XXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C 1 Settembre 2019

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 14,1.7-14)
Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo.
Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti». Parola del Signore.

RIFLESSIONI

Diventare cristiani – cammino che dura tutta la nostra vita – significa non tanto imparare delle cose su Dio, neppure osservare delle regole dettate da lui, ma vivere un rapporto di amore con Gesù. L’amore tocca tutto: il modo di pensare, di vedere e di agire. Gesù ha continuamente invitato a questo tipo di rapporto: i Vangeli contengono questo invito (rimanete nel mio amore!), e sono nati da persone che hanno vissuto un profondo rapporto di amore con Gesù, che ha permesso loro di ricordare quanto Gesù ha fatto e ha insegnato, e di comprenderlo alla luce della sua morte e risurrezione.
Nella pagina di Vangelo di questa domenica Gesù ci racconta due parabole che mettono a confronto quello che lui “vede” fare dagli uomini e, potremmo dire, quello che “vede” fare dal Padre, invitandoci a passare piano piano dal nostro modo di vedere la vita al suo. Molti insegnamenti di Gesù nascono in luoghi semplici e ordinari, come il caso di oggi. Gesù in un giorno festivo di sabato, dopo aver partecipato al culto nella sinagoga, accoglie l’invito a pranzo da un capo dei farisei (persone impegnate a vivere con molta attenzione le norme della legge data da Dio attraverso Mosè). Gesù “osserva”, cioè guarda con attenzione un fatto umano: gli invitati a pranzo sono tutti preoccupati di scegliere i posti di onore. Poi racconta una parabola (probabilmente ai pochi che erano attorno a lui, che potevano sentirlo). Quando sei invitato non scegliere i primi posti, ma gli ultimi; se ti spetta un posto più importante e sarai invitato a cambiare, non potrai che esserne onorato. Invece se fai il contrario, dovrai sentire vergogna. Gesù ci invita ad essere “furbi” e scegliere il cammino più adeguato per ricevere onore, non cercandolo da noi stessi ma ricevendolo dagli altri.
Dove entra Dio in questa parabola? Nella conclusione: chi si esalta sarà umiliato (Dio lo abbasserà), chi si umilia sarà esaltato (da Dio). Gesù ci invita a dare valore a come ci vede Dio rispetto a come ci vedono gli uomini: davanti a Lui siamo tutti piccoli e deboli (come ricorda la lettura, dal libro sapienziale del Siracide). Occorre distinguere l’invito di Gesù ad essere umili dall’atteggiamento di chi si disprezza, non riconosce il proprio valore (quello che la psicologia chiama bassa stima di sé, che non è segno di maturità e equilibrio e non permette di essere veramente umili).

IO SONO LA LUCE DEL MONDO IL VANGELO DEL GIORNO XXI DOMENICA E SETTIMANA TEMPO ORDINARIO ANNO C IL VANGELO

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta Capitolo 335

Vedo Gesù camminare rapidamente per una via maestra che il vento freddo di un mattino d’inverno spazza e indurisce. I campi, al di qua e al di là della strada, hanno appena una timida peluria di messi che spuntano, una velatura di verde in cui è una promessa di futuro pane, ma una promessa appena appena pensata. Vi sono i solchi ombrosi ancora privi di questo verde benedetto, e solo quelli nei posti più solatii hanno quel verzicare così lieve e già così festoso perché parla di prossima primavera.

Gli alberi da frutto sono ancora nudi, neppure una gemma si gonfia sui loro rami scuri. Solo gli ulivi hanno il loro eterno bigio verde, triste tanto sotto al sole d’agosto come sotto questo chiarore di prima mattina invernale. E con loro hanno verde, un verde pastoso di ceramiche appena tinte, le grasse foglie delle cactacee.

Gesù cammina, come sovente, di due o tre passi avanti i discepoli. Sono tutti ben coperti nei loro mantelli di lana.

Ad un punto Gesù si ferma e si volge interpellando i discepoli: «Siete pratici della via?».

«La via è questa, ma poi la casa dove sia non lo si sa, perché è nell’interno… Forse là dove è quel folto di ulivi…».

«No. Deve essere là in fondo, invece, dove sono quei grossi alberi spogli…».

«Ci dovrebbe essere una via per i carri…».

Insomma non sanno niente di preciso. Persone per la via e per i campi non se ne vedono. Vanno a caso, in avanti, cercando la via.

Trovano una piccola casetta di poveri, con due o tre campicelli intorno. Una fanciulla sta attingendo l’acqua da un pozzo.

«Pace a te, bambina», dice Gesù fermandosi sul limitare della siepe, che ha un varco per chi va e viene.

«Pace a te. Che vuoi?».

«Una indicazione. Dove è la casa di Ismaele il fariseo?».

«Sei fuori strada, Signore. Devi tornare al bivio e prendere quella che va dove tramonta il sole. Ma devi camminare molto molto, perché devi tornare là, al bivio, e poi andare, andare. Hai mangiato? Fa freddo e lo stomaco vuoto lo fa sentire di più. Entra, se vuoi. Siamo poveri. Ma anche Tu non sei ricco. Ti puoi adattare. Vieni». E chiama con voce acuta: «Mamma!».

Si fa sulla soglia una donna sui trentacinque, quarant’anni. Ha un volto onesto, ma un poco triste. Fra le braccia ha un bambino di circa tre anni, mezzo svestito.

«Entra. Il fuoco è acceso. Ti darò latte e pane».

«Non sono solo. Ho questi amici».

«Entrino tutti e la benedizione di Dio coi pellegrini che ospito».

Entrano in una cucina bassa e scura che rallegra un fuoco vivo. Si siedono qua e là su rozze cassapanche.

«Ora vi preparo… È mattina… Non ho ancora ordinato nulla… Scusate».

«Sei sola?».

È Gesù che parla.

«Ho marito e figli. Sette. I due più grandi sono ancora al mercato di Naim. Vi devono andare loro perché il marito è malato. Un grande dolore!… Le bambine mi aiutano. Questo è il più piccino. Ma ne ho un altro appena di poco più grande».

Il piccino, ormai vestito della sua tunichella, corre a piedi scalzi verso Gesù e Lo guarda curiosamente. Gesù gli sorride. L’amicizia è fatta.

«Chi sei?», chiede il bambino con confidenza.

«Sono Gesù».

La donna si volge a guardarlo attentamente. È rimasta con un pane fra le mani, fra focolare e tavolo. Apre la bocca per parlare, ma poi tace.

Il bambino continua: «Dove vai?».

«Per le vie del mondo».

«A far che?».

«A benedire i bambini buoni e le loro case dove si è fedeli alla Legge».

La donna torna a fare un gesto. Poi fa un cenno a Giuda Iscariota, che è quello a lei più vicino. Egli si curva verso la donna che chiede: «Ma chi è il tuo amico?».

E Giuda, tronfio: «È il Rabbi di Galilea, Gesù di Nazareth. Non lo sai, donna?».

«Questa è via fuori mano ed io ho tanti dolori!… Ma… potrei dirli a Lui?».

«Puoi», dice con sussiego Giuda. Mi sembra un pezzo gross­o del mondo che conceda udienza…

Gesù continua a parlare col bambino che gli chiede se ha anche Lui bambini.

Mentre la fanciulla già vista e un’altra più grandicella portano latte e stoviglie, la donna va vicino a Gesù. Resta un poco in sospeso, poi ha un grido soffocato: «Gesù, pietà di mio marito!».

Gesù si alza. La signoreggia colla sua statura, ma la guarda con tanta bontà che ella si rinfranca. «Che vuoi che Io faccia?».

«È molto malato. Gonfio come un otre, non può più piegarsi e lavorare. Non trova riposo perché affoga, e smania… E abbiamo i bambini ancora piccini…».

«Vuoi che Io lo guarisca? Ma perché lo vuoi da Me?».

«Perché Tu sei Tu. Io non ti conoscevo, ma ho sentito parlare di Te. La sorte ti ha condotto alla mia casa dopo che per tre volte io ti ho cercato a Naim e a Cana. Due volte c’era anche mio marito. Cercava Te, per quanto l’andare sul carro lo faccia tanto soffrire… Anche ora è via con suo fratello… Ci hanno riportato che il Rabbi, lasciata Tiberiade, andava verso Cesarea di Filippo. È andato là ad aspettarti…».

«Non sono andato a Cesarea. Vado dal fariseo Ismaele e poi andrò verso il Giordano…».

«Tu, buono, da Ismaele?».

«Sì. Perché?».

«Perché… perché… Signore, io so che Tu dici di non giudicare, di perdonare e di amarsi. Non ti ho mai visto. Ma ho cercato di sapere di Te il più che potevo e pregavo l’Eterno di poterti udire almeno una volta. Non voglio far cosa che ti dispiaccia… Ma come poter non giudicare Ismaele e amarlo? Io nulla ho di comune con lui e perciò non ho niente da perdonargli. Le insolenze che ci getta quando incontra la nostra povertà sul suo cammino le scuotiamo da noi, con la stessa pazienza con cui scuotiamo fango e polvere che egli ci getta quando passa veloce coi suoi cocchi. Ma amarlo e non giudicarlo è troppo difficile… È tanto cattivo!».

«È tanto cattivo? Con chi?».

«Con tutti. Opprime i servi, dà a usura e crudelmente esige. Non ama che sé. È il più crudele della contrada. Non merita, Signore».

«Lo so. Dici il vero».

«E Tu vai là?».

«Mi ha invitato».

«Diffida, Signore. Non lo avrà fatto per amore. Non ti può amare. E Tu… non lo puoi amare».

«Io amo anche i peccatori, donna. Sono venuto per salvare chi è perduto…».

«Ma questo non lo salverai. Oh! perdono di aver giudicato! Tu sai… Tutto è bene ciò che fai! Perdona alla mia lingua stolta e non mi punire».

«Non ti punisco. Ma non lo fare più. Ama anche i malvagi. Non per la loro malvagità, ma perché è con l’amore che si ottiene loro la misericordia che converte.

Tu sei buona e vogliosa di esserlo più ancora. Tu ami la verità, e la Verità che ti parla ti dice che ti ama perché sei pietosa secondo la legge all’ospite e al pellegrino e così hai allevato i tuoi figli. Dio sarà il tuo compenso.

Io devo andare da Ismaele che mi ha invitato per mostrarmi a molti suoi amici che mi vogliono conoscere. Non posso attendere oltre tuo marito che, sappilo, è sulla via del ritorno. Ma dì a lui di soffrire ancora per un poco e di venire subito da Ismaele. Vieni tu pure. Io lo guarirò».

«Oh! Signore!…». La donna è a ginocchi ai piedi di Gesù e Lo guarda con riso e pianto. Poi dice: «Ma è sabato oggi!…».

«Lo so. Ho bisogno che sia sabato per dire qualcosa in merito ad Ismaele. Tutto quanto Io faccio, lo faccio con uno scopo chiaro e senza errore. Sappiatelo tutti, anche voi, amici miei che avete paura e vorreste Io seguissi una condotta secondo le convenienze umane per non averne danno.

È l’amore che vi guida. Lo so. Ma dovete saper amare meglio chi amate. Non posponendo mai l’interesse divino all’interesse dell’amato vostro. Donna, Io vado e ti attendo. La pace sia perenne in questa casa, dove si ama Dio e la sua legge ed è rispettato il coniugio e allevata santamente la prole, amato il prossimo e cercata la Verità. Addio».

