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CRISTO RE. XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C. (Lc 23,35-43)

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Luca. (Lc 23,35-43)
In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù,] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto».
Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei».
Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male».
E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso». Parola del Signore.

RIFLESSIONI

I membri del Sinedrio, che avevano consegnato Gesù a Pilato e ai soldati che dovevano crocifiggerlo, pensavano di essersi liberati di un uomo pio, certo, ma pericoloso politicamente. Ora, essi sono ai piedi della croce e lo scherniscono chiamandolo Messia, eletto di Dio, re. Gesù poteva scendere dalla croce e salvarsi; ma non l’ha fatto, perché altrimenti non ci avrebbe salvato. Ed ecco che raccoglie i frutti della sua passione: uno dei due ladroni crocifissi ai suoi fianchi confessa i propri peccati ed esorta l’altro a fare lo stesso, ma, soprattutto, professa la sua fede: Gesù è Re! Il Re crocifisso gli assicura in modo solenne: “Oggi sarai con me in paradiso”. Adamo aveva chiuso a tutti le porte del paradiso, Gesù, vincitore del peccato e della morte, apre le porte del paradiso anche ai più grandi peccatori, purché si convertano, sia pure nel momento della loro morte. Del resto, noi ben conosciamo molte conversioni simili.

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta Capitolo 609

Quattro nerboruti uomini, che per l’aspetto mi paiono giudei, e giudei degni della croce più dei condannati, certo della stessa categoria dei flagellatori, saltano da un sentiero sul luogo del supplizio. Sono vestiti di tuniche corte e sbracciate ed hanno in mano chiodi, martelli e funi che mostrano con lazzi ai tre condannati. La folla si agita in un delirio crudele.

Il centurione offre a Gesù l’anfora perché beva la mistura anestetica di vino mirrato. Ma Gesù la rifiuta. I due ladroni invece ne bevono molta. Poi 1’anfora, dall’ampia bocca svasata, viene posta presso un grosso sasso, quasi sullo scrimolo della cima. Viene dato l’ordine ai condannati di spogliarsi. I due ladroni lo fanno senza nessun pudore.

Gesù si spoglia lentamente per lo spasimo delle ferite. Forse pensa conservare le corte brache che ha tenute anche nella flagellazione. Ma, quando gli viene detto di levarsi anche le stesse, Egli tende la mano per mendicare lo straccio dei boia a difesa della sua nudità. È proprio l’Annichilito fino a dover chiedere uno straccio ai delinquenti.

Ma Maria ha visto e si è sfilata il lungo e sottile telo bianco, che le vela il capo sotto al manto oscuro e nel quale Ella ha già versato tanto pianto. Se lo leva senza far cadere il manto, lo dà a Giovanni perché lo porga a Longino per il Figlio. Il centurione prende il velo senza fare ostacolo e, quando vede che Gesù sta per denudarsi del tutto, stando voltato non verso la folla ma verso la parte vuota di popolo, mostrando così la sua schiena rigata di lividi e di vesciche, sanguinante di ferite aperte o dalle croste oscure, gli porge il lino materno. E Gesù lo riconosce.

Se ne avvolge a più riprese il bacino, assicurandoselo per bene perché non caschi… E sul lino, fino allora solo bagnato di pianto, cadono le prime gocce di Sangue, perché molte delle ferite, appena coperte di coagulo, nel chinarsi per levarsi i sandali e deporre le vesti si sono riaperte e il Sangue riprende a sgorgare.

Ora Gesù si volge verso la folla. E si vede così che anche il petto, le braccia, le gambe sono tutte state colpite dai flagelli.

La folla schernisce Gesù come in coro: «Oh! Bello! Il più bello dei figli degli uomini! Le figlie di Gerusalemme ti adorano…».

Ridono e urlano anche: «Il lebbroso! Il lebbroso! Hai dunque fornicato con un idolo se Dio ti ha così colpito? Hai mormorato contro i santi di Israele come Maria di Mosè, se sei stato così punito? Oh! Oh! il Perfetto! Sei il Figlio di Dio? Ma no! L’aborto di satana sei! Almeno egli, Mammona, è potente e forte. Tu… sei uno straccio impotente e schifoso».

