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XXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C 1 Settembre 2019

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 14,1.7-14)
Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo.
Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti». Parola del Signore.

RIFLESSIONI

Diventare cristiani – cammino che dura tutta la nostra vita – significa non tanto imparare delle cose su Dio, neppure osservare delle regole dettate da lui, ma vivere un rapporto di amore con Gesù. L’amore tocca tutto: il modo di pensare, di vedere e di agire. Gesù ha continuamente invitato a questo tipo di rapporto: i Vangeli contengono questo invito (rimanete nel mio amore!), e sono nati da persone che hanno vissuto un profondo rapporto di amore con Gesù, che ha permesso loro di ricordare quanto Gesù ha fatto e ha insegnato, e di comprenderlo alla luce della sua morte e risurrezione.
Nella pagina di Vangelo di questa domenica Gesù ci racconta due parabole che mettono a confronto quello che lui “vede” fare dagli uomini e, potremmo dire, quello che “vede” fare dal Padre, invitandoci a passare piano piano dal nostro modo di vedere la vita al suo. Molti insegnamenti di Gesù nascono in luoghi semplici e ordinari, come il caso di oggi. Gesù in un giorno festivo di sabato, dopo aver partecipato al culto nella sinagoga, accoglie l’invito a pranzo da un capo dei farisei (persone impegnate a vivere con molta attenzione le norme della legge data da Dio attraverso Mosè). Gesù “osserva”, cioè guarda con attenzione un fatto umano: gli invitati a pranzo sono tutti preoccupati di scegliere i posti di onore. Poi racconta una parabola (probabilmente ai pochi che erano attorno a lui, che potevano sentirlo). Quando sei invitato non scegliere i primi posti, ma gli ultimi; se ti spetta un posto più importante e sarai invitato a cambiare, non potrai che esserne onorato. Invece se fai il contrario, dovrai sentire vergogna. Gesù ci invita ad essere “furbi” e scegliere il cammino più adeguato per ricevere onore, non cercandolo da noi stessi ma ricevendolo dagli altri.
Dove entra Dio in questa parabola? Nella conclusione: chi si esalta sarà umiliato (Dio lo abbasserà), chi si umilia sarà esaltato (da Dio). Gesù ci invita a dare valore a come ci vede Dio rispetto a come ci vedono gli uomini: davanti a Lui siamo tutti piccoli e deboli (come ricorda la lettura, dal libro sapienziale del Siracide). Occorre distinguere l’invito di Gesù ad essere umili dall’atteggiamento di chi si disprezza, non riconosce il proprio valore (quello che la psicologia chiama bassa stima di sé, che non è segno di maturità e equilibrio e non permette di essere veramente umili).

IO SONO LA LUCE DEL MONDO IL VANGELO DEL GIORNO XXI DOMENICA E SETTIMANA TEMPO ORDINARIO ANNO C IL VANGELO

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta Capitolo 335

Vedo Gesù camminare rapidamente per una via maestra che il vento freddo di un mattino d’inverno spazza e indurisce. I campi, al di qua e al di là della strada, hanno appena una timida peluria di messi che spuntano, una velatura di verde in cui è una promessa di futuro pane, ma una promessa appena appena pensata. Vi sono i solchi ombrosi ancora privi di questo verde benedetto, e solo quelli nei posti più solatii hanno quel verzicare così lieve e già così festoso perché parla di prossima primavera.

Gli alberi da frutto sono ancora nudi, neppure una gemma si gonfia sui loro rami scuri. Solo gli ulivi hanno il loro eterno bigio verde, triste tanto sotto al sole d’agosto come sotto questo chiarore di prima mattina invernale. E con loro hanno verde, un verde pastoso di ceramiche appena tinte, le grasse foglie delle cactacee.

Gesù cammina, come sovente, di due o tre passi avanti i discepoli. Sono tutti ben coperti nei loro mantelli di lana.

Ad un punto Gesù si ferma e si volge interpellando i discepoli: «Siete pratici della via?».

«La via è questa, ma poi la casa dove sia non lo si sa, perché è nell’interno… Forse là dove è quel folto di ulivi…».

«No. Deve essere là in fondo, invece, dove sono quei grossi alberi spogli…».

«Ci dovrebbe essere una via per i carri…».