Gesù posa la mano sul capo della donna e delle due giovinettine e poi si curva a baciare i bambini più piccoli ed esce.

Ora un solicello d’inverno tempera l’aria cruda. Un ragazzo di un quindici anni attende con un rustico carro molto sconquassato.

«Non ho che questo, Signore. Ma farai sempre più presto e con più comodo».

«No, donna. Serbati fresco il cavallo per venire da Ismaele. Mostrami solo la strada più breve».

Il ragazzo si pone al suo fianco e, per campi e prati, vanno verso una ondulazione del suolo, oltre la quale vi è un’ampia conca di qualche ettaro, ben coltivata, al centro della quale è una bella casa larga e bassa, stretta da una fascia di giardino ben coltivato.

«La casa è quella, Signore», dice il ragazzo. «Se non ti occorro più, torno a casa per aiutare la mamma».

«Vai e sii sempre un figlio buono. Dio è con te»…

…Gesù entra nella sontuosa casa di campagna di Ismaele. Servi in gran numero corrono incontro all’Ospite, certo atteso. Altri vanno ad avvisare il padrone, il quale esce con grandi inchini incontro a Gesù.

«Bene vieni, Maestro, alla mia casa!».

«Pace a te, Ismael ben Fabi. Mi hai desiderato. Vengo. Perché mi hai voluto?».

«Per esser onorato di averti e per presentarti ai miei amici. Voglio siano anche i tuoi. Come voglio Tu sia mio amico».

«Io sono amico di tutti, Ismaele».

«Lo so. Ma sai! È bene avere amicizie in alto. E la mia e quelle dei miei amici sono tali. Tu, perdona se te lo dico, trascuri troppo coloro che ti possono appoggiare…».

«E tu sei di questi? Perché?».

«Io sono di questi. Perché? Perché ti ammiro e voglio che Tu mi sia amico».

«Amico! Ma sai tu, Ismaele, il significato che Io do a questa parola? Per molti amico vuol dire conoscente, per altri complice, per altri servo. Per Me vuol dire: fedele alla Parola del Padre. Chi non è tale non può essermi amico, né Io di lui».

«Ma è appunto perché voglio esser fedele che voglio la tua amicizia, Maestro. Non lo credi? Guarda: ecco Eleazar che giunge. Domanda a lui come io ti ho difeso presso gli Anziani. Eleazar, io ti saluto. Vieni, che il Rabbi ti vuole chiedere una cosa».

Grandi saluti e reciproche occhiate indagatrici.

«Dì tu, Eleazar, quanto dissi del Maestro l’ultima volta che fummo riuniti», dice Ismaele. Poi se ne va, lasciando l’amico presso Gesù.

«Oh! un vero elogio! Una difesa appassionata! Vaghezza di sentirti mi venne allora, tanto Ismaele parlò di Te, Maestro, come del Profeta più grande venuto al popolo d’Israele. Mi ricordo che disse che nessuno aveva parola più profonda della tua, fascino più grande e che, se come sai parlare saprai reggere la spada, non vi sarà re più grande di Te in Israele».

«Il mio Regno!… Non è umano, Eleazar, questo Regno».

«Ma il re d’Israele?!».

«Si aprano le vostre menti a comprendere il senso delle parole arcane. Verrà il Regno del Re dei re. Ma non nella misura umana. Non per quanto perisce, ma per ciò che è eterno. Ad esso si accede non per fiorita via di trionfi né su porpureo tappeto di sangue nemico. Ma per erto sentiero di sacrificio e per mite scala di perdono e d’amore. Le vittorie contro noi stessi ci daranno questo Regno.

E voglia Iddio che il più gran numero d’Israele possa capirmi. Ma non sarà così. Voi pensate ciò che non è. Nella mia mano sarà uno scettro, e il popolo d’Israele lo avrà messo. Regale e eterno. Nessun re potrà più levarlo alla mia Casa. Ma molti in Israele non potranno vederlo senza fremere di orrore, perché avrà un nome per loro atroce».

«Tu non ci credi capaci di seguirti?».

«Se lo voleste, potreste. Ma non volete. Perché non volete? Siete anziani, ormai. L’età dovrebbe darvi comprensione e giustizia. Giustizia anche per voi stessi. I giovani… essi potranno errare e poi pentirsi. Ma voi! La morte è sempre prossima agli anziani. Eleazar, tu sei meno avviluppato nelle teorie di molti tuoi simili. Apri il tuo cuore alla Luce…».

Torna Ismaele con altri cinque pomposi farisei.

«Venite dunque nella casa», dice il padrone di essa. E, lasciato l’atrio, ricco di sedili e tappeti, entrano in una stanza dove vengono portate anfore e catini per le abluzioni. Poi passano nella sala da pranzo, molto riccamente preparata.

«Gesù al mio fianco. Fra me e Eleazar», ordina il padrone. E Gesù, che si era tenuto nel fondo della sala presso i discepoli un poco intimoriti e trascurati, deve sedersi al posto d’onore.

Il convito ha inizio con numerose portate di carni e pesci arrostiti. Vini e, mi sembra, sciroppi, o per lo meno acque con miele, passano e ripassano.

Tutti cercano di far parlare Gesù. Uno, un vecchio tutto tremolante, chiede con voce chioccia di decrepito: «Maestro. È vero quel che si dice, che Tu intendi modificare la Legge?».

«Io non muterò un iota alla Legge. Anzi sono proprio venuto per renderla di nuovo integra come quando fu data a Mosè».

«Vorresti dire che fu modificata?».

«Non mai. Unicamente subì la sorte di tutte le cose eccelse poste in mano all’uomo».

«Vorresti dire? Specifica».

«Voglio dire che l’uomo, per l’antica superbia o per l’antico fomite della triplice lussuria, volle ritoccare la lineare parola e ne fece qualcosa che opprime i fedeli, mentre per i ritoccatori non è che un cumulo di frasi che… vanno lasciate agli altri».

«Ma, Maestro! I nostri rabbini…».

«Questa è un’accusa!».

«Non ci deludere nel nostro desiderio di giovarti!…».

«Eh! Eh! Hanno ragione a dirti ribelle!».

«Silenzio! Gesù è mio ospite. Parli liberamente».

«I nostri rabbini iniziarono la loro fatica con lo scopo santo di rendere più facile l’applicazione della Legge. Lo stesso Iddio iniziò questa scuola quando alle parole dei dieci Comandi aggiunse più minute spiegazioni. Ciò perché l’uomo non avesse a sua scusa il non aver saputo capire.

Opera santa, dunque, quella dei maestri che spezzano in briciole ai piccoli di Dio il pane dato da Dio allo spirito. Ma santa se segue retto fine. Ciò non fu sempre. Ed ora lo è meno che mai. Ma perché mi volete far dire, voi che vi offendete se Io vi enumero le colpe dei potenti?».

«Colpe! Colpe! Non abbiamo che colpe noi?».

«Io vorrei aveste solo meriti!».

«Ma non li abbiamo. Tu lo pensi e il tuo occhio lo dice. Gesù, non è criticando che si fanno amici i potenti. Tu non regnerai. Non ne sai l’arte».

«Io non chiedo di regnare come voi credete e non mendico amicizie. Voglio amore. Ma onesto e santo. Un amore che da Me vada a quelli che amo, e che si dimostri usando verso i poveri quello che Io predico di usare: misericordia».

«Io, da quando ti ho udito, non ho più dato ad usura», dice uno.

«E Dio te ne darà compenso».

«Il Signore mi è testimonio se ho più percosso i servi che meriterebbero frustate, da quando mi fu detta una tua parabola», dice un altro.

«Ed io? Più di dieci moggia di orzo ho lasciato nei campi per i poveri!», fa un altro ancora.

I farisei si lodano egregiamente.

Ismaele non ha parlato. Gesù l’interpella: «E tu, Ismaele?».

«Oh! io! Io ho sempre usato misericordia. Non ho che da continuare come sempre ho agito».

«Buon per te! Se così è realmente tu sei l’uomo che non conosce rimorsi».

«Oh! no davvero!».

Gesù lo trapana col suo occhio di zaffiro.

Eleazar lo tocca sul braccio: «Maestro, ascoltami. Io ho un caso speciale da sottoporti. Ho acquistato di recente una proprietà da un disgraziato che si è rovinato per una donna. Questo me l’ha venduta, ma senza dirmi che in essa vi è una vecchia serva, la sua nutrice, ormai cieca e semiebete. Il venditore non la vuole. Io… non la vorrei. Ma gettarla in mezzo alla via… Che faresti Tu, Maestro?».

«Tu che faresti se dovessi dare ad altro un consiglio?».

«Direi: “Tienila. Non sarà un pane quel che ti rovina”».

«E perché diresti così?».

«Mah!… perché penso che io farei così e vorrei che così mi venisse fatto…».

«Tu sei molto prossimo alla giustizia, Eleazar. Fa come consiglieresti e il Dio di Giacobbe sarà sempre con te».

«Grazie, Maestro».

Gli altri brontolano fra loro.

«Che avete da mormorare?», chiede Gesù. «Non ho detto giusto? E costui non ha giustamente parlato? Ismaele, difendi i tuoi ospiti, tu che hai sempre usato misericordia».

«Maestro, Tu parli bene ma… se si facesse sempre così!… Si sarebbe vittime degli altri».

«Ed è meglio, secondo te, che siano gli altri vittime nostre, non è vero?».

«Non dico questo. Ma vi sono casi…».

«La Legge dice di avere misericordia…».

«Sì, per il fratello povero, per il forestiero, il pellegrino, la vedova e l’orfano. Ma questa vecchia, che è capitata fra le braccia di Eleazar, non è sua sorella, né pellegrina, forestiera, orfana o vedova. Nulla è per lui. Né più né meno che un vecchio arredo, non suo, dimenticato dal vero padrone nella tenuta venduta. Perciò Eleazar la potrebbe anche cacciare senza scrupoli di sorta. Infine la colpa della morte della vecchia non sarebbe sua. Ma del suo vero padrone…».

«…il quale non la può più mantenere essendo povero lui pure, e perciò anche lui è esente da obblighi. Di modo che, se la vecchia muore di fame, la colpa è della vecchia. Non è così?».

«Così, Maestro. È la sorte di coloro che… non servono più. Malati, vecchi, inabili, sono condannati alla miseria, alla mendicità. E la morte è la cosa migliore per essi… Così è da quando è il mondo, e così sarà…».

«Gesù, abbi pietà di me!».

Un lamento entra dalle finestre sbarrate, perché la sala è chiusa e coi lampadari accesi. Forse per il freddo.

«Chi mi chiama?».

«Qualche importuno. Lo farò cacciare. O qualche mendico. Farò dare un pane».

«Gesù, sono malato. Salvami!».

«L’ho detto. Un importuno. Punirò i servi per averlo fatto passare». E Ismaele si alza.

Ma Gesù, più giovane di almeno venti anni e più alto di tutto il collo e capo, lo ripone a sedere ponendogli la mano sulla spalla e ordinando: «Resta, Ismaele. Voglio vedere costui che mi cerca. Fate entrare».

Entra un uomo con capelli ancora neri. Può avere una quarantina d’anni. Ma è gonfio come una botte e giallo come un limone, con le labbra violacee semiaperte nella bocca anelante. Lo accompagna la donna della prima parte della visione.