I ladroni sono legati sulle croci e vengono portati al loro posto, uno a destra, uno a sinistra, ma così: ¡ + ¡ rispetto al posto destinato a Gesù. Urlano, imprecano, maledicono e, specie quando le croci vengono portate presso il buco e li sconquassano facendo segare i polsi dalle funi, le loro bestemmie a Dio, alla Legge, ai romani, ai giudei, sono infernali.

È la volta di Gesù. Egli si stende mite sul legno.

I due ladroni erano tanto ribelli che, non bastando a farlo i quattro boia, erano dovuti intervenire dei soldati a tenerli, perché a calci non respingessero gli aguzzini che li legavano per i polsi. Ma per Gesù non c’è bisogno di aiuto. Si corica e mette il capo dove gli dicono di metterlo.

Apre le braccia come gli dicono di farlo, stende le gambe come gli ordinano. Si è solo preoccupato di accomodarsi per bene il suo velo. Ora il suo lungo corpo, snello e bianco, spicca sul legno oscuro e sul suolo giallo.

La gente, cominciando dai sacerdoti, scribi, farisei, sadducei, erodiani e simili, si procura lo spasso di fare come un carosello, salendo dalla strada erta, passando lungo il rialzo finale e scendendo per l’altra via, o viceversa. E mentre passano ai piedi della vetta, sulla seconda piazzuola, non mancano di of­frire le loro parole blasfeme come omaggio al Morente.

Tutta la turpitudine, la crudeltà, l’odio e l’insania di cui sono capaci gli uomini con la lingua, vengono ampiamente testificate da queste bocche d’inferno. I più accaniti sono i membri del Tempio, coi farisei per aiuto.

«Ebbene? Tu, Salvatore dell’uman genere, perché non ti salvi? Ti ha abbandonato il tuo re belzebù? Ti ha rinnegato?», urlano tre sacerdoti.

E un branco di giudei: «Tu, che non più tardi di or sono cinque giorni, con l’aiuto del demonio, facevi dire al Padre… ah! ah! ah! che ti avrebbe glorificato, come mai non gli ricordi di mantenere la sua promessa?».

E tre farisei: «Bestemmiatore! Ha salvato gli altri, diceva, con l’aiuto di Dio! E non riesce a salvare Se stesso! Vuoi che ti si creda? E allora fai il miracolo. Non puoi più, eh? Ora hai le mani inchiodate, e sei nudo».

E dei sadducei ed erodiani ai soldati: «Attenti alla malìa, voi che vi siete prese le sue vesti! Ha dentro il segno infernale!».

Una folla in coro: «Scendi dalla croce e ti crederemo. Tu che distruggi il Tempio… Folle!… Guardalo là, il glorioso e santo Tempio d’Israele. È intoccabile, o profanatore! E Tu muori».

Altri sacerdoti: «Blasfemo! Figlio di Dio, Tu? E scendi di lì, allora. Fulminaci, se sei Dio. Non ti temiamo e sputiamo verso Te».

Altri che passano e scrollano il capo: «Non sa che piangere. Salvati, se è vero che sei l’Eletto!».

I soldati: «E salvati, dunque! Incenerisci questa suburra della suburra! Sì! Suburra dell’Impero siete, giudei canaglie. Fallo! Roma ti metterà in Campidoglio e ti adorerà come un nume!».

I sacerdoti coi loro compari: «Erano più dolci le braccia delle femmine di quelle della croce, non è vero? Ma, guarda, sono già lì pronte a riceverti le tue… (e dicono un termine infame). Ci hai tutta Gerusalemme a farti da pronuba». E fischiano come carrettieri.

Altri lanciando dei sassi: «Muta questi in pane, Tu, moltiplicatore dei pani».

Altri, scimmiottando gli osanna della domenica delle palme, lanciano dei rami e gridano: «Maledetto colui che viene in nome del demonio! Maledetto il suo regno! Gloria a Sionne che lo recide di fra i vivi!».

Un fariseo si piazza di fronte alla croce, e mostra il pugno facendo le corna e dice: «“Ti affido al Dio del Sinai”, Tu dicesti? Ora il Dio del Sinai ti prepara al fuoco eterno. Perché non chiami Giona a renderti il buon servizio?».

Un altro: «Non rovinare la croce con i colpi della tua testa. Deve servire per i tuoi seguaci. Una intera legione ne morirà sul tuo legno, te lo giuro su Jeové. E per primo ci metterò Lazzaro. Vedremo se Tu lo levi di morte, ora».