Insomma non sanno niente di preciso. Persone per la via e per i campi non se ne vedono. Vanno a caso, in avanti, cercando la via.

Trovano una piccola casetta di poveri, con due o tre campicelli intorno. Una fanciulla sta attingendo l’acqua da un pozzo.

«Pace a te, bambina», dice Gesù fermandosi sul limitare della siepe, che ha un varco per chi va e viene.

«Pace a te. Che vuoi?».

«Una indicazione. Dove è la casa di Ismaele il fariseo?».

«Sei fuori strada, Signore. Devi tornare al bivio e prendere quella che va dove tramonta il sole. Ma devi camminare molto molto, perché devi tornare là, al bivio, e poi andare, andare. Hai mangiato? Fa freddo e lo stomaco vuoto lo fa sentire di più. Entra, se vuoi. Siamo poveri. Ma anche Tu non sei ricco. Ti puoi adattare. Vieni». E chiama con voce acuta: «Mamma!».

Si fa sulla soglia una donna sui trentacinque, quarant’anni. Ha un volto onesto, ma un poco triste. Fra le braccia ha un bambino di circa tre anni, mezzo svestito.

«Entra. Il fuoco è acceso. Ti darò latte e pane».

«Non sono solo. Ho questi amici».

«Entrino tutti e la benedizione di Dio coi pellegrini che ospito».

Entrano in una cucina bassa e scura che rallegra un fuoco vivo. Si siedono qua e là su rozze cassapanche.

«Ora vi preparo… È mattina… Non ho ancora ordinato nulla… Scusate».

«Sei sola?».

È Gesù che parla.

«Ho marito e figli. Sette. I due più grandi sono ancora al mercato di Naim. Vi devono andare loro perché il marito è malato. Un grande dolore!… Le bambine mi aiutano. Questo è il più piccino. Ma ne ho un altro appena di poco più grande».

Il piccino, ormai vestito della sua tunichella, corre a piedi scalzi verso Gesù e Lo guarda curiosamente. Gesù gli sorride. L’amicizia è fatta.

«Chi sei?», chiede il bambino con confidenza.

«Sono Gesù».

La donna si volge a guardarlo attentamente. È rimasta con un pane fra le mani, fra focolare e tavolo. Apre la bocca per parlare, ma poi tace.

Il bambino continua: «Dove vai?».

«Per le vie del mondo».

«A far che?».

«A benedire i bambini buoni e le loro case dove si è fedeli alla Legge».

La donna torna a fare un gesto. Poi fa un cenno a Giuda Iscariota, che è quello a lei più vicino. Egli si curva verso la donna che chiede: «Ma chi è il tuo amico?».

E Giuda, tronfio: «È il Rabbi di Galilea, Gesù di Nazareth. Non lo sai, donna?».

«Questa è via fuori mano ed io ho tanti dolori!… Ma… potrei dirli a Lui?».

«Puoi», dice con sussiego Giuda. Mi sembra un pezzo gross­o del mondo che conceda udienza…

Gesù continua a parlare col bambino che gli chiede se ha anche Lui bambini.

Mentre la fanciulla già vista e un’altra più grandicella portano latte e stoviglie, la donna va vicino a Gesù. Resta un poco in sospeso, poi ha un grido soffocato: «Gesù, pietà di mio marito!».

Gesù si alza. La signoreggia colla sua statura, ma la guarda con tanta bontà che ella si rinfranca. «Che vuoi che Io faccia?».

«È molto malato. Gonfio come un otre, non può più piegarsi e lavorare. Non trova riposo perché affoga, e smania… E abbiamo i bambini ancora piccini…».

«Vuoi che Io lo guarisca? Ma perché lo vuoi da Me?».

«Perché Tu sei Tu. Io non ti conoscevo, ma ho sentito parlare di Te. La sorte ti ha condotto alla mia casa dopo che per tre volte io ti ho cercato a Naim e a Cana. Due volte c’era anche mio marito. Cercava Te, per quanto l’andare sul carro lo faccia tanto soffrire… Anche ora è via con suo fratello… Ci hanno riportato che il Rabbi, lasciata Tiberiade, andava verso Cesarea di Filippo. È andato là ad aspettarti…».