L’uomo avanza a fatica per malattia e per timore. Si vede guardato così malamente! Ma Gesù ha lasciato il suo posto ed è andato presso all’infelice prendendolo per mano e portandolo al centro della sala, nello spazio vuoto fra le tavole messe a “u”. Proprio sotto al lampadario.

«Che vuoi da Me?».

«Maestro… ti ho tanto cercato… da tanto… Nulla voglio fuorché salute… per i miei bambini e la mia donna… Tu puoi tutto… Vedi come sono ridotto…».

«E credi che Io ti possa guarire?».

«Se lo credo!… Ogni passo m’è dolore… ogni scossa pena… ma pure ho fatto chilometri per cercarti… e poi col carro ti sono venuto ancora dietro… ma non ti raggiungevo mai… Se lo credo! Mi fa stupore non esser già guarito da quando la mia mano è nella tua, poiché tutto di Te è santo, o Santo di Dio».

Il poveretto soffia come un mantice per lo sforzo di tante parole. La moglie guarda il marito e Gesù, e piange.

Gesù li guarda e sorride. Poi si volge e chiede: «Tu, vecchio scriba rispondi a Me: è lecito guarire in sabato?».

«In sabato non è lecito fare opera alcuna».

«Neppure salvare uno dalla disperazione? Non è lavoro manuale».

«Il sabato è sacro al Signore».

«Quale opera più degna di un giorno sacro di quella di far sì che un figlio di Dio dica al Padre: “Io ti amo e lodo perché m’hai guarito”?!».

«Deve farlo anche se infelice».

«Canania, lo sai che in questo momento il tuo bosco più bello sta ardendo e tutta la pendice dell’Hermon splende nella porpora delle fiamme?».

Il vecchietto schizza come l’avesse morso un aspide: «Maestro, dici il vero o scherzi?».

«Dico il vero. Io vedo e so».

«Oh! me misero! Il mio bosco più bello! Migliaia di sicli in cenere! Maledizione! Siano maledetti i cani che me l’hanno messo a fuoco! Ardano nelle viscere come il mio legno!».

Il vecchietto è disperato.

«Non è che un bosco, Canania, e ti lamenti! Perché non dai lode al Signore in questa sventura? Costui perde non del legno, che rinasce, ma la vita e il pane per i figli, e dovrebbe dar la lode che tu non dai. Dunque, scriba, non m’è lecito guarire in sabato costui?».

«Maledetto Te, lui e il sabato! Ho ben altro da pensare io…»; e, dato uno spintone a Gesù che gli aveva posto una mano sul braccio, esce furente e si ode che sbraita con la sua voce chioccia per avere il suo carro.

«E ora?», Gesù chiede girando lo sguardo sugli altri. «E ora ditemi voi. È lecito o meno?».

Nessuna risposta. Eleazar china il capo dopo aver socchiuso le labbra, che però richiude, colpito dal gelo che si è fatto nella sala.

«Ebbene Io parlerò», dice Gesù. Ed è imponente e tonante nell’aspetto e nella voce, come sempre quando sta per operare miracolo. «Io parlerò. Parlo. Dico: uomo, ti sia fatto secondo che credi. Tu sei sanato. Loda l’Eterno. Va in pace».

L’uomo resta interdetto. Forse pensava tornare di colpo snello come un tempo. E gli pare non esser guarito. Ma chissà cosa sente… Ha un grido di gioia e si getta ai piedi di Gesù e li bacia.

«Vai, vai! Sii sempre buono. Addio!».

L’uomo esce seguito dalla donna, che sino all’ultimo si volge a salutare Gesù.

«Però, Maestro… In casa mia… Di sabato…».

«Tu non approvi? Lo so. E per questo sono venuto. Amico tu? No. Nemico mio. Non sei sincero con Me e non con Dio».

«Offendi, ora?».

«No. Dico la verità. Tu hai detto che Eleazar non è tenuto a soccorrere quella vecchia perché non è di sua proprietà. Ma tu avevi due orfani nella tua proprietà. Erano figli di due tuoi servi fedeli che ti sono morti sul lavoro, uno con la falce in pugno, l’altra uccisa da troppa fatica per averti dovuto servire, come esigevi da lei per tenerla, per lei e per il marito. Tu dicevi: “Io ho fatto patto per due persone di lavoro e per tenerti voglio il lavoro tuo e del morto”. E lei te lo ha dato ed è morta col suo concepimento. Perché quella donna era madre. E non vi fu per essa la pietà che si ha per la bestia che genera. Dove sono ora quei due bambini?».

«Non so… Sono scomparsi un giorno».

«Non mentire ora. Basta l’esser stato crudele. Non occorre aggiungere menzogna per rendere odiosi a Dio i tuoi sabati, anche se scevri da opera servile. Dove sono quei bambini?».

«Non lo so. Non lo so più, credilo».

«Io lo so. Li ho trovati una sera di novembre, fredda, piovosa, buia. Li ho trovati affamati e tremanti, presso una casa, come due cagnoli in cerca di un boccone di pane… Maledetti e cacciati da chi aveva viscere di cane più di un cane vero. Perché un cane avrebbe avuto pietà di quei due orfanelli. E tu e quell’uomo non ne avete avuta.

Non ti servivano più i loro genitori, vero? Erano morti. I morti piangono solo, nei loro sepolcri, udendo i singhiozzi dei figli infelici che gli altri trascurano. I morti però, col loro spirito, portano i loro pianti, e quelli degli orfani loro, a Dio e dicono: “Signore, fai Tu le nostre vendette, poiché il mondo opprime quando non ci può più sfruttare”.

Non ti servivano ancora i due piccini, vero? Sì e no se la bambina poteva servire a spigolare… E tu li hai cacciati negando loro anche quel poco bene che era del padre e della madre. Potevano morire di fame e freddo come due cani su una carraia. Potevano vivere divenendo uno ladro e una prostituta. Perché la fame porta al peccato. Ma che te ne importava?

Poco fa tu citavi la Legge a puntello delle tue teorie. E la Legge non dice allora: “Non danneggiate la vedova e l’orfano, ché, se li danneggerete ed essi alzeranno la voce a Me, Io ascolterò il loro grido e il mio furore divamperà e vi sterminerò con la spada, e le vostre mogli resteranno vedove e i vostri figli orfani”? Non dice così la Legge?

E allora perché tu non l’osservi? Tu mi difendi presso gli altri? E allora perché non difendi la mia dottrina in te stesso? Tu mi vuoi essere amico? E allora perché fai l’opposto di quello che Io dico? Uno di voi sta correndo a perdifiato, strappandosi i capelli per la rovina del suo bosco. E non se li strappa sulle rovine del suo cuore! E tu che aspetti a farlo?

Perché volete sempre credervi perfetti, voi che la sorte ha messo in alto? E se anche lo foste in qualcosa, perché non cercate esserlo in tutto? Perché mi odiate perché Io vi scopro le piaghe? Io sono il Medico del vostro spirito. Può un medico guarire se non scopre e netta le piaghe?

Ma non sapete che molti, e quella donna che è uscita ne è una, meritano il primo posto nel convito di Dio pur essendo in apparenza meschini?

Non è l’esterno, è il cuore, è lo spirito quello che vale. Dio vi vede dall’alto del suo trono. E vi giudica. Quanti ne vede migliori di voi!

Perciò udite. Per regola agite così, sempre. Quan­do vi invitano ad un convito di nozze, scegliete sempre l’ultimo posto. Doppio onore ve ne verrà quando il padrone vi dirà: “Amico, vieni avanti”. Onore di meriti e onore di umiltà. Mentre… O triste ora per un superbo esser svergognato e sentirsi dire: “Va là, in fondo, ché qui vi è uno che è più di te”. E lo stesso fate nel convito segreto del vostro spirito a nozze con Dio. Chi si umilia sarà esaltato e chi si esalta sarà umiliato.

Ismaele, non mi odiare poiché ti curo. Io non ti odio. Sono venuto per guarirti. Sei più malato di quell’uomo. Tu mi hai invitato per dar lustro a te stesso e soddisfazione agli amici. Spesso inviti, ma per superbia e gioia. Non lo fare. Non invitare ricchi, parenti e amici. Ma apri la casa, apri il cuore ai poveri, ai mendichi, agli storpi, agli zoppi, agli orfani e le vedove.

Non ti daranno che ricambio di benedizione. Ma Dio te le muterà in grazie. E alla fine… oh! alla fine, che sorte beata a tutti i misericordiosi che saranno retribuiti da Dio alla resurrezione dei morti! Guai a quelli che blandiscono soltanto una speranza di utile e poi chiudono il loro cuore al fratello che non può più servire. Guai a loro! Io farò le vendette degli abbandonati».

«Maestro… io… io ti voglio far contento. Prenderò ancora quei bambini».

«No».

«Perché?».

«Ismaele?!…».

Ismaele abbassa il capo. Vuole fare l’umile. Ma è una vipera a cui è stato spremuto il veleno e non morde perché sa che ne è priva, aspetta di mordere però…

Eleazaro cerca di riportare pace dicendo: «Beati quelli che banchettano con Dio, nel loro spirito e nel Regno eterno. Ma, credi, Maestro. Delle volte è la vita che ce ne fa ostacolo. Le cariche… le occupazioni…».

Gesù dice qui la parabola del convito e termina: «Le cariche… le occupazioni, hai detto. È vero. Ma per questo ti ho detto, al principio di questo convito, che il Regno mio si conquista con vittorie su se stessi e non con vittorie d’armi sul campo.

Il posto alla gran Cena è per questi umili di cuore che sanno esser grandi col loro fedele amore, che non misura sacrificio e tutto supera per venire a Me. Anche un’ora basta a mutare un cuore. Purché quel cuore voglia. E basta una parola. Io ve ne ho dette tante. E guardo… In un cuore sta nascendo una pianta santa. Negli altri triboli per Me e dentro ai triboli sono aspidi e scorpioni. Non importa.

Io vado sulla mia via diritta. Chi mi ama mi segua. Io vado chiamando. I retti vengano a Me. Io vado istruendo. I cercatori di giustizia si accostino alla Fonte. Per gli altri… per gli altri giudicherà il Padre santo.

Ismaele, Io ti saluto. Non mi odiare. Medita. E senti che fui severo per amore, non per odio. Pace a questa casa e ai suoi abitatori, pace a tutti se pace meritate».

 

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

XXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C 25 AGOSTO 2019

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Luca Lc 13,22-30
In quel tempo, Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Disse loro: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, Io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di iniquità!”. Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel Regno di Dio, voi invece cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel Regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi». Parola del Signore.