«Sì! Sì! Andiamo da Lazzaro. Inchiodiamolo dall’altro lato della croce», e pappagallescamente fanno la parlata lenta di Gesù dicendo: «Lazzaro, amico mio, vieni fuori! Slegatelo e lasciatelo andare!».

«No! Diceva a Marta e Maria, le sue femmine: “Io sono la Risurrezione e la Vita”. Ah! Ah! Ah! La Risurrezione non sa mandare indietro la morte, e la Vita muore!».

Il ladrone di sinistra continua gli insulti dalla sua croce. Pare si sia fatto il condensatore di tutte le bestemmie altrui e le snocciola tutte, terminando:

«Salvati e salvaci, se vuoi che ti si creda. Il Cristo Tu? Un folle sei! Il mondo è dei furbi e Dio non c’è. Io ci sono. Questo è vero, e per me tutto è lecito. Dio?… Fola! Messa per tenerci quieti. Viva il nostro io! Lui solo è re e dio!».

L’altro ladrone, che è a destra ed ha quasi ai piedi Maria, e La guarda quasi più che non guardi Cristo, e da qualche momento piange mormorando: «la Madre», dice: «Taci. Non temi Dio neppure ora che soffri questa pena? Perché insulti chi è buono? È in un supplizio ancor più grande del nostro. E non ha fatto nulla di male».

Ma il ladrone continua le sue imprecazioni.

Gesù tace.

Anelante per lo sforzo della posizione, per la febbre, per lo stato cardiaco e respiratorio, conseguenza della flagellazione subita in forma tanto violenta, e anche dell’angoscia profonda che gli aveva fatto sudar sangue, cerca trovare un sollievo, alleggerendo il peso che grava sui piedi, sospen­dendosi alle mani e facendo forza con le braccia. Forse lo fa anche per vincere un poco il crampo che già tormenta i piedi e che si tradisce con il tremito muscolare.

Ma lo stesso tremore è nelle fibre delle braccia, che sono sforzate in quella posizione e devono essere gelate nelle loro estremità, perché poste più in alto e abbandonate dal sangue, che a fatica giunge ai polsi e poi ne geme dai buchi dei chiodi lasciando senza circolazione le dita.

Specie quelle della sinistra sono già cadaveriche e stanno senza moto, ripiegate verso il palmo. Anche le dita dei piedi esprimono il loro tormento. Specie gli alluci, forse perché meno è leso il loro nervo, si alzano, si abbassano, si divaricano.

Il tronco, poi, svela tutta la sua pena col suo movimento, che è veloce ma non profondo, ed affatica senza dare sollievo. Le coste, molto ampie e alte di loro, perché la struttura di questo Corpo è perfetta, sono ora dilatate oltre misura per la posizione assunta dal Corpo e per l’edema polmonare che certo si è formato nell’interno. Eppure non servono ad alleggerire lo sforzo respiratorio, tanto che tutto l’addome aiuta col suo muoversi il diaframma, che sempre più si va paralizzando.

E la congestione e l’asfissia aumentano di minuto in minuto, come lo indicano il colorito cianotico che sottolinea le labbra, di un rosso acceso dalla febbre, e le stilature di un rosso violaceo, che spennellano il collo lungo le giugulari turgide e si allargano fino sulle guance, verso le orecchie e le tempie, mentre il naso è affilato e esangue, e gli occhi affondano in un cerchio che è livido dove è privo del sangue colato dalla corona.

Sotto l’arco costale sinistro si vede l’urto propagato dalla punta cardiaca, irregolare, ma violento, e ogni tanto, per una convulsione interna, il diaframma ha un fremito profondo che si rivela da una distensione totale della pelle, per quanto può stendersi su quel povero Corpo ferito e morente.

Il Volto ha già l’aspetto che vediamo nelle fotografie della Sindone, col naso deviato e gonfio da una parte; e anche il tenere l’occhio destro quasi chiuso, per il gonfiore che è da questo lato, aumenta la somiglianza. La bocca, invece, è aperta, con la sua ferita sul labbro superiore ormai ridotta ad una crosta.