«Non sono andato a Cesarea. Vado dal fariseo Ismaele e poi andrò verso il Giordano…».

«Tu, buono, da Ismaele?».

«Sì. Perché?».

«Perché… perché… Signore, io so che Tu dici di non giudicare, di perdonare e di amarsi. Non ti ho mai visto. Ma ho cercato di sapere di Te il più che potevo e pregavo l’Eterno di poterti udire almeno una volta. Non voglio far cosa che ti dispiaccia… Ma come poter non giudicare Ismaele e amarlo? Io nulla ho di comune con lui e perciò non ho niente da perdonargli. Le insolenze che ci getta quando incontra la nostra povertà sul suo cammino le scuotiamo da noi, con la stessa pazienza con cui scuotiamo fango e polvere che egli ci getta quando passa veloce coi suoi cocchi. Ma amarlo e non giudicarlo è troppo difficile… È tanto cattivo!».

«È tanto cattivo? Con chi?».

«Con tutti. Opprime i servi, dà a usura e crudelmente esige. Non ama che sé. È il più crudele della contrada. Non merita, Signore».

«Lo so. Dici il vero».

«E Tu vai là?».

«Mi ha invitato».

«Diffida, Signore. Non lo avrà fatto per amore. Non ti può amare. E Tu… non lo puoi amare».

«Io amo anche i peccatori, donna. Sono venuto per salvare chi è perduto…».

«Ma questo non lo salverai. Oh! perdono di aver giudicato! Tu sai… Tutto è bene ciò che fai! Perdona alla mia lingua stolta e non mi punire».

«Non ti punisco. Ma non lo fare più. Ama anche i malvagi. Non per la loro malvagità, ma perché è con l’amore che si ottiene loro la misericordia che converte.

Tu sei buona e vogliosa di esserlo più ancora. Tu ami la verità, e la Verità che ti parla ti dice che ti ama perché sei pietosa secondo la legge all’ospite e al pellegrino e così hai allevato i tuoi figli. Dio sarà il tuo compenso.

Io devo andare da Ismaele che mi ha invitato per mostrarmi a molti suoi amici che mi vogliono conoscere. Non posso attendere oltre tuo marito che, sappilo, è sulla via del ritorno. Ma dì a lui di soffrire ancora per un poco e di venire subito da Ismaele. Vieni tu pure. Io lo guarirò».

«Oh! Signore!…». La donna è a ginocchi ai piedi di Gesù e Lo guarda con riso e pianto. Poi dice: «Ma è sabato oggi!…».

«Lo so. Ho bisogno che sia sabato per dire qualcosa in merito ad Ismaele. Tutto quanto Io faccio, lo faccio con uno scopo chiaro e senza errore. Sappiatelo tutti, anche voi, amici miei che avete paura e vorreste Io seguissi una condotta secondo le convenienze umane per non averne danno.

È l’amore che vi guida. Lo so. Ma dovete saper amare meglio chi amate. Non posponendo mai l’interesse divino all’interesse dell’amato vostro. Donna, Io vado e ti attendo. La pace sia perenne in questa casa, dove si ama Dio e la sua legge ed è rispettato il coniugio e allevata santamente la prole, amato il prossimo e cercata la Verità. Addio».

Gesù posa la mano sul capo della donna e delle due giovinettine e poi si curva a baciare i bambini più piccoli ed esce.

Ora un solicello d’inverno tempera l’aria cruda. Un ragazzo di un quindici anni attende con un rustico carro molto sconquassato.

«Non ho che questo, Signore. Ma farai sempre più presto e con più comodo».

«No, donna. Serbati fresco il cavallo per venire da Ismaele. Mostrami solo la strada più breve».

Il ragazzo si pone al suo fianco e, per campi e prati, vanno verso una ondulazione del suolo, oltre la quale vi è un’ampia conca di qualche ettaro, ben coltivata, al centro della quale è una bella casa larga e bassa, stretta da una fascia di giardino ben coltivato.

«La casa è quella, Signore», dice il ragazzo. «Se non ti occorro più, torno a casa per aiutare la mamma».

«Vai e sii sempre un figlio buono. Dio è con te»…

…Gesù entra nella sontuosa casa di campagna di Ismaele. Servi in gran numero corrono incontro all’Ospite, certo atteso. Altri vanno ad avvisare il padrone, il quale esce con grandi inchini incontro a Gesù.

