pentimento dei miei apostoli. Mai superbia. Saresti punita perdendomi. Continuo ricordo di Chi sono Io e di chi sei tu.

Continuo pensiero alle tue manchevolezze e alla mia perfe­zione per avere un cuore lavato dalla contrizione. Ma insieme anche tanta fiducia in Me.

Io ho detto: “Non temete. Alzatevi. Andiamo. Andiamo fra gli uomini perché sono venuto per stare con essi. Siate santi, forti e fedeli per ricordo di quest’ora”.

Lo dico anche a te e a tutti i miei prediletti fra gli uomini, a quelli che mi hanno in maniera speciale.

Non temete di Me. Mi mostro per elevarvi, non per incene­rirvi.

Alzatevi: la gioia del dono vi dia vigoria e non vi ottunda nel sopore del quietismo, credendovi già salvi perché vi ho mostra­to il Cielo.

Andiamo insieme fra gli uomini. Vi ho invitati a sovrumane opere con sovrumane visioni e lezioni perché possiate essermi di maggiore aiuto. Vi associo alla mia opera. Ma Io non ho cono­sciuto e non conosco riposo. Perché il Male non riposa mai e il Bene deve essere sempre attivo per annullare il più che si può l’opera del Nemico. Riposeremo quando il Tempo sarà compiu­to.

Ora occorre andare instancabilmente, operare continuamen­te, consumarsi indefessamente per la messe di Dio. Il mio con­tatto continuo vi santifichi, la mia lezione continua vi fortifichi, il mio amore di predilezione vi faccia fedeli contro ogni insidia.

Non siate come gli antichi rabbini che insegnavano la Rive­lazione e poi non le credevano al punto da non riconoscere i se­gni dei tempi e i messi di Dio. Riconoscete i precursori del Cri­sto nel suo secondo avvento, poiché le forze dell’Anticristo sono in marcia e, facendo eccezione alla misura che mi sono imposta, perché conosco che bevete a certe verità non per spirito sopran­naturale ma per sete di curiosità umana, vi dico in verità che quello che molti crederanno vittoria sull’Anticristo, la pace or­mai prossima, non sarà che sosta per dare tempo al Nemico del Cristo di ritemprarsi, medicarsi delle ferite, riunire il suo esercito per una più crudele lotta.

Riconoscete, voi che siete le “voci” di questo vostro Gesù, del Re dei re, del Fedele e Verace che giudica e combatte con giusti­zia e sarà il Vincitore della Bestia e dei suoi servi e profeti, ri­conoscete il vostro Bene e seguitelo sempre.

Nessun bugiardo aspetto vi seduca e nessuna persecuzione vi atterri. La vostra “voce” dica le mie parole. La vostra vita sia per quest’opera. E se avrete sorte, sulla terra, comune al Cristo, al suo Precursore e ad Elia, sorte cruenta o sorte tormentata da sevizie morali, sorridete alla vostra sorte futura e sicura che avrete comune con Cristo, con il suo Precursore, col suo Profeta.

Pari nel lavoro, nel dolore e nella gloria. Qui Io Maestro ed Esempio. Là Io Premio e Re. Avermi sarà la vostra beatitudine. Sarà dimenticare il dolore. Sarà quanto ogni rivelazione è an­cora insufficiente a farvi capire, perché troppo superiore è la gioia della vita futura alla possibilità di immaginare della crea­tura ancora unita alla carne».

Lezione ai discepoli sul potere di vincere i demoni.

Sono ora nella casa di Nazaret, nuovamente. Anzi, per essere più precisi, sono sparsi sul balzo degli ulivi in attesa di se­pararsi per il riposo. E hanno acceso un piccolo falò per rischia­rare la notte, perché è già sera e la luna si alza tardi.

Ma la se­ra è tiepida «fin troppo», sentenziano i pescatori prevedendo prossime piogge, ed è bello stare lì, tutti uniti, le donne nell’or­to fiorito intorno a Maria, gli uomini quassù; e sullo scrimolo del balzo, di modo da essere ugualmente di questi e di quelle, Gesù, che risponde a questo o a quello, mentre le discepole ascoltano attente. Deve essere stato raccontato del lunatico guarito ai piedi del monte e ancora ne durano i commenti.

«Ci sei voluto proprio Tu!» esclama il cugino Simone.

«Oh! ma neppure vedendo che anche i loro esorcisti non po­tevano nulla, pure confessando di avere usato le formule più forti, li ha persuasi quei gheppi!» dice crollando il capo il tra­ghettatore Salomon.

«E neppure dicendo agli scribi le loro conclusioni, li persua­deranno».

«Già! Mi pareva che parlassero bene, non è vero?» domanda uno che non conosco.

«Molto bene. Hanno escluso ogni sortilegio demoniaco nel potere di Gesù, dicendo che essi si sono sentiti invasi da pace profonda quando il Maestro fece il miracolo, mentre, dicevano, quando esce, da uno, potere malvagio essi lo sentono come una sofferenza» risponde Erma.

«Però, eh? che spirito forte! Non se ne voleva andare! Ma come mai, poi, non lo teneva sempre? Era uno spirito scacciato, sperduto, oppure è tanto santo il fanciullo che di suo lo caccia­va?» chiede un altro discepolo del quale non so il nome.