La sete, data dalla perdita di Sangue, dalla febbre e dal sole, deve essere intensa, tanto che Egli, con mossa macchinale, beve le stille del suo sudore e del suo pianto, e anche quelle del Sangue che scende dalla fronte fin sui baffi, e si bagna con queste la lingua…

La corona di spine gli vieta di appoggiarsi al tronco della croce per aiutare la sospensione sulle braccia e alleggerire i piedi. Le reni e tutta la spina si arcua verso l’esterno, stando staccato dal tronco della croce dal bacino in su per forza di inerzia che fa pendere in avanti un corpo sospeso come era il suo.

I giudei, respinti oltre la piazzuola, non cessano di insultare, e il ladrone impenitente fa eco.

L’altro, che ora guarda con sempre maggiore pietà la Madre e piange, lo rimbecca aspramente quando sente che nell’insulto è compresa anche Lei.

«Taci. Ricordati che sei nato da una donna. E pensa che le nostre han pianto per causa dei figli. E furono lacrime di vergogna… perché noi siamo delinquenti. Le nostre madri sono morte… Io vorrei poterle chiedere perdono… Ma lo potrò? Era una santa… L’ho uccisa col dolore che le davo… Io sono un peccatore… Chi mi perdona? Madre, in nome del tuo Figlio morente, prega per me».

La Madre alza per un momento il suo viso straziato e lo guarda, questo sciagurato che attraverso al ricordo di sua madre e alla contemplazione della Madre va verso il pentimento, e pare lo carezzi col suo sguardo di colomba.

Disma piange più forte. Cosa che scatena ancora di più gli scherni della folla e del compagno. La prima urla: «Bravo! Pigliati questa per madre. Così ha due figli delinquenti!». E l’altro rincara: «Ti ama perché sei una copia minore del suo beneamato».

Gesù parla per la prima volta:

«Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno!».

Questa preghiera vince ogni timore in Disma. Osa guardare il Cristo e dice:

«Signore, ricordati di me quando sarai nel tuo Regno. Io è giusto che qui soffra. Ma dammi misericordia e pace oltre la vita.

Una volta ti ho sentito parlare e, folle, ho respinto la tua parola. ORA ME NE PENTO. E DEI MIEI PECCATI ME NE PENTO DAVANTI A TE, Figlio dell’Altissimo. Io credo che Tu venga da Dio. Io credo nel tuo potere. Io credo nella tua misericordia.

CRISTO, PERDONAMI IN NOME DI TUA MADRE E DEL TUO PADRE SANTISSIMO».

Gesù si volge e lo guarda con profonda pietà, ed ha un sorriso ancora bellissimo sulla povera bocca torturata. Dice: «Io te lo dico: oggi tu sarai con Me in Paradiso».

Il ladrone pentito si mette calmo e, non sapendo più le preghiere imparate da bambino, ripete come una giaculatoria: «Gesù Nazareno, Re dei giudei, pietà di me; Gesù Nazareno, Re dei giudei, io spero in Te; Gesù Nazareno, Re dei giudei, io credo nella tua Divinità».

L’altro continua nelle sue bestemmie….

Il cielo si fa sempre più fosco.

Gesù sembra illividire sinistramente come per inizio di decomposizione, quasi fosse già morto. La testa gli comincia a pendere sul petto. Le forze mancano rapidamente. Trema, nonostante la febbre che Lo arde.

E nella sua debolezza mormora il nome che prima ha solo detto nel fondo del Cuore: «Mamma!», «Mamma!».

Lo mormora piano, come in un sospiro, quasi fosse già in un lieve delirio che gli impedisca di trattenere quanto la volontà vorrebbe trattenere. E Maria, ogni volta, ha un atto infrenabile di tendere le braccia come per soccorrerlo. E la gente crudele ride di questi spasimi di chi muore e di chi spasima.

Molti cominciano a impressionarsi della luce che sta fasciando il mondo, e qualcuno ha paura. Anche i soldati accennano al cielo e ad una specie di cono, che pare di lavagna tanto è cupo e che si leva come un pino da dietro una vetta. Sembra una tromba marina. Si alza, si alza e pare che generi nubi sempre più nere, quasi fosse un vulcano eruttante fumo e lava.

È in questa luce crepuscolare e paurosa che Gesù dà a Maria Giovanni e a Giovanni Maria. Curva il capo, poiché la Madre si è fatta più sotto alla croce per vederlo meglio, e dice:

«Donna, ecco tuo figlio. Figlio, ecco tua Madre».