«Bene vieni, Maestro, alla mia casa!».

«Pace a te, Ismael ben Fabi. Mi hai desiderato. Vengo. Perché mi hai voluto?».

«Per esser onorato di averti e per presentarti ai miei amici. Voglio siano anche i tuoi. Come voglio Tu sia mio amico».

«Io sono amico di tutti, Ismaele».

«Lo so. Ma sai! È bene avere amicizie in alto. E la mia e quelle dei miei amici sono tali. Tu, perdona se te lo dico, trascuri troppo coloro che ti possono appoggiare…».

«E tu sei di questi? Perché?».

«Io sono di questi. Perché? Perché ti ammiro e voglio che Tu mi sia amico».

«Amico! Ma sai tu, Ismaele, il significato che Io do a questa parola? Per molti amico vuol dire conoscente, per altri complice, per altri servo. Per Me vuol dire: fedele alla Parola del Padre. Chi non è tale non può essermi amico, né Io di lui».

«Ma è appunto perché voglio esser fedele che voglio la tua amicizia, Maestro. Non lo credi? Guarda: ecco Eleazar che giunge. Domanda a lui come io ti ho difeso presso gli Anziani. Eleazar, io ti saluto. Vieni, che il Rabbi ti vuole chiedere una cosa».

Grandi saluti e reciproche occhiate indagatrici.

«Dì tu, Eleazar, quanto dissi del Maestro l’ultima volta che fummo riuniti», dice Ismaele. Poi se ne va, lasciando l’amico presso Gesù.

«Oh! un vero elogio! Una difesa appassionata! Vaghezza di sentirti mi venne allora, tanto Ismaele parlò di Te, Maestro, come del Profeta più grande venuto al popolo d’Israele. Mi ricordo che disse che nessuno aveva parola più profonda della tua, fascino più grande e che, se come sai parlare saprai reggere la spada, non vi sarà re più grande di Te in Israele».

«Il mio Regno!… Non è umano, Eleazar, questo Regno».

«Ma il re d’Israele?!».

«Si aprano le vostre menti a comprendere il senso delle parole arcane. Verrà il Regno del Re dei re. Ma non nella misura umana. Non per quanto perisce, ma per ciò che è eterno. Ad esso si accede non per fiorita via di trionfi né su porpureo tappeto di sangue nemico. Ma per erto sentiero di sacrificio e per mite scala di perdono e d’amore. Le vittorie contro noi stessi ci daranno questo Regno.

E voglia Iddio che il più gran numero d’Israele possa capirmi. Ma non sarà così. Voi pensate ciò che non è. Nella mia mano sarà uno scettro, e il popolo d’Israele lo avrà messo. Regale e eterno. Nessun re potrà più levarlo alla mia Casa. Ma molti in Israele non potranno vederlo senza fremere di orrore, perché avrà un nome per loro atroce».

«Tu non ci credi capaci di seguirti?».

«Se lo voleste, potreste. Ma non volete. Perché non volete? Siete anziani, ormai. L’età dovrebbe darvi comprensione e giustizia. Giustizia anche per voi stessi. I giovani… essi potranno errare e poi pentirsi. Ma voi! La morte è sempre prossima agli anziani. Eleazar, tu sei meno avviluppato nelle teorie di molti tuoi simili. Apri il tuo cuore alla Luce…».

Torna Ismaele con altri cinque pomposi farisei.

«Venite dunque nella casa», dice il padrone di essa. E, lasciato l’atrio, ricco di sedili e tappeti, entrano in una stanza dove vengono portate anfore e catini per le abluzioni. Poi passano nella sala da pranzo, molto riccamente preparata.

«Gesù al mio fianco. Fra me e Eleazar», ordina il padrone. E Gesù, che si era tenuto nel fondo della sala presso i discepoli un poco intimoriti e trascurati, deve sedersi al posto d’onore.

Il convito ha inizio con numerose portate di carni e pesci arrostiti. Vini e, mi sembra, sciroppi, o per lo meno acque con miele, passano e ripassano.

Tutti cercano di far parlare Gesù. Uno, un vecchio tutto tremolante, chiede con voce chioccia di decrepito: «Maestro. È vero quel che si dice, che Tu intendi modificare la Legge?».