RIFLESSIONI

Gesù si rifiuta di rispondere alla domanda riguardo al numero di coloro che si salveranno: la questione della salvezza non si pone infatti in termini generali, non si pone innanzitutto per gli altri, ma si pone “per me”.
Dipende dalla mia accettazione o dal mio rifiuto della salvezza che Gesù mi offre.
Il cammino verso la salvezza consiste nel seguire Gesù: egli è la via. Lo sforzo di entrare per “la porta stretta” è lo sforzo di seguire il cammino intrapreso da Gesù, cioè il cammino verso Gerusalemme, il cammino verso il Calvario. Il Calvario fu solo una tappa nel cammino verso la destinazione finale, una tappa di grande sofferenza, di tenebre e di solitudine, ma che sboccò direttamente su un mondo di luce e di gioia, illuminato dal sole nascente di Pasqua, vivente della gioia della risurrezione.
L’ingresso al sepolcro di Gesù, nella basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme, è basso e stretto, all’interno l’ambiente è angusto e buio: eppure, proprio da qui la risurrezione, in tutta la sua potenza irresistibile, levò il masso e aprì le tombe riempiendo il mondo di luce e di vita.
Il punto in cui si incontrano i due bracci della croce è stretto e basso, ma i bracci indicano i quattro punti cardinali, i quattro venti del mondo. Là Gesù “stese le braccia fra il cielo e la terra, in segno di perenne alleanza” ed estese la sua offerta dell’amore e della salvezza di Dio a tutti gli uomini, ad oriente e ad occidente, a settentrione e a mezzogiorno, invitando ogni uomo e ogni donna, di ogni età e di ogni razza, di ogni colore e di ogni lingua, a partecipare al banchetto del regno di Dio.
La porta stretta è il mezzo per uscire dalle angustie di un mondo senza amore; essa è l’apertura verso l’amore senza confini, verso il perdono e la misericordia.

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta
Capitolo 363

 

Tommaso, che era in fondo alla comitiva e che parlava con Mannaen e con Bartolomeo, si stacca dai compagni e raggiunge il Maestro che è davanti con Marziam e Isacco.

«Maestro, fra poco siamo vicini a Rama. Non verresti a benedire il bambino di mia sorella? Ella desidera tanto di vederti! Potremmo sostare lì. C’è posto per tutti. Accontentami, Signore!».

«Ti accontento. E con gioia! Domani entreremo in Gerusalemme riposati».

«Oh! allora vado avanti ad avvertire! Mi lasci andare?».

«Và. Ma ricordati che non sono l’amico mondano. Non obbligare i tuoi a molta spesa. Trattami da “Maestro”. Hai capito?».

«Sì, mio Signore. Lo dirò ai parenti. Vieni, Marziam, con me?».

«Se Gesù vuole…».

«Vai, vai, figlio».

Gli altri, che hanno visto Tommaso e Marziam andare in direzione di Rama, sita un poco a sinistra della strada che dalla Samaria, credo, va a Gerusalemme, affrettano il passo per chiedere cosa succede.

«Andiamo in casa della sorella di Toma. In tutte le case dei parenti vostri ho sostato. È giusto che vada anche da lui. E l’ho mandato avanti per questo».

«Allora, se permetti, oggi io pure andrò avanti. Per vedere un poco se non ci sono novità. Al tuo ingresso alla porta di Damasco ci sarò io se c’è del brutto. Altrimenti ti vedrò… Dove, Signore?», dice Mannaen.

«A Betania, Mannaen. Vado subito da Lazzaro. Ma le donne le lascerò a Gerusalemme. Vado da solo. Anzi. Te ne prego. Dopo la sosta di oggi, tu scorta le donne alle loro case».

«Come vuoi Tu, Signore».

«Avvisate il conducente di seguirci a Rama».

Infatti il carro viene in su lentamente per stare dietro alla comitiva apostolica. Isacco e lo Zelote restano fermi ad attenderlo mentre tutti gli altri prendono la strada secondaria che con una dolce pendenza conduce alla collinetta, molto bassa, sulla quale è Rama.

Tommaso, che non sta nei suoi panni e appare anche più rubicondo per la gioia che gli splende in viso, è all’ingresso del paese, in attesa. Corre incontro a Gesù:

«Che felicità, Maestro! Vi è tutta la mia famiglia! Mio padre che tanto voleva vederti, la madre mia, i fratelli! Come sono contento!»

E si mette a fianco di Gesù, passando attraverso il paese così impettito che sembra sia un conquistatore nell’ora del trionfo.

La casa della sorella di Tommaso è ad un crocevia verso l’est della città. È la caratteristica casa israelita benestante, dalla facciata quasi priva di finestre, il portone ferrato, col suo spioncino, la terrazza per tetto e le muraglie del giardino, alte e scure, che si prolungano dietro la casa sormontate dalle chiome degli alberi da frutto.

Ma oggi non ha bisogno la servente di guardare dallo spioncino. Il portone è tutto aperto e tutti gli abitanti della casa sono schierati nell’atrio, e si vede un continuo allungarsi di mani adulte che afferrano un fanciullo o una fanciulla della folta schiera dei bambini, i quali, irrequieti, esaltati dall’annunzio, rompono continuamente i ranghi e le gerarchie e sguizzano sul davanti della famiglia, ai posti di onore, dove in prima fila sono i genitori di Tommaso e la sorella col marito.

Ma quando Gesù è sulla soglia, chi li tiene più i frugoli? Sembrano una chiocciata che esca dal nido dopo una notte di riposo. E Gesù riceve l’urto di questa schiera garrula e gentile, che si abbatte contro i suoi ginocchi e lo stringe, alzando le faccette in cerca di baci, e che non si stacca nonostante i richiami materni o paterni e neppure per qualche scappellotto che Tommaso amministra per rimettere ordine.

«Lasciali fare! Lasciali fare! Fosse tutto il mondo così!», esclama Gesù, curvo ad accontentare tutti quei frugolini.

Infine può entrare fra i saluti più venerabondi degli adulti. Ma quelli che mi piacciono particolarmente sono i saluti del padre di Tommaso, un vecchio caratteristicamente giudeo, il quale viene rialzato da Gesù, che lo vuole baciare «per riconoscenza alla sua generosità nel dargli un apostolo».

«Oh! Dio mi ha amato più di ogni altro in Israele, perché mentre ogni ebreo ha un maschio, il primogenito, sacro al Signore, io ne ho due: il primo e l’ultimo; e l’ultimo è ancor più sacro perché, senza essere levita né sacerdote, fa ciò che neppure il Sommo Sacerdote fa: vede costantemente Iddio e ne accoglie i comandi!», dice con la voce un poco tremula dei vecchi, fatta ancor più tremula dall’emozione.

E termina: «Dimmi solo una cosa per far contenta l’anima mia. Tu che non menti, dimmi: questo figlio mio, per il modo come ti segue, è degno di servirti e meritare la Vita eterna?».

«Riposa in pace, padre. Il tuo Toma ha un grande posto nel cuore di Dio per il modo come si conduce, ed avrà un grande posto in Cielo per il modo come avrà servito Iddio fino all’ultimo respiro».

Tommaso boccheggia come un pesce per l’emozione di quanto sente dire.

Il vecchio alza le mani tremule, mentre due righe di pianto scendono fra le incisioni delle profonde rughe a sperdersi nel barbone patriarcale, e dice:

«Su te la benedizione di Giacobbe, la benedizione del patriarca al giusto fra i figli: “L’Onnipotente ti benedica colle benedizioni del Cielo di sopra, colle benedizioni dell’abisso che giace di sotto, colle benedizioni delle mammelle e del seno. Le benedizioni di tuo padre sorpassino quelle dei padri di lui e, finché non venga il desiderio dei colli eterni, posino sul capo di Toma, sul capo di colui che è nazareo fra i suoi fratelli!”».

E tutti rispondono: «Così sia».

«Ed ora benedici Tu, o Signore, questa casa e soprattutto questi che sono sangue del mio sangue», dice il vecchio accennando ai fanciulli.

E Gesù, aprendo le braccia, tuona la benedizione mosaica e la allunga dicendo: «Dio, alla cui presenza camminarono i vostri padri, Dio che mi pasce dalla mia adolescenza fino a questo giorno, l’Angelo che mi ha liberato da ogni male, benedica questi fanciulli, portino essi il mio Nome e anche i nomi dei miei padri e si moltiplichino copiosamente sopra la Terra», e termina prendendo l’ultimo nato dalle braccia della madre per baciarlo sulla fronte dicendo:

«E in te scendano come miele e burro le virtù elette che abitarono nel Giusto di cui ti è dato il nome, facendolo pingue per i Cieli e ornato come palma dai biondi datteri e cedro di regale fronda».

Sono tutti commossi ed estatici. Ma poi un trillio di gioia esplode da tutte le bocche e accompagna Gesù, che entra nella casa e non si ferma che quando è nel cortile, nel quale presenta agli ospiti la Madre, le discepole, gli apostoli e i discepoli.

Non è più mattina, e non è più mezzogiorno. Il raggio malato di un sole che fora a fatica le nuvole scapigliate di un tempo che stenta a rimettersi, dice che il sole si avvia al tramonto e il giorno al crepuscolo.

Le donne non ci sono più e con loro non c’è più Isacco e Mannaen, mentre Marziam è rimasto ed è beato al fianco di Gesù, che esce di casa andando con gli apostoli e con tutti i parenti maschi di Tommaso a vedere alcune vigne che pare abbiano un pregio speciale. Tanto il vecchio come il cognato di Tommaso illustrano la posizione del vigneto e la rarità delle piante, che per ora non hanno che foglioline tenerelle.

E Gesù benignamente ascolta queste spiegazioni, interessandosi di potature e di sarchiamenti come della cosa più utile della Terra. Alla fine dice sorridendo a Tommaso: «Te la devo benedire questa dote della tua gemella?».

«Oh! mio Signore! Io non sono Doras né Ismaele. So che il tuo alito, la tua presenza in un luogo è già benedizione. Ma se vuoi alzare la tua destra su queste piante fallo, e certo santo sarà il loro frutto».

«E abbondante no? Che ne dici, padre?».

«Basta santo. Santo basta! Ed io lo piglierò e te lo manderò per la Pasqua prossima, e lo userai nel calice del rito».

«È detto. Ci conto. Voglio nella Pasqua futura consumare il vino di un vero israelita».

Escono dalla vigna per tornare in paese.

La notizia della presenza in paese di Gesù di Nazaret si è diffusa e quelli di Rama sono tutti sulle strade con una gran voglia di avvicinarsi.

Gesù vede e dice a Tommaso: «Perché non vengono? Hanno forse tema di Me? Dì loro che li amo».

Oh! Tommaso non se lo fa dire due volte! Va da un crocchio all’altro, così svelto che pare un farfallone che voli di fiore in fiore. E non se lo fanno dire due volte neppure quelli che sentono l’invito. Corrono tutti, passandosi la voce, intorno a Gesù, di modo che, giunti al crocevia dove è la casa di Tommaso, vi è una discreta folla che parla con rispetto con gli apostoli e coi famigliari di Tommaso chiedendo questo o quello.

Comprendo che Tommaso ha lavorato molto nei mesi d’inverno, e molto della dottrina evangelica è nota in paese. Ma desiderano averne particolare spiegazione, e uno, al quale ha fatto grande impressione la benedizione data da Gesù ai piccoli della casa ospitale e quanto ha detto di Tommaso, chiede:

«Saranno dunque tutti dei giusti per questa tua benedizione?».

«Non per essa. Ma per le loro azioni. Io ho dato ad essi la forza della benedizione per corroborarli nelle loro azioni. Ma sono essi che devono fare le azioni e fare soltanto giuste azioni per avere il Cielo. Io benedico tutti… ma non tutti si salveranno in Israele».

«Anzi, se ne salveranno molto pochi, se vanno avanti così come vanno», brontola Tommaso.

«Che dici?».