Gesù risponde di spontanea volontà:

«Ho più volte spiegato che ogni malattia, essendo un tormento e un disordine, può ce­lare satana, e satana può celarsi in una malattia, usarla, crearla per tormentare e fare bestemmiare Dio.

Il fanciullo era un malato, non un posseduto. Un’anima pura. Per questo tanto con gioia l’ho liberata dall’astutissimo demonio che voleva do­minarla tanto da renderla impura».

E perché, allora, se era una semplice malattia, noi non ci siamo riusciti?» chiede Giuda di Keriot.

«Già! Gli esorcisti si capisce che non potessero nulla se non era un indemoniato! Ma noi…» osserva Tommaso.

E Giuda di Keriot, al quale non va giù lo scacco di aver pro­vato molte volte sul fanciullo, ottenendo soltanto di farlo cade­re in smanie se non in convulsioni, dice:

«Ma noi, anzi, sembra­va gli si facesse peggio. Ti ricordi, Filippo? Tu che mi aiutavi hai sentito e visto i lazzi che egli mi faceva. Mi ha persino det­to: “Và via! Fra me e te il più demonio sei tu”. Il che ha fatto ri­dere alle mie spalle gli scribi».

«E te ne sei dispiaciuto?» chiede Gesù come con noncuranza.

«Certo! Non è bello essere beffati. E non è utile quando si è tuoi apostoli. Ci si perde di autorità».

«Quando si ha Dio con sé, si è autorevoli anche se tutto il mondo beffa, Giuda di Simone».

«Va bene. Ma però Tu aumenta, almeno in noi apostoli, il potere. Perché certe disfatte non ci succedano più».

«Che Io aumenti il potere non è giusto e non servirebbe. Voi lo dovete fare di vostro, per riuscire. È per vostra insufficienza che non siete riusciti, e anche per avere sminuito quanto vi avevo dato con elementi non santi, che avete voluto aggiungere sperando maggiori trionfi».

«Lo dici per me, Signore?» chiede l’Iscariota.

«Tu saprai se lo meriti. Io parlo a tutti».

Bartolomeo chiede: «Ma allora cosa è necessario avere per vincere questi demoni?».

«La preghiera e il digiuno. Non necessita altra cosa. Pregate e digiunate. E non solo nella carne. Perciò bene è che il vostro or­goglio sia rimasto digiuno di soddisfazione. L’orgoglio sazio rende apatica la mente e l’anima, e diviene tiepida, inerte l’ora­zione, così come il corpo troppo sazio è sonnolento e pesante.

E ora andiamo pure noi al giusto riposo. Domani all’alba tutti, meno Mannaen e i discepoli pastori, siano sulla via di Cana. Andate. La pace sia con voi».

Ma poi trattiene Isacco e Mannaen e dà particolari istruzio­ni per il domani, giorno di partenza per le discepole e Maria, che insieme a Simone d’Alfeo e Alfeo di Sara iniziano il pelle­grinaggio pasquale.

«Passerete da Esdrelon perché Marziam veda il vecchio. Da­rete ai contadini la borsa che vi ho fatto dare da Giuda di Keriot. E per il viaggio soccorrerete con l’altra, che Io vi ho dato poco fa, quanti poveri incontrate. Giunti a Gerusalemme, anda­te a Betania e dite di attendermi per la neomenia di nisam. Po­trò tardare ben poco da quel giorno. Vi affido la persona a Me più cara e le discepole. Ma sto tranquillo che esse saranno sicu­re. Andate. Ci rivedremo a Betania e staremo a lungo insieme».

Li benedice e, mentre essi si allontanano nella notte, Egli balza giù, nell’orto, ed entra in casa dove già sono le discepole e la Madre, che con Marziam stanno stringendo i cordoni delle sacche da viaggio e disponendo ogni cosa per l’assenza la cui durata non è nota.

 

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

10 Marzo 2019 I DOMENICA DI QUARESIMA ANNO C Lc 4,1-13

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Luca. (
Lc 4,1-13)
In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”».
Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”».
Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano”; e anche: “Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”».
Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato. Parola del Signore.

RIFLESSIONI

La Quaresima si apre con il racconto delle tentazioni di Gesù. Poste alla soglia del suo ministero pubblico, esse sono in qualche modo l’anticipazione delle numerose contraddizioni che Gesù dovrà subire nel suo itinerario, fino all’ultima violenza della morte. In esse è rivelata l’autenticità dell’umanità di Cristo, che, in completa solidarietà con l’uomo, subisce tutte le tentazioni tramite le quali il Nemico cerca di distoglierlo dalla sua completa sottomissione al Padre. “Cristo tentato dal demonio! Ma in Cristo sei tu che sei tentato” (sant’Agostino).
In esse viene anticipata la vittoria finale di Cristo nella risurrezione. Cristo inaugura un cammino – che è l’itinerario di ogni essere umano – dove nessuno potrà impedire che il disegno di Dio si manifesti per tutti gli uomini: la sua volontà di riscattarlo, cioè di recuperare per l’uomo la sovranità della sua vita in un libero riconoscimento della sua dipendenza da Dio.
È nell’obbedienza a Dio che risiede la libertà dell’uomo. L’abbandono nelle mani del Padre – “Io vivo per il Padre” – è la fonte dell’unica e vera libertà, che consiste nel rifiutare di venire trattati in modo diverso da quello che siamo. Il potere di Dio la rende possibile.