«Io non muterò un iota alla Legge. Anzi sono proprio venuto per renderla di nuovo integra come quando fu data a Mosè».

«Vorresti dire che fu modificata?».

«Non mai. Unicamente subì la sorte di tutte le cose eccelse poste in mano all’uomo».

«Vorresti dire? Specifica».

«Voglio dire che l’uomo, per l’antica superbia o per l’antico fomite della triplice lussuria, volle ritoccare la lineare parola e ne fece qualcosa che opprime i fedeli, mentre per i ritoccatori non è che un cumulo di frasi che… vanno lasciate agli altri».

«Ma, Maestro! I nostri rabbini…».

«Questa è un’accusa!».

«Non ci deludere nel nostro desiderio di giovarti!…».

«Eh! Eh! Hanno ragione a dirti ribelle!».

«Silenzio! Gesù è mio ospite. Parli liberamente».

«I nostri rabbini iniziarono la loro fatica con lo scopo santo di rendere più facile l’applicazione della Legge. Lo stesso Iddio iniziò questa scuola quando alle parole dei dieci Comandi aggiunse più minute spiegazioni. Ciò perché l’uomo non avesse a sua scusa il non aver saputo capire.

Opera santa, dunque, quella dei maestri che spezzano in briciole ai piccoli di Dio il pane dato da Dio allo spirito. Ma santa se segue retto fine. Ciò non fu sempre. Ed ora lo è meno che mai. Ma perché mi volete far dire, voi che vi offendete se Io vi enumero le colpe dei potenti?».

«Colpe! Colpe! Non abbiamo che colpe noi?».

«Io vorrei aveste solo meriti!».

«Ma non li abbiamo. Tu lo pensi e il tuo occhio lo dice. Gesù, non è criticando che si fanno amici i potenti. Tu non regnerai. Non ne sai l’arte».

«Io non chiedo di regnare come voi credete e non mendico amicizie. Voglio amore. Ma onesto e santo. Un amore che da Me vada a quelli che amo, e che si dimostri usando verso i poveri quello che Io predico di usare: misericordia».

«Io, da quando ti ho udito, non ho più dato ad usura», dice uno.

«E Dio te ne darà compenso».

«Il Signore mi è testimonio se ho più percosso i servi che meriterebbero frustate, da quando mi fu detta una tua parabola», dice un altro.

«Ed io? Più di dieci moggia di orzo ho lasciato nei campi per i poveri!», fa un altro ancora.

I farisei si lodano egregiamente.

Ismaele non ha parlato. Gesù l’interpella: «E tu, Ismaele?».

«Oh! io! Io ho sempre usato misericordia. Non ho che da continuare come sempre ho agito».

«Buon per te! Se così è realmente tu sei l’uomo che non conosce rimorsi».

«Oh! no davvero!».

Gesù lo trapana col suo occhio di zaffiro.

Eleazar lo tocca sul braccio: «Maestro, ascoltami. Io ho un caso speciale da sottoporti. Ho acquistato di recente una proprietà da un disgraziato che si è rovinato per una donna. Questo me l’ha venduta, ma senza dirmi che in essa vi è una vecchia serva, la sua nutrice, ormai cieca e semiebete. Il venditore non la vuole. Io… non la vorrei. Ma gettarla in mezzo alla via… Che faresti Tu, Maestro?».

«Tu che faresti se dovessi dare ad altro un consiglio?».

«Direi: “Tienila. Non sarà un pane quel che ti rovina”».

«E perché diresti così?».

«Mah!… perché penso che io farei così e vorrei che così mi venisse fatto…».

«Tu sei molto prossimo alla giustizia, Eleazar. Fa come consiglieresti e il Dio di Giacobbe sarà sempre con te».

«Grazie, Maestro».

Gli altri brontolano fra loro.

«Che avete da mormorare?», chiede Gesù. «Non ho detto giusto? E costui non ha giustamente parlato? Ismaele, difendi i tuoi ospiti, tu che hai sempre usato misericordia».

«Maestro, Tu parli bene ma… se si facesse sempre così!… Si sarebbe vittime degli altri».

«Ed è meglio, secondo te, che siano gli altri vittime nostre, non è vero?».