«Il vero. Chi perseguita il Cristo e Lo calunnia, chi non pratica ciò che Egli insegna, non avrà parte al suo Regno», dice col suo vocione Tommaso.

Uno lo tira per la manica: «È molto severo?», chiede accennando a Gesù.

«No. Anzi è troppo buono».

«Io, che dici, mi salverò? Non sono fra i discepoli. Ma tu lo sai come sono e come ho sempre creduto a quello che tu mi dicevi. Ma più di così non so fare. Cosa devo fare di preciso per salvarmi, oltre quello che faccio già?».

«Chiediglielo a Lui. Avrà la mano e il giudizio più dolce e giusto del mio».

L’uomo si fa avanti. Dice: «Maestro, io sono osservante della Legge e da quando Toma mi ha ripetuto le tue parole cerco di esserlo di più. Ma sono poco generoso. Faccio ciò che devo fare assolutamente. Mi astengo dal fare ciò che non è bene fare perché ho paura dell’inferno. Ma amo però i miei comodi e… lo confesso, studio molto di fare le cose in modo di non peccare ma di non disturbare neppure troppo me stesso. Facendo così mi salverò?».

«Ti salverai. Ma perché essere avaro col buon Dio che è tanto generoso con te? Perché pretendere per sé solo la salvezza, carpita a fatica, e non la grande santità che dà subito eterna pace? Suvvia, uomo! Sii generoso con l’anima tua!».

L’uomo dice umilmente: «Ci penserò, Signore. Ci penserò. Sento che Tu hai ragione e che io faccio torto all’anima mia obbligandola a lunga purgazione prima di avere la pace».

«Bravo. Questo pensiero è già un principio di perfezionamento».

Un altro di Rama chiede: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?».

«Se l’uomo sapesse condursi con rispetto verso se stesso e con amore reverenziale a Dio, tutti gli uomini si salverebbero, come Dio lo desidera. Ma l’uomo non procede così. E, come uno stolto, si trastulla con l’orpello invece di prendere l’oro vero.

Siate generosi nel volere il Bene. Vi costa? In questo è il merito.

Sforzatevi di entrare per la porta stretta. L’altra, ben larga e ornata, è una seduzione di satana per traviarvi. Quella del Cielo è stretta, bassa, nuda e scabra. Per passarvi occorre essere agili, leggeri, senza pompa e senza materialità. Occorre essere spirituali per poterlo fare.

Altrimenti, venuta l’ora della morte, non riuscirete a varcarla. E in verità si vedranno molti che cercheranno di entrarvi senza potervi riuscire, tanto sono obesi di materialità, infronzolati di pompe mondane, irrigiditi da una crosta di peccato, incapaci a piegarsi per la superbia che fa loro da scheletro.

E verrà allora il Padrone del Regno a chiudere la porta, e quelli fuori, quelli che non avranno potuto entrare al tempo giusto, stando fuori busseranno all’uscio gridando: “Signore, aprici. Ci siamo anche noi”.

Ma Egli dirà: “In verità Io non vi conosco, né so da dove venite”.

Ed essi: “Ma come? Non ti ricordi di noi? Noi abbiamo mangiato e bevuto con Te e noi ti abbiamo ascoltato quando Tu insegnavi nelle nostre piazze”.

Ma Egli risponderà: “In verità Io non vi riconosco. Più vi guardo e più mi apparite fatti sazi di ciò che Io ho dichiarato cibo impuro. In verità più Io vi scruto e più vedo che voi non siete della mia famiglia. In verità, ecco, ora vedo di chi siete figli e sudditi: dell’Altro. Avete per padre satana, per madre la Carne, per nutrice la Superbia, per servo l’Odio, per tesoro avete il peccato, per gemme i vizi.

Sul vostro cuore è scritto: ‘Egoismo’.

Le vostre mani sono sporche delle rapine fatte ai fratelli. Via di qui! Lontani da Me, voi tutti, operatori di iniquità”.

E allora, mentre dal profondo dei Cieli verranno fulgidi di gloria Abramo, Isacco, Giacobbe e tutti i Profeti e giusti del Regno di Dio, essi, quelli che non hanno avuto amore ma egoismo, non sacrificio ma mollezza, saranno cacciati lontano, confinati al luogo dove il pianto è eterno e dove non c’è che terrore.

E i risorti gloriosi, venuti da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno, si aduneranno alla mensa nuziale dell’Agnello, Re del Regno di Dio. E si vedrà allora che molti che parvero i “minimi” nell’esercito della Terra saranno i primi nella cittadinanza del Regno. E così pure vedranno che non tutti i potenti d’Israele sono potenti in Cielo, e non tutti gli eletti dal Cristo alla sorte di suoi servi hanno saputo meritare di essere eletti alla mensa nuziale. Ma bensì vedranno che molti, creduti “i primi”, saranno non solo ultimi, ma non saranno neppure ultimi.

Perché molti sono i chiamati, ma pochi quelli che dell’elezione sanno farsi una vera gloria».

Mentre Gesù parla, con un pellegrinaggio diretto a Gerusalemme, o venuto da Gerusalemme sopra-affollata in cerca di alloggio, sopraggiungono dei farisei. Vedono l’assembramento e si avvicinano a vedere. Presto scorgono la testa bionda di Gesù splendere contro il muro oscuro della casa di Tommaso.

«Fate largo, ché vogliamo dire una parola al Nazareno», urlano prepotenti.

Con nessun entusiasmo la folla si apre e gli apostoli vedono venire verso di loro il gruppo farisaico.

«Maestro, pace a Te!».

«La pace a voi. Che volete?».

«Vai a Gerusalemme?».

«Come ogni fedele israelita».

«Non ci andare! Un pericolo ti aspetta là. Noi lo sappiamo perché veniamo di là, incontro alle nostre famiglie. E siamo venuti ad avvertirti perché abbiamo saputo che eri a Rama».

«Da chi, se è lecito chiederlo?», chiede Pietro, insospettito e pronto ad attaccare una disputa.

«Ciò non ti riguarda, uomo. Sappi solo, tu che ci chiami serpenti, che presso il Maestro i serpenti sono molti e che faresti bene a diffidare dei troppi, e dei troppo potenti, discepoli».

«Ohé! Non vorrai insinuare che Mannaen o…».

«Silenzio, Pietro. E tu, fariseo, sappi che nessun pericolo può distogliere un fedele dal suo dovere. Se si perde la vita è nulla. Quello che è grave è perdere la propria anima contravvenendo alla Legge. Ma tu lo sai. E sai che Io lo so. Perché allora mi tenti? Non sai forse che Io so perché lo fai?».

«Non ti tento. È verità. Molti fra noi saranno tuoi nemici. Ma non tutti. Noi non ti odiamo. Sappiamo che Erode ti cerca e ti diciamo: parti. Vattene via di qua, perché se Erode ti cattura certo ti uccide. È ciò che desidera».

«È ciò che desidera, ma che non farà. Questo lo so Io. Del resto, andate a dire a quella vecchia volpe che Colui che egli cerca è a Gerusalemme. Infatti Io vengo cacciando i demoni, operando guarigioni senza nascondermi. E lo faccio e farò oggi, domani e dopodomani, finché il mio tempo non sarà finito.

Ma bisogna che Io cammini finché non ho toccato il termine. E bisogna che oggi e poi un’altra e un’altra e un’altra volta ancora, Io entri in Gerusalemme, perché non è possibile che il mio cammino si fermi prima. E deve compiersi in giustizia, ossia in Gerusalemme».

«Il Battista è morto altrove».

«È morto in santità, e santità vuol dire “Gerusalemme”. Ché se ora Gerusalemme vuol dire “Peccato”, ciò è solo per ciò che non è che terrestre e che presto non sarà più. Ma Io parlo di ciò che è eterno e spirituale, ossia della Gerusalemme dei Cieli. In essa, nella sua santità, muoiono tutti i giusti ed i Profeti.

In essa Io morirò e voi inutilmente volete indurmi al peccato. E morirò, anche, fra le colline di Gerusalemme, ma non per mano di Erode, sebbene per volere di chi mi odia più sottilmente di lui, perché vede in Me l’usurpatore del Sacerdozio ambito e il purificatore d’Israele da tutti i morbi che lo corrompono.

Non addossate dunque a Erode tutta la smania di uccidere, ma prendete ognuno la vostra parte, ché, in verità, l’Agnello è su un monte sul quale salgono da ogni parte lupi e sciacalli, per sgozzarlo e…».

I farisei fuggono sotto la grandine delle scottanti verità…

Gesù li guarda fuggire. Si volge poi a mezzogiorno, verso una luminosità più chiara che forse indica la zona di Gerusalemme, e mestamente dice:

«Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i tuoi profeti e lapidi coloro che ti sono mandati, quante volte ho voluto radunare i tuoi figli come fa l’uccello sul suo nido radunando i suoi piccoli sotto le sue ali, e tu non hai voluto!

Ecco! Ti sarà lasciata deserta la Casa dal tuo vero Pa­drone. Egli verrà, farà, come vuole il rito, come deve fare il primo e l’ultimo d’Israele, e poi se ne andrà. Non sosterà più fra le tue mura per purificarti con la sua presenza. E ti assicuro che tu e i tuoi abitanti non mi vedrete più, nella mia vera figura, finché non sia il giorno in cui diciate: “Benedetto Colui che viene in nome del Signore”… E voi di Rama ricordate queste parole e tutte le altre, onde non avere parte nel castigo di Dio. Siate fedeli… Andate. La pace sia con voi».

E Gesù si ritira nella casa di Tommaso con tutti i famigliari di esso e i suoi apostoli.

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

XX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C Lc 12,49-53 18 Agosto 2019

Lc 12,49-53 Gesù disse ai suoi discepoli: Sono venuto a portare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 12,49-53)

Gesù disse ai suoi discepoli:
«Sono venuto a portare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!
Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera». Parola del Signore.

RIFLESSIONI
Un dispiacere si fa sempre più pesante per Gesù in cammino verso la sua passione: lui che voleva raccogliere insieme tutto il popolo di Dio si vede sempre più isolato nel suo insuccesso. Eppure resta fedele: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra”. Questo fuoco, immagine del giudizio di Dio, della sua parola ultima e definitiva, si accenderà attraverso di lui.
Ma, per realizzare questo, egli deve ricevere un battesimo, attraversare la sofferenza e la morte.
Il rifiuto dell’amore di Dio è divenuto estremo nel rifiuto della sua persona. In un certo senso la sua venuta provoca questo rifiuto. E Gesù non vuole nasconderlo con una pace facile, non può lasciare in pace un mondo che si rinchiude nella durezza del cuore. Ormai egli è pronto a prendere su di sé tutte le conseguenze del rifiuto di Dio, le divisioni tra gli uomini fino nelle loro relazioni più intime. È l’ultima prova già descritta dai profeti (Mi 7,1-17). Il Vangelo ci dice: nel momento del rifiuto totale di Cristo, il fuoco è acceso.

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta Capitolo 276

(È lo stesso testo della settimana scorsa, l’ultima parte riguarda il Vangelo di oggi)

Beati quei servi che il Padrone, arrivando, troverà vigilanti.

In verità, per ricompensarvi della attesa fedele, Egli si cingerà la veste e, fattili sedere a tavola, si metterà a servirli. Può venire alla prima vigilia, come alla seconda e alla terza. Voi non lo sapete. Siate perciò sempre vigilanti. E beati voi se lo sarete e così vi troverà il Padrone!