Maria ha il volto ancor più sconvolto dopo questa parola che è il testamento del suo Gesù, che non ha nulla da dare alla Madre se non un uomo, Egli che per amore dell’Uomo la priva dell’Uomo‑Dio, nato da Lei.

Ma cerca, la povera Madre, di non piangere che mutamente, perché non può, non può non piangere… Le stille del pianto gemono nonostante ogni sforzo per trattenerle, anche se la bocca ha il suo straziato sorriso, fissato sulle labbra per Lui, per confortare Lui… Le sofferenze crescono sempre più. E la luce sempre più decresce.

Le sofferenze sono sempre più forti. Il Corpo ha i primi inarcamenti propri della tetanìa e ogni clamore di folla li esaspera. La morte delle fibre e dei nervi si estende dalle estremità torturate al tronco, rendendo sempre più difficoltoso il moto respiratorio, debole la contrazione diaframmatica e disordinato il movimento cardiaco.

Il Volto di Cristo passa alternativamente da vampe di rossore intensissimo a pallori verdastri di morente per dissanguamento. La bocca si muove con maggiore fatica, perché i nervi sovraffaticati del collo e del capo stesso, che hanno per decine di volte fatto da leva al corpo tutto puntandosi sulla sbarra trasversa della croce, propagano il crampo anche alle mascelle.

La gola, enfiata dalle carotidi ingorgate, deve dolere ed estendere il suo edema alla lingua, che appare ingrossata e lenta nei movimenti. La schiena, anche nei momenti che le contrazioni tetanizzanti non la curvano ad arco completo dalla nuca alle anche, appoggiate come punti estremi al tronco della croce, si arcua sempre più in avanti, perché le membra divengono sempre più pesanti del peso delle carni morte.

La gente vede poco e male queste cose, perché la luce è ormai di un cenere cupo, e solo chi è ai piedi della croce può vedere bene.

Gesù si affloscia, un certo momento, tutto in avanti e in basso, come già morto; non ansa più, la testa gli pende inerte in avanti, il corpo dalle anche in su è tutto staccato facendo angolo con le braccia alla croce.

Maria ha un grido: «È morto!». Un grido tragico che si propaga nell’aria nera. E Gesù appare realmente morto.

L’oscurità si fa ancora più fitta. Gerusalemme scompare del tutto.

Lo stesso Calvario pare annullarsi nelle sue falde. Solo la cima è visibile, quasi che le tenebre la tengano alta a raccogliere l’unica e l’ultima superstite luce, posandola come per una offerta, col suo trofeo divino, su uno stagno di onice liquida, perché sia vista dall’amore e dall’odio.

E dalla luce non più luce viene la voce lamentosa di Gesù:

«Ho sete!».

Gesù, che ha succhiato avidamente l’aspra e amara bevanda, torce il capo, avvelenato dal disgusto di essa. Deve, oltretutto, essere come del corrosivo sulle labbra ferite e spaccate.

Si ritrae, si accascia, si abbandona. Tutto il peso del Corpo piomba sui piedi e in avanti. Sono le estremità ferite quelle che soffrono la pena atroce dello slabbrarsi sotto il peso di un Corpo che si abbandona. Non più un movimento per sollevare questo dolore. Dal bacino in su, tutto è staccato dal legno, e tale resta.

La testa pende in avanti tanto pesantemente che il collo pare scavato in tre posti: al giugolo, completamente infossato, e di qua e di là dello sternocleidomastoideo. Il respiro è sempre più anelante, ma interciso. È già più un rantolo sincopato che un respiro. Ogni tanto un colpo di tosse penosa porta una schiuma lievemente rosata alle labbra. E le distanze fra una espirazione e l’altra diventano sempre più lunghe.

L’addome è già fermo. Solo il torace ha ancora dei sollevamenti, ma faticosi, stentati… La paralisi polmonare si accentua sempre più. E sempre più fievole, tornando al lamento infantile del bambino, viene l’invocazione: «Mamma!».

E la misera mormora: «Sì, tesoro, sono qui».

E quando la vista che si vela gli fa dire: «Mamma, dove sei? Non ti vedo più. Anche Tu mi abbandoni?», e non è neanche una parola, ma un mormorio che appena è udibile da chi più col cuore che con l’udito raccoglie ogni sospiro del Morente, Ella dice:

«No, no, Figlio! Non ti abbandono Io! Sentimi, caro… La Mamma è qui, qui è… e solo si tormenta di non poter venire dove Tu sei…». 