«Non dico questo. Ma vi sono casi…».

«La Legge dice di avere misericordia…».

«Sì, per il fratello povero, per il forestiero, il pellegrino, la vedova e l’orfano. Ma questa vecchia, che è capitata fra le braccia di Eleazar, non è sua sorella, né pellegrina, forestiera, orfana o vedova. Nulla è per lui. Né più né meno che un vecchio arredo, non suo, dimenticato dal vero padrone nella tenuta venduta. Perciò Eleazar la potrebbe anche cacciare senza scrupoli di sorta. Infine la colpa della morte della vecchia non sarebbe sua. Ma del suo vero padrone…».

«…il quale non la può più mantenere essendo povero lui pure, e perciò anche lui è esente da obblighi. Di modo che, se la vecchia muore di fame, la colpa è della vecchia. Non è così?».

«Così, Maestro. È la sorte di coloro che… non servono più. Malati, vecchi, inabili, sono condannati alla miseria, alla mendicità. E la morte è la cosa migliore per essi… Così è da quando è il mondo, e così sarà…».

«Gesù, abbi pietà di me!».

Un lamento entra dalle finestre sbarrate, perché la sala è chiusa e coi lampadari accesi. Forse per il freddo.

«Chi mi chiama?».

«Qualche importuno. Lo farò cacciare. O qualche mendico. Farò dare un pane».

«Gesù, sono malato. Salvami!».

«L’ho detto. Un importuno. Punirò i servi per averlo fatto passare». E Ismaele si alza.

Ma Gesù, più giovane di almeno venti anni e più alto di tutto il collo e capo, lo ripone a sedere ponendogli la mano sulla spalla e ordinando: «Resta, Ismaele. Voglio vedere costui che mi cerca. Fate entrare».

Entra un uomo con capelli ancora neri. Può avere una quarantina d’anni. Ma è gonfio come una botte e giallo come un limone, con le labbra violacee semiaperte nella bocca anelante. Lo accompagna la donna della prima parte della visione.

L’uomo avanza a fatica per malattia e per timore. Si vede guardato così malamente! Ma Gesù ha lasciato il suo posto ed è andato presso all’infelice prendendolo per mano e portandolo al centro della sala, nello spazio vuoto fra le tavole messe a “u”. Proprio sotto al lampadario.

«Che vuoi da Me?».

«Maestro… ti ho tanto cercato… da tanto… Nulla voglio fuorché salute… per i miei bambini e la mia donna… Tu puoi tutto… Vedi come sono ridotto…».

«E credi che Io ti possa guarire?».

«Se lo credo!… Ogni passo m’è dolore… ogni scossa pena… ma pure ho fatto chilometri per cercarti… e poi col carro ti sono venuto ancora dietro… ma non ti raggiungevo mai… Se lo credo! Mi fa stupore non esser già guarito da quando la mia mano è nella tua, poiché tutto di Te è santo, o Santo di Dio».

Il poveretto soffia come un mantice per lo sforzo di tante parole. La moglie guarda il marito e Gesù, e piange.

Gesù li guarda e sorride. Poi si volge e chiede: «Tu, vecchio scriba rispondi a Me: è lecito guarire in sabato?».

«In sabato non è lecito fare opera alcuna».

«Neppure salvare uno dalla disperazione? Non è lavoro manuale».

«Il sabato è sacro al Signore».

«Quale opera più degna di un giorno sacro di quella di far sì che un figlio di Dio dica al Padre: “Io ti amo e lodo perché m’hai guarito”?!».

«Deve farlo anche se infelice».

«Canania, lo sai che in questo momento il tuo bosco più bello sta ardendo e tutta la pendice dell’Hermon splende nella porpora delle fiamme?».

Il vecchietto schizza come l’avesse morso un aspide: «Maestro, dici il vero o scherzi?».

«Dico il vero. Io vedo e so».

«Oh! me misero! Il mio bosco più bello! Migliaia di sicli in cenere! Maledizione! Siano maledetti i cani che me l’hanno messo a fuoco! Ardano nelle viscere come il mio legno!».

Il vecchietto è disperato.