Non vi ingannate col dire: “C’è tempo! Questa notte Egli non viene”. Ve ne accadrebbe male. Voi non sapete.

Se uno sapesse quando il ladro viene, non lascerebbe incustodita la casa perché il malandrino possa sforzarne la porta e i forzieri. Anche voi state preparati, perché, quando meno ve lo penserete, verrà il Figlio dell’Uomo dicendo: “È l’ora”».

Pietro, che si è persino dimenticato di finire il suo cibo per ascoltare il Signore, vedendo che Gesù tace, chiede: «Questo che dici è per noi o per tutti?».

«È per voi e per tutti. Ma più è per voi, perché voi siete come intendenti preposti dal Padrone a capo dei servi e avete doppio dovere di stare pronti, e per voi come intendenti, e per voi come semplici fedeli. Che deve essere l’intendente preposto dal padrone a capo dei suoi familiari per dare a ciascuno, a suo tempo, la giusta porzione? Deve essere accorto e fedele. Per compiere il suo proprio dovere, per far compiere ai sottoposti il loro proprio dovere. Altrimenti ne soffrirebbero gli interessi del padrone, che paga perché l’intendente faccia in sua vece e ne tuteli gli interessi in sua assenza.

Beato quel servo che il padrone, tornando alla sua casa, trova ad operare con fedeltà, solerzia e giustizia. In verità vi dico che lo farà intendente anche di altre proprietà, di tutte le sue proprietà, riposando e giubilando in cuor suo per la sicurezza che quel servo gli dà.

Ma se quel servo dice: “Oh! bene! Il padrone è molto lontano e mi ha scritto che tarderà a tornare. Perciò io posso fare ciò che mi pare e poi, quando penserò prossimo il ritorno, provvederò”. E comincerà a mangiare e a bere fino ad essere ubriaco e a dare ordini da ebbro e, poiché i servi buoni, a lui sottoposti, si rifiutano di eseguirli per non danneggiare il padrone, si dà a battere servi e serve fino a farli cadere in malattia e languore. E crede di essere felice, e dice: “Finalmente gusto ciò che è esser padrone e temuto da tutti”.

Ma che gli avverrà?

Gli avverrà che il padrone giungerà quando meno egli se lo aspetta, magari sorprendendolo nell’atto di intascare denaro o di corrompere qualche servo fra i più deboli. Allora, Io ve lo dico, il padrone lo caccerà dal posto di intendente, e persino dalle file dei suoi servi, perché non è lecito tenere gli infedeli e traditori in mezzo agli onesti.

E tanto più sarà punito quanto più il padrone prima lo aveva amato e istruito. Perché chi più conosce la volontà e il pensiero del padrone più è tenuto a compierlo con esattezza.

Se non fa così come il padrone ha detto, ampiamente, come a nessun altro, avrà molte percosse, mentre chi, come servo minore, ben poco sa e sbaglia credendo di far bene, avrà castigo minore.

A chi molto fu dato molto sarà chiesto, e dovrà rendere molto chi molto ebbe in custodia, perché sarà chiesto conto ai miei intendenti anche dell’anima del pargolo di un’ora.

La mia elezione non è fresco riposo in un boschetto fiorito. Io sono venuto a portare fuoco sulla Terra; e che posso desiderare se non che si accenda? Perciò mi affatico e voglio vi affatichiate fino alla morte e finché la Terra sia tutta un rogo di fuoco celeste. Io devo essere battezzato con un battesimo. E come sarò angustiato finché non sarà compiuto! Non vi chiedete perché? Perché per esso potrò di voi fare dei portatori del Fuoco, degli agitatori che si muoveranno in tutti e contro tutti gli strati sociali, per farne un’unica cosa: il gregge di Cristo.

Credete voi che Io sia venuto a metter pace sulla Terra? E secondo il modo di vedere della Terra? No. Ma anzi discordia e separazione.

Perché d’ora innanzi, e fintanto che tutta la Terra non sarà un unico gregge, di cinque che sono in una casa due saranno contro tre, e sarà il padre contro il figlio, e questo contro il padre, e la madre contro le figlie, e queste contro quella, e le suocere e nuore avranno un motivo di più per non intendersi, perché un linguaggio nuovo sarà su certe labbra e accadrà come una Babele, perché un sommovimento profondo scuoterà il regno degli affetti umani e soprumani.

Ma poi verrà l’ora in cui tutto si unificherà in una lingua nuova, parlata da tutti i salvati dal Nazareno, e si depureranno le acque dei sentimenti, andando sul fondo le scorie e brillando alla superficie le limpide onde dei laghi celesti.

In verità che non è riposo il servirmi, secondo quanto dà, l’uomo, di significato a questa parola. Occorre eroismo e instancabilità. Ma Io ve lo dico: alla fine sarà Gesù, sempre e ancora Gesù, che si cingerà la veste per servirvi, e poi si siederà con voi ad un banchetto eterno e sarà dimenticata fatica e dolore.

Ora, posto che nessuno più ci ha cercato, andiamo al lago. Riposeremo in Magdala. Nei giardini di Maria di Lazzaro c’è posto per tutti, ed ella ha messo la sua casa a disposizione del Pellegrino e dei suoi amici.

Non occorre che vi dica che Maria di Magdala è morta col suo peccato ed è rinata dal suo pentimento Maria di Lazzaro, discepola di Gesù di Nazaret. Voi lo sapete già, perché la notizia è corsa come fremito di vento in una foresta.

Ma Io vi dico ciò che non sapete: che tutti i beni personali di Maria di Lazzaro sono per i servi di Dio e per i poveri di Cristo. Andiamo…».

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

XIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C (Lc 12,32-48) 11 Agosto 2019

Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà.

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Luca. (Lc 12,32-48)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno.
Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore.
Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito.
Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!
Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».
Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?».
Il Signore rispose: «Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi.
Ma se quel servo dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda a venire”, e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli.
Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche.
A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più». Parola del Signore.

Forma breve

Dal Vangelo secondo Luca. (Lc 12,35-40)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito.
Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!
Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo». Parola del Signore

RIFLESSIONI

In questo brano del Vangelo Cristo ci dice di non avere paura, di non lasciarci prendere dall’angoscia: il nostro stato d’animo di sempre deve essere una tranquilla fiducia in Dio, poiché “al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno”. Dobbiamo aprire un conto in questo regno, perché solo lì si trova la vera ricchezza. La motivazione e il fine dell’uomo provengono sempre da dove egli pensa che si trovino i veri valori: “Perché dove è il vostro tesoro, lì sarà anche il vostro cuore”. Questa priorità implica che noi siamo distaccati dal denaro e dai beni materiali, e che li utilizziamo per il bene altrui, essendo responsabili davanti a Dio della loro gestione.
Dobbiamo anche tenerci in uno stato di veglia costante, aspettando la venuta di Cristo: “Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese”. Come i servi non sanno quando il loro padrone rientrerà dal ricevimento di nozze, come un uomo non può sapere quando entreranno i ladri nella sua casa, così noi non conosciamo l’ora della nostra morte, quando cioè Cristo tornerà per noi.

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato”
di Maria Valtorta
Capitolo 276

Gesù benedice e si ritira in un folto di bosco con gli apostoli e i discepoli per prendere cibo e ristoro. Ma, mentre mangiano, Egli ancora parla continuando la lezione di prima, ripetendo un tema già detto agli apostoli più volte e che credo sarà sempre insufficientemente detto, perché l’uomo è troppo preso dalle paure stolte.

«Credete», dice, «che solo di questo arricchimento di virtù occorre preoccuparsi. E badate: non sia mai la vostra una preoccupazione affannosa, inquieta. Il bene è nemico delle inquietudini, delle paure, delle frette, che troppo risentono ancora di avarizia, di gelosia, di diffidenza umana.

Il vostro lavoro sia costante, fiducioso, pacifico. Senza brusche partenze e bruschi arresti.

Così fanno gli onagri selvaggi. Ma nessuno li usa, a meno che sia un matto, per fare del sicuro cammino. Pacifici nelle vittorie, pacifici nelle sconfitte. Anche il pianto per un errore fatto, che vi addolora perché con esso errore avete spiaciuto a Dio, deve essere pacifico, confortato dall’umiltà e dalla fiducia.

L’accasciamento, il rancore verso se stesso, è sempre sintomo di superbia e così anche di sfiducia.

Se uno è umile sa di essere un povero uomo soggetto alle miserie della carne che talora trionfa. Se uno è umile ha fiducia non tanto in sé quanto in Dio, e sta calmo anche nelle disfatte dicendo:

“Perdonami, Padre. Io so che Tu sai la mia debolezza che mi prevale talora. Io credo che Tu mi compatisci. Io ho ferma fiducia che Tu mi aiuterai in avvenire ancor più di prima, nonostante io ti soddisfi così poco”.

E non siate né apatici né avari dei beni di Dio. Di quanto avete di sapienza e virtù, date. Siate operosi nello spirito come gli uomini lo sono per le cose della carne.

E, riguardo alla carne, non imitate quelli del mondo, che sempre tremano per il loro domani, per la paura che manchi loro il superfluo, che la malattia venga, che venga la morte, che i nemici possano nuocere e così via. Dio sa di che abbisognate. Non temete perciò per il vostro domani.

Siate liberi dalle paure più pesanti delle catene dei galeotti.

Non vi prendete pena della vostra vita, né per il mangiare, né per il bere, né per il vestire. La vita dello spirito è da più di quella del corpo, e il corpo è da più del vestito, perché col corpo, non col vestito, voi vivete, e con la mortificazione del corpo aiutate lo spirito a conseguire la vita eterna.

Dio sa fino a quando lasciarvi l’anima nel corpo, e fino a quell’ora vi darà ciò che è necessario.

Lo dà ai corvi, animali impuri che si pascono di cadaveri e che hanno la loro ragione di esistere appunto in questa loro funzione di eliminatori di putrefazioni. E non lo darà a voi? Essi non hanno dispense e granai, eppure Dio li nutre lo stesso.

Voi siete uomini e non corvi. Presentemente, poi, siete il fior degli uomini, perché siete i discepoli del Maestro, gli evangelizzatori del mondo, i servi di Dio. E potete pensare che Iddio, che ha cura dei gigli delle convalli e li fa crescere e li veste di veste che più bella non l’ebbe Salomone, senza che loro compiano altro lavoro che profumare, adorando, possa trascurare voi anche nella veste?

Voi sì che da soli non potete aggiungere un dente alle bocche sdentate, né allungare di un pollice la gamba rattrappita, né dare acutezza alla pupilla annebbiata. E, se non potete fare queste cose, potete pensare di poter respingere da voi miseria e malattia e far spuntare cibo dalla polvere? Non potete.

Ma non siate gente di poca Fede. Avrete sempre di che vi è necessario. Non vi affannate come le genti del mondo, che si arrabattano per provvedersi di che godere. Voi avete il Padre vostro che sa di che abbisognate. Voi dovete solo cercare -e sia la prima delle vostre cure- il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato in più.

Non temete, voi del mio piccolo gregge.

Al Padre mio è piaciuto chiamarvi al Regno perché voi abbiate questo Regno.

Potete perciò aspirare ad esso ed aiutare il Padre con la vostra buona volontà e santa operosità.