È uno strazio…

Un silenzio. Poi, netta nell’oscurità totale, la parola: «Tutto è compiuto!», e poi l’ansito sempre più rantoloso, con pause di silenzio fra un rantolo e l’altro, sempre più vaste.
Il tempo scorre su questo ritmo angoscioso.

La vita torna quando l’aria è rotta dall’anelito aspro del Morente… La vita cessa quando questo suono penoso non si ode più. Si soffre a sentirlo… si soffre a non sentirlo… Si dice:

«Basta di questa sofferenza!», e si dice:

«Oh! Dio! che non sia l’ultimo respiro».

Le Marie piangono tutte, col capo contro il rialzo terroso. E si sente bene il loro pianto, perché tutta la folla ora tace di nuovo per raccogliere i rantoli del Morente. Ancora un silenzio. Poi, pronunciata con infinita dolcezza, con ardente preghiera, la supplica:

«Padre, nelle tue mani raccomando lo Spirito mio!».

Ancora un silenzio. Si fa lieve anche il rantolo. È appena un soffio limitato alle labbra e alla gola.

Poi, ecco, l’ultimo spasimo di Gesù.

Una convulsione atroce, che pare voglia svellere il Corpo infisso, coi tre chiodi, dal legno, sale per tre volte dai piedi al capo, scorre per tutti i poveri nervi torturati; solleva tre volte l’addome in una maniera anormale, poi lo lascia dopo averlo dilatato come per sconvolgimento dei visceri, ed esso ricade e si infossa come svuotato; alza, gonfia e contrae tanto fortemente il torace, che la pelle si infossa fra coste e coste che si tendono, apparendo sotto l’epidermide e riaprendo le ferite dei flagelli.

Fa rovesciare violentemente indietro, una, due, tre volte il capo, che percuote contro il legno, duramente; contrae in uno spasimo tutti i muscoli del volto, accentuando la deviazione della bocca a destra, fa spalancare e dilatare le palpebre sotto cui si vede roteare il globo oculare e apparire la sclerotica.

Il Corpo si tende tutto; nell’ultima delle tre contrazioni è un arco teso, vibrante, tremendo a vedersi, e poi un grido potente, impensabile in quel Corpo sfinito, si sprigiona, lacera l’aria, il «grande grido» di cui parlano i Vangeli e che è la prima parte della parola «Mamma»… E più nulla…

La testa ricade sul petto, il corpo in avanti, il fremito cessa, cessa il respiro. È spirato.

La Terra risponde al grido dell’Ucciso con un boato pauroso.

Sembra che da mille buccine dei giganti traggano un unico suono e su questo tremendo accordo ecco le note isolate, laceranti dei fulmini che rigano il cielo in tutti i sensi, cadendo sulla città, sul Tempio, sulla folla…

Credo che ci saranno stati dei fulminati, perché la folla è colpita direttamente. I fulmini sono l’unica luce saltuaria che permetta di vedere. E poi subito, e mentre durano ancora le scariche delle saette, la Terra si scuote in un turbine di vento ciclonico.

Il terremoto e l’aeromoto si fondono per dare un apocalittico castigo ai bestemmiatori. La vetta del Golgota ondeggia e balla come un piatto in mano di un pazzo, nelle scosse sussultorie e ondulatorie che scuotono talmente le tre croci che sembra le debbano ribaltare.

Maria alza il capo dal petto di Giovanni e guarda il suo Gesù.

Lo chiama, perché mal Lo vede nella poca luce e coi suoi poveri occhi pieni di pianto. Tre volte lo chiama: «Gesù! Gesù! Gesù!».

È la prima volta che Lo chiama per nome da quando è sul Calvario. Infine, ad un lampo che fa come una corona sopra la vetta del Golgota, Lo vede, immobile, tutto pendente in avanti, col capo talmente piegato in avanti, e a destra, da toccare con la guancia la spalla e col mento le coste, e comprende.

Tende le mani che tremano nell’aria scura e grida: «Figlio mio! Figlio mio! Figlio mio!».

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

CRISTO RE. XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C. (Lc 23,35-43)ultima modifica: 2019-11-23T21:19:52+01:00da angelaurgese20
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