«Non è che un bosco, Canania, e ti lamenti! Perché non dai lode al Signore in questa sventura? Costui perde non del legno, che rinasce, ma la vita e il pane per i figli, e dovrebbe dar la lode che tu non dai. Dunque, scriba, non m’è lecito guarire in sabato costui?».

«Maledetto Te, lui e il sabato! Ho ben altro da pensare io…»; e, dato uno spintone a Gesù che gli aveva posto una mano sul braccio, esce furente e si ode che sbraita con la sua voce chioccia per avere il suo carro.

«E ora?», Gesù chiede girando lo sguardo sugli altri. «E ora ditemi voi. È lecito o meno?».

Nessuna risposta. Eleazar china il capo dopo aver socchiuso le labbra, che però richiude, colpito dal gelo che si è fatto nella sala.

«Ebbene Io parlerò», dice Gesù. Ed è imponente e tonante nell’aspetto e nella voce, come sempre quando sta per operare miracolo. «Io parlerò. Parlo. Dico: uomo, ti sia fatto secondo che credi. Tu sei sanato. Loda l’Eterno. Va in pace».

L’uomo resta interdetto. Forse pensava tornare di colpo snello come un tempo. E gli pare non esser guarito. Ma chissà cosa sente… Ha un grido di gioia e si getta ai piedi di Gesù e li bacia.

«Vai, vai! Sii sempre buono. Addio!».

L’uomo esce seguito dalla donna, che sino all’ultimo si volge a salutare Gesù.

«Però, Maestro… In casa mia… Di sabato…».

«Tu non approvi? Lo so. E per questo sono venuto. Amico tu? No. Nemico mio. Non sei sincero con Me e non con Dio».

«Offendi, ora?».

«No. Dico la verità. Tu hai detto che Eleazar non è tenuto a soccorrere quella vecchia perché non è di sua proprietà. Ma tu avevi due orfani nella tua proprietà. Erano figli di due tuoi servi fedeli che ti sono morti sul lavoro, uno con la falce in pugno, l’altra uccisa da troppa fatica per averti dovuto servire, come esigevi da lei per tenerla, per lei e per il marito. Tu dicevi: “Io ho fatto patto per due persone di lavoro e per tenerti voglio il lavoro tuo e del morto”. E lei te lo ha dato ed è morta col suo concepimento. Perché quella donna era madre. E non vi fu per essa la pietà che si ha per la bestia che genera. Dove sono ora quei due bambini?».

«Non so… Sono scomparsi un giorno».

«Non mentire ora. Basta l’esser stato crudele. Non occorre aggiungere menzogna per rendere odiosi a Dio i tuoi sabati, anche se scevri da opera servile. Dove sono quei bambini?».

«Non lo so. Non lo so più, credilo».

«Io lo so. Li ho trovati una sera di novembre, fredda, piovosa, buia. Li ho trovati affamati e tremanti, presso una casa, come due cagnoli in cerca di un boccone di pane… Maledetti e cacciati da chi aveva viscere di cane più di un cane vero. Perché un cane avrebbe avuto pietà di quei due orfanelli. E tu e quell’uomo non ne avete avuta.

Non ti servivano più i loro genitori, vero? Erano morti. I morti piangono solo, nei loro sepolcri, udendo i singhiozzi dei figli infelici che gli altri trascurano. I morti però, col loro spirito, portano i loro pianti, e quelli degli orfani loro, a Dio e dicono: “Signore, fai Tu le nostre vendette, poiché il mondo opprime quando non ci può più sfruttare”.

Non ti servivano ancora i due piccini, vero? Sì e no se la bambina poteva servire a spigolare… E tu li hai cacciati negando loro anche quel poco bene che era del padre e della madre. Potevano morire di fame e freddo come due cani su una carraia. Potevano vivere divenendo uno ladro e una prostituta. Perché la fame porta al peccato. Ma che te ne importava?

Poco fa tu citavi la Legge a puntello delle tue teorie. E la Legge non dice allora: “Non danneggiate la vedova e l’orfano, ché, se li danneggerete ed essi alzeranno la voce a Me, Io ascolterò il loro grido e il mio furore divamperà e vi sterminerò con la spada, e le vostre mogli resteranno vedove e i vostri figli orfani”? Non dice così la Legge?

E allora perché tu non l’osservi? Tu mi difendi presso gli altri? E allora perché non difendi la mia dottrina in te stesso? Tu mi vuoi essere amico? E allora perché fai l’opposto di quello che Io dico? Uno di voi sta correndo a perdifiato, strappandosi i capelli per la rovina del suo bosco. E non se li strappa sulle rovine del suo cuore! E tu che aspetti a farlo?

Perché volete sempre credervi perfetti, voi che la sorte ha messo in alto? E se anche lo foste in qualcosa, perché non cercate esserlo in tutto? Perché mi odiate perché Io vi scopro le piaghe? Io sono il Medico del vostro spirito. Può un medico guarire se non scopre e netta le piaghe?

Ma non sapete che molti, e quella donna che è uscita ne è una, meritano il primo posto nel convito di Dio pur essendo in apparenza meschini?

Non è l’esterno, è il cuore, è lo spirito quello che vale. Dio vi vede dall’alto del suo trono. E vi giudica. Quanti ne vede migliori di voi!

Perciò udite. Per regola agite così, sempre. Quan­do vi invitano ad un convito di nozze, scegliete sempre l’ultimo posto. Doppio onore ve ne verrà quando il padrone vi dirà: “Amico, vieni avanti”. Onore di meriti e onore di umiltà. Mentre… O triste ora per un superbo esser svergognato e sentirsi dire: “Va là, in fondo, ché qui vi è uno che è più di te”. E lo stesso fate nel convito segreto del vostro spirito a nozze con Dio. Chi si umilia sarà esaltato e chi si esalta sarà umiliato.

Ismaele, non mi odiare poiché ti curo. Io non ti odio. Sono venuto per guarirti. Sei più malato di quell’uomo. Tu mi hai invitato per dar lustro a te stesso e soddisfazione agli amici. Spesso inviti, ma per superbia e gioia. Non lo fare. Non invitare ricchi, parenti e amici. Ma apri la casa, apri il cuore ai poveri, ai mendichi, agli storpi, agli zoppi, agli orfani e le vedove.

Non ti daranno che ricambio di benedizione. Ma Dio te le muterà in grazie. E alla fine… oh! alla fine, che sorte beata a tutti i misericordiosi che saranno retribuiti da Dio alla resurrezione dei morti! Guai a quelli che blandiscono soltanto una speranza di utile e poi chiudono il loro cuore al fratello che non può più servire. Guai a loro! Io farò le vendette degli abbandonati».

«Maestro… io… io ti voglio far contento. Prenderò ancora quei bambini».

«No».

«Perché?».

«Ismaele?!…».

Ismaele abbassa il capo. Vuole fare l’umile. Ma è una vipera a cui è stato spremuto il veleno e non morde perché sa che ne è priva, aspetta di mordere però…

Eleazaro cerca di riportare pace dicendo: «Beati quelli che banchettano con Dio, nel loro spirito e nel Regno eterno. Ma, credi, Maestro. Delle volte è la vita che ce ne fa ostacolo. Le cariche… le occupazioni…».

Gesù dice qui la parabola del convito e termina: «Le cariche… le occupazioni, hai detto. È vero. Ma per questo ti ho detto, al principio di questo convito, che il Regno mio si conquista con vittorie su se stessi e non con vittorie d’armi sul campo.

Il posto alla gran Cena è per questi umili di cuore che sanno esser grandi col loro fedele amore, che non misura sacrificio e tutto supera per venire a Me. Anche un’ora basta a mutare un cuore. Purché quel cuore voglia. E basta una parola. Io ve ne ho dette tante. E guardo… In un cuore sta nascendo una pianta santa. Negli altri triboli per Me e dentro ai triboli sono aspidi e scorpioni. Non importa.

Io vado sulla mia via diritta. Chi mi ama mi segua. Io vado chiamando. I retti vengano a Me. Io vado istruendo. I cercatori di giustizia si accostino alla Fonte. Per gli altri… per gli altri giudicherà il Padre santo.

Ismaele, Io ti saluto. Non mi odiare. Medita. E senti che fui severo per amore, non per odio. Pace a questa casa e ai suoi abitatori, pace a tutti se pace meritate».

 

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

XXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C 1 Settembre 2019ultima modifica: 2019-08-31T14:53:16+02:00da angelaurgese20
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