Vendete i vostri beni, fatene elemosina se siete soli.

Date ai vostri il necessario del vostro abbandono della casa per seguire Me, perché è giusto non levare il pane ai figli e alle spose. E, se non potete perciò sacrificare le ricchezze di denaro, sacrificate le ricchezze di affetto.

Anche queste sono monete che Dio valuta per quello che sono: oro più puro d’ogni altro, perle più preziose di quelle rapite ai mari, e rubini più rari di quelli delle viscere del suolo.

Perché rinunciare alla famiglia per Me è carità perfetta più di oro senza atomo impuro, è perla fatta di pianto, e rubino fatto di sangue che geme dalla ferita del cuore, lacerato dal distacco da padre e madre, sposa e figli.

Ma queste borse non si logorano, questo tesoro non viene mai meno. I ladri non penetrano in Cielo. Il tarlo non corrode ciò che là è depositato.

E abbiate il Cielo nel cuore e il cuore in Cielo presso il vostro tesoro. Perché il cuore, nel buono o nel malvagio, è là dove è ciò che vi sembra vostro caro tesoro. Perciò, come il cuore è là dove è il tesoro (in Cielo), così il tesoro è là dove è il cuore (ossia in voi), anzi il tesoro è nel cuore e col tesoro dei Santi è nel cuore il Cielo dei Santi.

Siate sempre pronti come chi è in procinto di viaggio o in attesa del padrone. Voi siete servi del Padrone-Iddio. Ad ogni ora vi può chiamare dove Egli è, o venire dove voi siete. Siate perciò sempre pronti ad andare, o a fargli onore stando a fianchi cinti da cintura di viaggio e di lavoro, e con le lampade accese nelle mani.

Uscendo da una festa di nozze con uno che vi abbia preceduto nei Cieli e nella consacrazione a Dio sulla Ter­ra, Dio può sovvenirsi di voi che attendete e può dire: “Andiamo da Stefano o da Giovanni, oppure da Giacomo e da Pietro”. E Dio è veloce nel venire o nel dire: “Vieni”. Perciò siate pronti ad aprirgli la porta quando Egli giungerà, o a partire se Egli vi chiama.

Beati quei servi che il Padrone, arrivando, troverà vigilanti.

In verità, per ricompensarvi della attesa fedele, Egli si cingerà la veste e, fattili sedere a tavola, si metterà a servirli. Può venire alla prima vigilia, come alla seconda e alla terza. Voi non lo sapete. Siate perciò sempre vigilanti. E beati voi se lo sarete e così vi troverà il Padrone!

Non vi ingannate col dire: “C’è tempo! Questa notte Egli non viene”. Ve ne accadrebbe male. Voi non sapete.

Se uno sapesse quando il ladro viene, non lascerebbe incustodita la casa perché il malandrino possa sforzarne la porta e i forzieri. Anche voi state preparati, perché, quando meno ve lo penserete, verrà il Figlio dell’Uomo dicendo: “È l’ora”».

Pietro, che si è persino dimenticato di finire il suo cibo per ascoltare il Signore, vedendo che Gesù tace, chiede: «Questo che dici è per noi o per tutti?».

«È per voi e per tutti. Ma più è per voi, perché voi siete come intendenti preposti dal Padrone a capo dei servi e avete doppio dovere di stare pronti, e per voi come intendenti, e per voi come semplici fedeli. Che deve essere l’intendente preposto dal padrone a capo dei suoi familiari per dare a ciascuno, a suo tempo, la giusta porzione? Deve essere accorto e fedele. Per compiere il suo proprio dovere, per far compiere ai sottoposti il loro proprio dovere. Altrimenti ne soffrirebbero gli interessi del padrone, che paga perché l’intendente faccia in sua vece e ne tuteli gli interessi in sua assenza.

Beato quel servo che il padrone, tornando alla sua casa, trova ad operare con fedeltà, solerzia e giustizia. In verità vi dico che lo farà intendente anche di altre proprietà, di tutte le sue proprietà, riposando e giubilando in cuor suo per la sicurezza che quel servo gli dà.

Ma se quel servo dice: “Oh! bene! Il padrone è molto lontano e mi ha scritto che tarderà a tornare. Perciò io posso fare ciò che mi pare e poi, quando penserò prossimo il ritorno, provvederò”. E comincerà a mangiare e a bere fino ad essere ubriaco e a dare ordini da ebbro e, poiché i servi buoni, a lui sottoposti, si rifiutano di eseguirli per non danneggiare il padrone, si dà a battere servi e serve fino a farli cadere in malattia e languore. E crede di essere felice, e dice: “Finalmente gusto ciò che è esser padrone e temuto da tutti”.

Ma che gli avverrà?

Gli avverrà che il padrone giungerà quando meno egli se lo aspetta, magari sorprendendolo nell’atto di intascare denaro o di corrompere qualche servo fra i più deboli. Allora, Io ve lo dico, il padrone lo caccerà dal posto di intendente, e persino dalle file dei suoi servi, perché non è lecito tenere gli infedeli e traditori in mezzo agli onesti.

E tanto più sarà punito quanto più il padrone prima lo aveva amato e istruito. Perché chi più conosce la volontà e il pensiero del padrone più è tenuto a compierlo con esattezza.

Se non fa così come il padrone ha detto, ampiamente, come a nessun altro, avrà molte percosse, mentre chi, come servo minore, ben poco sa e sbaglia credendo di far bene, avrà castigo minore.

A chi molto fu dato molto sarà chiesto, e dovrà rendere molto chi molto ebbe in custodia, perché sarà chiesto conto ai miei intendenti anche dell’anima del pargolo di un’ora.

La mia elezione non è fresco riposo in un boschetto fiorito. Io sono venuto a portare fuoco sulla Terra; e che posso desiderare se non che si accenda? Perciò mi affatico e voglio vi affatichiate fino alla morte e finché la Terra sia tutta un rogo di fuoco celeste. Io devo essere battezzato con un battesimo. E come sarò angustiato finché non sarà compiuto! Non vi chiedete perché? Perché per esso potrò di voi fare dei portatori del Fuoco, degli agitatori che si muoveranno in tutti e contro tutti gli strati sociali, per farne un’unica cosa: il gregge di Cristo.

Credete voi che Io sia venuto a metter pace sulla Terra? E secondo il modo di vedere della Terra? No. Ma anzi discordia e separazione.

Perché d’ora innanzi, e fintanto che tutta la Terra non sarà un unico gregge, di cinque che sono in una casa due saranno contro tre, e sarà il padre contro il figlio, e questo contro il padre, e la madre contro le figlie, e queste contro quella, e le suocere e nuore avranno un motivo di più per non intendersi, perché un linguaggio nuovo sarà su certe labbra e accadrà come una Babele, perché un sommovimento profondo scuoterà il regno degli affetti umani e soprumani.

Ma poi verrà l’ora in cui tutto si unificherà in una lingua nuova, parlata da tutti i salvati dal Nazareno, e si depureranno le acque dei sentimenti, andando sul fondo le scorie e brillando alla superficie le limpide onde dei laghi celesti.

In verità che non è riposo il servirmi, secondo quanto dà, l’uomo, di significato a questa parola. Occorre eroismo e instancabilità. Ma Io ve lo dico: alla fine sarà Gesù, sempre e ancora Gesù, che si cingerà la veste per servirvi, e poi si siederà con voi ad un banchetto eterno e sarà dimenticata fatica e dolore.

Ora, posto che nessuno più ci ha cercato, andiamo al lago. Riposeremo in Magdala. Nei giardini di Maria di Lazzaro c’è posto per tutti, ed ella ha messo la sua casa a disposizione del Pellegrino e dei suoi amici.

Non occorre che vi dica che Maria di Magdala è morta col suo peccato ed è rinata dal suo pentimento Maria di Lazzaro, discepola di Gesù di Nazaret. Voi lo sapete già, perché la notizia è corsa come fremito di vento in una foresta.

Ma Io vi dico ciò che non sapete: che tutti i beni personali di Maria di Lazzaro sono per i servi di Dio e per i poveri di Cristo. Andiamo…».

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

XVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C Lc. 12,13-21 – 4 AGOSTO 2019

TEESTO:-
Dal Vangelo secondo Luca (Lc. 12,13-21)
In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?».
E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede».
Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse -: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio». Parola del Signore.

RIFLESSIONI

Il messaggio essenziale del Vangelo di oggi è talmente chiaro che, in realtà, non ha bisogno di interpretazione: “Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché la vita di un uomo non dipende dai suoi beni”. E “arricchitevi davanti a Dio!”.
Ma, siccome conquistare dei beni è un’aspirazione fondamentalmente umana, vale quindi la pena entrare nei dettagli della parabola del ricco stolto raccontata da Gesù. La ricchezza conferisce agli uomini una certa sicurezza, permette loro di disporre della propria vita, di non dipendere completamente dagli altri o dallo Stato, di organizzare la propria sfera di vita, di occuparsi di cose che fanno loro piacere, di concretizzare grandi missioni o grandi scopi. In questa misura, i beni sono necessari per una giusta esistenza. Gesù non mette in questione il buon impiego dei beni e delle ricchezze. Ma afferma che beni e ricchezze portano gli uomini a sentirsi lontani da Dio e dal prossimo, a pensare di essere assicurati contro la miseria, la vecchiaia e la morte e a soddisfare i piaceri di questo mondo. E ancora, per molti uomini, il successo materiale è il simbolo della benedizione di Dio. Pensano di avere compiuto bene il loro ruolo nella vita quando acquisiscono ricchezza e considerazione. E che Dio non possa pretendere di più da loro. Ora, anche per essi, il principale comandamento è l’ultimo criterio che permetterà di giudicare la loro vita.
Ecco perché la ricchezza deve essere per ognuno un mezzo di azione: un mezzo per impegnarsi per gli altri. Aiutando coloro che sono nello sconforto e condividendo con generosità, si sarà veramente ricchi: ricchi agli occhi di Dio.

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta Capitolo 276

Gesù è su uno dei colli della riva occidentale del lago.

Ai suoi occhi si mostrano le città e i paesi sparsi sulle rive di questa e quella sponda, ma proprio sotto del colle sono Magdala e Tiberiade: la prima con il suo rione di lusso tutto sparso di giardini, separato nettamente dalle povere case dei pescatori, contadini e popolo minuto, da un torrentello ora asciutto del tutto; l’altra splendida in ogni sua parte, città che ignora ciò che è miseria e decadenza, e ride, bella e nuova, sotto al sole, di fronte al lago.

Fra l’una e l’altra città, le ortaglie, poche ma ben tenute, della breve pianura, e poi l’ascendere degli ulivi alla conquista dei colli. Dietro le spalle di Gesù, da questa cima, si vede la sella del monte delle Beatitudini, ai cui piedi è la via maestra che dal Mediterraneo va a Tiberiade.

Forse per questa vicinanza di una via maestra frequentatissima, Gesù ha scelto questa località alla quale le persone possono accedere da molte città del lago o della Galilea interna e da dove, a sera, è facile tornare alle case o trovare ospitalità in molti paesi. Il calore è anche temperato per l’altezza e per gli alberi di alto fusto che sulla vetta hanno preso il posto degli ulivi. Vi è infatti molta gente oltre gli apostoli e i discepoli. Gente che ha bisogno di Gesù per la salute o per dei consigli, gente venuta per curiosità, gente portata lì da amici o per spirito di imitazione.

Molta insemina. La stagione, non più canicolare ma tendente alle languide grazie dell’autunno, invita più che mai a pellegrinare in cerca del Maestro.

Gesù ha già guarito i malati e parlato alla gente, e certo sul tema delle ricchezze ingiuste e del distacco da esse, necessario a tutti per guadagnarsi il Cielo ma indispensabile ad aversi in chi vuole essere discepolo suo. E ora sta rispondendo alle do­mande di questo o quello dei discepoli ricchi, che sono un poco turbati per questa cosa.

Lo scriba Giovanni dice: «Devo allora distruggere ciò che ho, spogliando i miei del loro?».

«No. Dio ti ha dato dei beni. Falli servire alla Giustizia e servitene con giustizia. Ossia, con essi soccorri la tua famiglia, è dovere; tratta umanamente i servi, è carità; benefica i poveri, sovvieni ai bisogni dei discepoli poveri. Ecco che le tue ricchezze non ti saranno inciampo, ma aiuto».

E poi, parlando a tutti, dice: «In verità vi dico che lo stesso pericolo di perdere il Cielo per amore alle ricchezze può averlo anche il discepolo più povero se, divenuto mio sacerdote, mancherà a giustizia col patteggiare col ricco.

Colui che è ricco o maligno molte volte tenterà sedurvi con donativi per avervi consenzienti al suo modo di vivere e al suo peccato. E vi saranno quelli fra i miei ministri che cederanno alla tentazione dei donativi. Non deve essere. Il Battista vi insegni.

Veramente in lui, pur senza essere giudice e magistrato, era la perfezione del giudice e del magistrato quale la indica il Deuteronomio: “Tu non avrai riguardi personali, non accetterai donativi, perché essi accecano gli occhi dei savi e alterano le parole dei giusti”. Troppe volte l’uomo si lascia levare il filo dalla spada della giustizia dall’oro che un peccatore vi passa sopra. No, non deve essere.

Sappiate esser poveri, sappiate saper morire, ma non patteggiate mai con la colpa. Neppure con la scusa di usare quell’oro a pro’ dei poveri. È oro maledetto e non darebbe loro del bene. È oro di un compromesso infame. Voi siete costituiti discepoli per essere maestri, medici e redentori. Che sareste se diveniste consenzienti al male per interesse? Maestri di mala scienza, medici che uccidono il malato, non redentori ma coo­peratori della rovina dei cuori».

Uno della folla si fa avanti e dice: «Io non sono discepolo. Ma ti ammiro. Rispondi dunque a questa mia domanda: è lecito ad uno trattenere il denaro di un altro?».

«No, uomo. Ciò è furto, come lo è quello di levare la borsa ad un passante».

«Anche se è denaro della famiglia?».

«Anche. Non è giusto che uno si appropri del denaro di tutti gli altri».

«Allora, Maestro, vieni ad Abelmain sulla via di Damasco e ordina a mio fratello di spartire con me l’eredità del padre morto senza avere lasciato scritto parola. Egli tutta se l’è presa. E nota che gemelli siamo, nati da primo ed unico parto. Io ho dunque gli stessi diritti che lui».

Gesù lo guarda e dice: «È una penosa situazione, e tuo fratello certo non agisce bene. Ma tutto quello che Io posso fare è pregare per te e più per lui, che si converta, e venire al tuo paese ad evangelizzare, toccandogli il cuore così. Non mi pesa il cammino se posso mettere pace fra voi».

L’uomo, inviperito, scatta: «E che vuoi che me ne faccia delle tue parole? Ci vuol ben altro che parole in questo caso!».

«Ma non mi hai detto di ordinare a tuo fratello di…».

«Ordinare non è evangelizzare. Ordinare è sempre unito a minaccia. Minaccialo di percuoterlo nella persona se non mi dà il mio. Tu lo puoi fare. Come dai salute, puoi dare malattia».

«Uomo, Io sono venuto a convertire, non a percuotere. Ma se tu avrai fede nelle mie parole troverai pace».

«Quali parole?».

«Ti ho detto che pregherò per te e per tuo fratello, acciò tu sia consolato ed egli si converta».

«Storie! Storie! Io non ho la dabbenaggine di crederle. Vieni e ordina».

Gesù, che era mite e paziente, si fa imponente e severo.

Si raddrizza -prima stava un po’ curvo sull’ometto corpulento e acceso d’ira- e dice:

«Uomo, e chi mi ha costituito giudice e arbitro fra di voi? Nessuno. Ma, per levare una scissura fra due fratelli, accettavo a venire per esercitare la mia missione di pacificatore e di redentore e, se tu avessi creduto nelle mie parole, tornando ad Abelmain avresti trovato già convertito il fra­tello. Tu non sai credere. E non avrai il miracolo.

Tu, se per primo avessi potuto afferrare il tesoro, te lo saresti tenuto privandone il fratello, perché, in verità, come siete nati gemelli, così avete gemelle le passioni, e tu come tuo fratello avete solo un amore: l’oro; una fede: l’oro. Sta dunque con la tua fede. Addio».

L’uomo se ne va maledicendolo fra lo scandalo di tutti, che lo vorrebbero punire.

Ma Gesù si oppone. Dice: «Lasciatelo andare. Perché volete sporcarvi le mani percuotendo un bruto? Io perdono perché è un posseduto dal demone dell’oro che lo travia. Fatelo voi pure. Piuttosto preghiamo per questo infelice che torni uomo dall’anima bella di libertà».

«È vero. Anche nel volto è divenuto orrendo nella sua cupidigia. Hai visto?», si chiedono l’un coll’altro discepoli e astanti che erano vicini all’avaro.

«È vero! È vero! Non pareva più quello di prima».

«Sì. Quando poi ha respinto il Maestro, per poco lo percuoteva mentre lo malediceva, è divenuto un demone nel volto».

«Un demone tentatore. Tentava il Maestro alla cattiveria…».

«Udite», dice Gesù. «Veramente le alterazioni dell’animo si riflettono sul volto. È come se il demonio affiorasse alla superficie di quel suo possesso. Pochi sono quelli che, essendo demoni, o con atti o con aspetto non tradiscano ciò che sono. E questi pochi sono i perfetti nel male e i perfettamente posseduti.

Il volto del giusto invece è sempre bello, anche se materialmente deforme, per una bellezza soprannaturale che si effonde dall’interno all’esterno.

E, non per modo di dire, ma per verità di fatti, noi osserviamo nel puro dai vizi una freschezza anche di carni. L’anima è in noi e ci abbraccia tutti. E i fetori di un’anima corrotta corrompono anche le carni. Mentre i profumi di un’anima pura preservano. L’anima corrotta spinge la carne a peccati osceni, e questi invecchiano e deformano. L’anima pura spinge la carne a vita pura. E ciò conserva freschezza e comunica maestà.

Fate che in voi permanga giovinezza pura di spirito, o risorga se già perduta, e badate di guardarvi da ogni cupidigia, sia del senso che del potere. La vita dell’uomo non dipende dall’abbondanza dei beni che possiede. Né questa, né tanto meno l’altra: quella eterna. Ma dalla sua maniera di vivere. E, con la vita, la felicità di questa Terra e del Cielo.

Perché il vizioso non è mai felice, realmente felice. Mentre il virtuoso è sempre felice di una letizia celeste anche se povero e solo.

Neppure la morte lo impressiona. Perché non ha colpe e rimorsi a fargli temere l’incontro con Dio, e non ha rimpianti per ciò che lascia sulla Terra. Egli sa che in Cielo è il suo tesoro e, come uno che vada a prendere l’eredità che gli spetta, e eredità santa, va lieto, sollecito, incontro alla morte che gli apre le porte del Regno dove è il suo tesoro.

Fatevi subito il vostro tesoro. Iniziatelo dalla giovinezza, voi che giovani siete; indefessamente lavorate, voi anziani che, per l’età, avete più prossima la morte. Ma, posto che morte è scadenza ignota, e sovente cade il fanciullo prima del vegliardo, non rimandate il lavoro di farvi un tesoro di virtù e di buone opere per l’altra vita, onde non vi raggiunga la morte senza che voi abbiate messo un tesoro di meriti in Cielo.

Molti sono quelli che dicono: “Oh! sono giovane e forte! Per ora godo sulla Terra, poi mi convertirò”. Grande errore!

Udite questa parabola. Ad un uomo ricco aveva fruttato molto bene la campagna. Proprio un raccolto da miracolo. Egli contempla felice tutta questa dovizia che si accumula sui suoi campi e le sue aie e che non trova posto nei granai, tanto che è ospitata sotto tettoie provvisorie e persino nelle stanze della casa, e dice: ”Ho lavorato come uno schiavo, ma la terra non mi ha deluso. Ho lavorato per dieci raccolti e ora voglio riposare per altrettanto. Come farò a mettere a posto tutti questi raccolti? Venderne non voglio, perché mi costringerei a lavorare per avere il prossimo anno nuovo raccolto.

Farò così: demolirò i miei granai e ne farò di più vasti, che c’entrino tutti i raccolti e i miei beni. E poi dirò all’anima mia: Oh, anima mia! Tu hai ora da parte dei beni per molti anni. Riposati dunque, mangia e bevi e godi”.

Costui, come molti, confondeva il corpo con l’anima e mescolava il sacro al profano, perché realmente nelle gozzoviglie e nell’ozio l’anima non gode ma languisce, e anche costui, come molti, dopo il primo buon raccolto nei campi del bene, si fermava, parendogli di avere fatto tutto.

Ma non sapete che, posta la mano all’aratro, occorre perseverare uno e dieci e cent’anni, quanto la vita dura, perché fermarsi è delitto verso se stessi ai quali si nega una gloria mag­giore, è regredire perché chi si ferma generalmente non solo non progredisce più, ma si volge indietro? Il tesoro del Cielo deve aumentare anno per anno per essere buono.

Ché, se la Misericordia sarà benigna anche con chi ebbe pochi anni per formarlo, non sarà complice dei pigri che avendo lunga vita fanno poco. È un tesoro in continuo aumento. Se no non è più tesoro fruttifero, ma inerte, e ciò va a detrimento della pronta pace del Cielo.

Dio disse allo stolto: “Uomo stolto, che confondi il corpo e i beni della Terra con ciò che è spirito, e di una Grazia di Dio te ne fai un male, sappi che questa notte stessa ti sarà chiesta l’anima e levata, e il corpo giacerà senza vita.

Quanto hai preparato, di chi sarà? Lo porterai con te? No.

Te ne verrai nudo di raccolti terreni e di opere spirituali al mio cospetto e povero sarai nell’altra vita. Meglio ti era dei tuoi raccolti farne opere di misericordia al prossimo e a te. Perché, essendo misericordioso agli altri, alla tua anima eri misericordia. E, invece di nutrire pensieri d’ozio, coltivare attività da cui trarre onesto utile al tuo corpo e grandi meriti alla tua anima finché Io ti avessi chiamato”.

E l’uomo nella notte morì e fu severamente giudicato. In verità vi dico che così capita a chi tesoreggia per sé e non arricchisce agli occhi di Dio.

Ora andate e fate tesoro della dottrina che vi viene data. La pace sia con voi».

 

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta